Colpo d’air

L’invito è arrivato per mail. La presentazione dell’agenzia è per venerdì sera, ore 19. Dall’invito non si capisce molto, poche righe per illustrare le finalità dell’agenzia, i tipi di servizi offerti. Il luogo è il 104, vecchia morgue art-noveau ristrutturata e adibita a spazio sociale, nel XIX arrondissement. Arrivo in ritardo, nella grande hall dai plinti in ferro e dalla volta in vetro una ragazza dell’organizzazione, con walkie-talkie e giubbotto, mi accoglie. Ci sono altri ritardatari. Ci dice che la presentazione è già iniziata, e quindi ci fa entrare assieme per arrecare minor disturbo. Entriamo nella sala, non ci sono che posti liberi in prima fila. Mi siedo, con quell’imbarazzo che coglie colui che si sente osservato da un’intera sala. I due membri dell’agenzia AIR – sigla che significa Agence Internazionale de Remplacement, come vengo a sapere – hanno già iniziato i loro discorsi. Lui, alto e magro, brizzolato, occhialini, occhi chiarissimi, giacca grigia. Lei, anche lei è alta, camicia bianca e jeans, giacca nera, occhi chiarissimi, capelli fulvi e folti. Rimangono in piedi tutto il tempo, appunti su un leggìo, schermo alle loro spalle, lavagna accanto. Due collaboratori al Mac per la proiezione dei video. Parlano velocemente, con un linguaggio conciso e professionale, riconosci facilmente le espressioni del marketing. Lui è più ritmico, più tecnico. A lei è affidata la parte più narrativa. Sono efficaci, senza dubbio. Sembrano quasi degli attori. A un certo punto – dopo aver squadernato un discorso sull’assenza – lui fa l’appello degli invitati, chiedendo di rispondere con un “presente”. La trovata è inquietante. Molti sono assenti, e ciò viene sottolineato. Letti i primi venti nomi, il professionista si ferma. “Era solo un esempio per dimostrarvi quanto l’assenza incida le nostre vite. C’è dell’assenza ovunque”. Mi pare di essere capitato in una situazione sartriana, osservatore di un mondo fatto di vuoti e di buchi. Da lì il velo di mistero comincia a sollevarsi, un po’ per volta. AIR propone un prodotto innovativo, dice lei, su misura del cliente e dei suoi desideri. In un mondo abitato da assenze, i professionisti di AIR – così entrambi – sostituiscono il cliente in situazioni e circostanze determinate, in modo tale che là dove poteva esserci un’assenza ci sia al contrario una presenza. In sostituzione, certo, ma sempre in nome e per conto di, sottolineano entrambi. Dopo una prima fase durata circa due anni, racconta allora lei, la rossa, una fase nella quale abbiamo sperimentato la sostituzione come se fossimo degli attori – dunque cercando di imitare al meglio il nostro cliente – ora siamo in grado di togliere la cornice di finzione e di presentarci come suoi reali sostituti, così dice, prendendone il posto in ogni circostanza che possa essere inquadrata nel nostro protocollo professionale. I due fanno proiettare i video che illustrano il cambio di strategia nell’offerta del servizio, poi vengono elencati i punti del protocollo professionale: la sostituzione non è incarnazione (il professionista non incarna il cliente), la sostituzione non può avvenire per finalità illegali né per scopi di natura sessuale, così lui. È il quadro deontologico che viene sottoscritto al momento del contratto con il cliente. Lui evidenzia il plusvalore offerto dal servizio: sostituire qualcuno significa agire in una situazione per produrre degli effetti per conto del cliente sulla sua vita, mirando così a realizzarne i desideri, così dice. La presentazione dei servizi prosegue per un’altra mezz’ora, con grafici sulla lavagna e illustrazioni ulteriori dei vantaggi per il cliente. Ultimo video, poi spazio alle domande degli invitati. Che sono parecchie. Lui e lei rispondono sottolineando la novità del servizio, l’affidabilità, certi di avere colto un’esigenza sempre più pressante nel mondo attuale, una richiesta di presenza che si farà sentire in misura sempre maggiore in futuro, così entrambi. Sorridono, come per tutta la durata della presentazione. Drink finale per gli ospiti, distribuzione dei biglietti da visita. Lui, il brizzolato dagli occhi chiarissimi e lei, la rossa in giacca nera, girano tra il pubblico per rispondere alle ultime domande, più personali. Vedo volti un po’ smarriti, così dev’essere il mio.

Mi chiedo se sarebbe stato meglio farmi sostituire, questa sera. PS: per informazioni sulle attività e i servizi di AIR, il contatto indicato nei biglietti da visita di AIR è il seguente: Alain Gintzburger, Secretaire Général;  ag@agenceair.com; www.agenceair.com  [rk]

Come pensa la destra italiana in Alto Adige

Un dipinto di Mario Sironi

I lettori abituali di questo blog conoscono per certo il giovane Alessandro Bertoldi (detto CIAO.BERTO). Si tratta di un ragazzino che in altri tempi (con un termine oggi desueto) avremmo definito “sbarazzino”. Berto s’interessa di politica, cosa di per se né lodevole né da biasimare (credo però rappresenti più un’eccezione che la norma), ed è un ammiratore di Silvio Berlusconi (non sappiamo però se anche lui lo chiama “papi”). Da altoatesino verace, Berto segue con passione anche le discussioni che avvengono sui temi locali. Come quella (annosa) sulla toponomastica. E a questo proposito, alcuni giorni fa, ha pubblicato un post superlativo: un vero e proprio compendio di tutta l’insipienza e l’approssimazione coltivata per decenni dalla destra altoatesina sull’argomento. Ne cito solo poche righe, ma a mio avviso bastevoli per fotografare impietosamente questo deleterio orizzonte politico e, temo, un gran numero di persone purtroppo molto più anziane del nostro simpatico Berto.

Voglio anche domandarmi se a Durnwalder dia fastidio che la toponomastica italiana sia stata scritta dal fascista e senatore del Regno,il defunto Tolomei, in questo caso risulterebbe un pò ridicola come cosa, ma non sarebbe poi così grave, basterebbe soltanto che una commissione tecnica bilingue si mettesse subito al lavoro per tradurre se necessario risalendo anche all’origine e alla radice dei toponimi originali per poi convertirli in lingua italiana nel modo più corretto. Tolomei non è stato evidentemente il detentore della verità assoluta, certamente molti toponimi possono risultare dei falsi storici, anche ad occhio spesso ci si fa caso, ma credo che risalendo alla radice dell’attuale toponimo originale ed originario si potrà con facilità constatare che molti dei toponimi attualmente tedeschi, alla radice erano latini e quindi più facili da “tradurre” o da riscrivere.

Questo è parlar chiaro

Il nostro ineffabile e sempre così affabile superciuk, autore di un pamphlet di 1500 pagine intitolato provvisoriamente “Il guano bifronte”,  ha finalmente detto qualcosa di chiaro. Non un vero e proprio programma, ma qualcosa che si avvicina a un proclama. Glielo abbiamo dovuto tirare fuori con le pinze, per tutti questi anni. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Eppure la ricetta era semplice e, direi, a portata di mano. Luigi D’Ambrosio si è iscritto oggi (dopo tanto penare) al partito di Eva Klotz. Niente male per uno che ha scritto centinaia d’interventi per ironizzare contro quelli che avrebbero dovuto scendere in piazza e mettere i banchetti per la raccolta delle firme. Quando si dice un ragionatore lucido. Complimenti vivissimi.

Rispondo sempre, ma c’hanno la sindrome del compagno cogliombelo che dorme, che io, il tutto, compresi quelli che ci mangiano, di autonomia (pensa te cosa farebbero certi onanopoliticallzgwergelein se non ci fosse il mammellone provincialsvp), gli permetterei di vedere se voglion tornar con gli austriaci. Non è Italia, dai, inutile stare a discutere. Io proprio non lo capisco, questo accanimento contro questa gente. Ma davvero qualcuno pensa che, come con una donna, regali e regalini, magari pure o’ pelliccio’- serva a tener la compagna fedele se lei ama un altro? [per il resto leggi QUI]

Autonomia, fantasmi inevitabili

Qualche giorno fa parlavo con un conoscente dell’attuale situazione politica sudtirolese e il discorso è finito sul ruolo svolto dai simboli. Sono i simboli – affermava il mio conoscente – che ci rovinano. Se non ci fossero questi monumenti risalenti a un passato nefasto, questi nomi appiccicati sui sentieri di montagna, se non ci fossero carte d’identità e passaporti (che qualcuno vuole persino duplicare o sovrapporre gli uni sugli altri), o se almeno si riuscisse a non dare a questi simboli molta importanza, ognuno sarebbe costretto a riconoscere la bontà pragmatica della nostra autonomia, ne loderebbe gli indubbi meriti (finalmente senza riserve) e tutti vivrebbero felici e contenti.

L’idea che sostiene una posizione del genere tende a considerare il piano simbolico come qualcosa di staccato e accessorio rispetto al piano dei fatti. Riconoscendo la tangibilità di questi ultimi, si argomenta, dovremmo essere indotti ad allentare la pressione dei primi, fino a liberarcene completamente per mezzo di una progressiva chiarificazione che ricorda un po’ il sogno illuminista dell’affrancamento dai miti.

Mi chiedo: davvero la nostra autonomia sarebbe possibile se non fosse messa in questione da ricorrenti polemiche di carattere simbolico? O meglio: davvero la natura spettrale dei simboli, la loro scenografia fatta di paure e sospetti reciproci, può essere dissolta esibendo semplicemente in primo piano una realtà benevola e pacificata? Il sospetto è che con ciò sfugga proprio l’essenza profonda dell’autonomia, la quale è sì scaturita dal duro (e proficuo) lavoro di contenimento del potenziale di conflittualità proveniente nella nostra società, ma è costretta anche a conservarne e per così dire a evocarne ritualmente la traccia allo scopo di legittimare e consolidare i propri meccanismi immunitari.

Paradossalmente non potremo mai liberarci dai simboli e dai fantasmi che minacciano la pratica della nostra autonomia senza intaccarne la stessa radice. Dunque l’unica cosa che possiamo fare è circoscriverne gli effetti al campo della mera rappresentazione, riflettendo sulle dinamiche della loro proliferazione, decostruendo i tratti che esercitano ancora attrazione, congedando infine l’illusione di risparmiarci la fatica di contribuire ogni giorno al loro indebolimento. Nessuna soluzione definitiva, insomma, ma una estenuazione costante, un vigile depotenziamento dei contrasti sempre sul punto di rinascere. È poco? Può darsi. Ma considerando quello che abbiamo visto accadere in passato non è un risultato disprezzabile.

Il Corriere dell’Alto Adige, 26 gennaio 2010

Un resoconto qualunque

Disegno di Alfred Kubin

Ovvero: Il Sudtirolo spiegato a RenataRanetta

La testa, se la scuoti e poi la versi in un bicchiere, contiene poco o niente: la mente, geometrici rottami, ghirigori, gemme, quadrati vuoti o pieni, mostruose simmetrie.

Il sudtirolese che ci tocca immaginare, costretto al proprio ruolo  da un copione duro, duramente scritto da uomini induriti dalla storia, si toglie il copricapo, si taglia i capelli a zero, si strappa il cuoio capelluto e si sguscia la testa, levandosi l’osso occipitale impari e incavato a forma di conchiglia per vedere che cosa ci sia sotto, avvedendosi con sorpresa che là, dove dovrebbe esserci il cervello, c’è invece un cappello sbertucciato pien di piuma d’uccel di grossa penna. Di fronte a lui, contemporaneamente, l’altoatesino che ci tocca immaginare, appiccicato al proprio ruolo da un copione molle, mollemente scritto da uomini rammolliti dalla storia, si toglie il copricapo, si taglia i capelli a zero, si strappa il cuoio capelluto e si sguscia la testa, levandosi prima con i diti lunghissimi dei piedi l’osso parietale e poi, con le dita affusolate delle mani, l’osso occipitale a forma di conchiglia, accorgendosi con un certo stupore che là, dove ci si aspetterebbe di trovare l’organo molle e polposo tutto intiero che riempie la cavità del cranio, non c’è proprio nulla.

Se la scena principale non fosse così avvincente, gli spettatori in platea con l’udito più fine si accorgerebbero che in un angolo in penombra del sottopalco rotola non visto il solito teschio verde che vorrebbe mescolare il cappello piumato con il niente. „Anche lui, poveraccio, fa parte dello spettacolo“ dice il tizio che siede alle mie spalle. „Già, ma cosa significa tutto questo?“ gli  chiede Irina con la testa poggiata sul petto di Olga. „Perché non ce ne andiamo? Qui l’aria è pesante, ristagna. Non sente anche lei uno strano odore di muffa? Dalle vecchie tappezzerie esala un alito rancido. Non lo sente anche lei? Non lo sente? Ah, soffoco, soffoco….“. „Ma che dice? Il nostro clima è il migliore d’Europa. Abbiamo il profumo dei larici, qui, abbiamo il fieno tagliato.  Bisogna recitare, lavorare. Dobbiamo lavorare, recitare…“. „Sì, ha ragione lei. Forse verrà un giorno in cui tutto questo ci apparirà chiaro, ma intanto dobbiamo recitare, lavorare… Però qui fa caldo, molto caldo, e il pavimento è sempre più limaccioso. Ma poi, scusi, mi sa spiegare da dove saltano fuori tutti questi ranocchi? Qui l’aria è satura. Capisce cosa intendo? L’aria è greve, viziata… respirare sta diventando difficile, e questi mosconi, poi…“. Sarebbe bello poter trascrivere queste parole nel mio resoconto, ma come fare? A questo punto il copione prevede che un soffio di maestrale, libeccio o tramontana sollevi il mio foglietto per sospingerlo sotto le luci della ribalta. La pagina volteggia, resta sospesa, piroetta nel vuoto, manda ombre tremolanti sul fondale, svolazza, galleggia nell’aria, offre un saggio di levità. Poi, quando il vento cessa di spirare, si fa improvvisamente ponderosa e precipita giù in basso, inghiottita dalla botola di scena senza essere letta. Dai corridoi, tra fumi colorati che si diffondono nell’aria mescidandosi, vengono grida tonfi sinistri balenii di vortici scarlatti. “Chi può fermarli?”. “L’Imperatore, forse, se entra in giostra sul cavallo degli scacchi”. In attesa che Norbert C. Kaser, accoccolato sui ginocchi sbucciati di Clemente Rebora, cominci a recitare una poesia di Trakl ai ritmi impossibili di Dino Campana, un cameriere scivola svelto tra le poltroncine. Distribuisce bibite e panini e rivolge agli spettatori le parole di rito: „Lemonsoda? Coca cola? Vino bianco?“. „I nostri succhi di frutta sono biologici“. „Nel panino al formaggio ci metto il cetriolino?“. „Per le signore e i signori più esigenti abbiamo preparato degli squisiti involtini primavera“.

E pensare che questa farsa durerà ancora miliardi d’anni, scrisse Flaiano da qualche parte. C’è da augurarsi che avesse ragione. [edz]

Eros

Disegno di Paolo Eleuteri Serpieri

Stamattina è accaduto l’impensabile. Un paio di miei studenti mi hanno chiesto se gli regalavo il giornale. Ovvio, si trattava dell’edizione del lunedì del Foglio, con un succoso inserto dedicato all’erotismo con tanto di foto esplicite. Fra parentesi, lì si dava l’annuncio della morte (ma con resurrezione imminente sotto altre spoglie) della storica rivista “Blue”.

Benedetta Tobagi

Sto finendo di leggere questo libro meraviglioso (a dispetto del tema, che è orribile). Davvero consiglio a tutti di comprarlo e di sfogliarlo con la cura e vorrei dire anche la riconoscenza che merita. Non mi dilungo in commenti potendo ricorrere a quanto ha già scritto Roberto Saviano, presentandolo ai lettori di Repubblica.

http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/terrorismo/libro-tobagi/libro-tobagi.html?ref=search

Gli ecologisti delle ferrovie

Il telegiornale di France 3 ha dedicato questa sera un servizio sulle manifestazioni No Tav, intitolato “Gli ecologisti delle ferrovie”. Il servizio è stato collocato come primo nella scaletta del tg e lanciato tra i titoli di testa. Nel servizio si racconta che tra i quindici e i ventimila manifestanti si sono riuniti oggi sui Pirenei francesi per protestare contro la costruzione della linea ad alta velocità (in Francia viene chiamata come si deve) che dovrebbe unire Bordeaux al confine spagnolo. Quindi il servizio rende conto della manifestazione in Val di Susa, in opposizione alla costruzione della Lione-Torino. Viene detto che, malgrado il freddo, più di ventimila persone hanno preso parte, con donne e bambini in testa: “la resistenza è diventata cultura familiare”. Viene poi intervistato Alberto Perino, definito “il José Bovè della Valle” che ricorda come le trivellazioni siano state impedite dalle proteste popolari. “Si tratta di una dimostrazione di forza”, commentano i giornalisti francesi. Domani – ricorda il servizio – a Torino ci sarà una riunione di politici locali a sostegno dell’alta velocità. [rk]

Auf der Brücke

Purtroppo non conosco in dettaglio i motivi per i quali Peter Handke si è impegnato così tanto, ha scritto così tanto per opporsi alla secessione del Kosovo dalla Serbia. Sto leggendo adesso un libro che mi pare fatto di nebbia (incespico, non capisco, mi perdo, non solo a causa della lingua). Ma sento che se capissi di più capirei anche meglio il Sudtirolo. Ma forse m’illudo. Anche le illusioni sono fatte di nebbia.

Il libro si chiama “Die Kuckucke von Velika Hoca – Eine Nachschrift” (Suhrkamp) e ne vorrei riportare un passo. Parla di un uomo (l’autore) che attraversa un ponte e diffonde una inaspettata sensazione di pace, emanata dai saluti amichevoli dei soldati (i quali non richiedono i documenti: dunque nessun passaporto qui, né singolo né doppio) e dai rotoli di filo spinato spostati di lato, come se provenissero da un tempo passato. Tanto da affermare (qualche pagina dopo): “Aus solcher den Norden wie den Süden umfassenden Friedlichkeit heraus ein einziges Wundern, daß das nicht auch schon in der Zeit vorher so hatte sein können…”.

War es dann so? Ich weiß es bis heute nicht so recht, und möchte versuchen, es durch das Aufschreiben herauszufinden. Auf der Brücke brauchte ich mich, gegen die Erwartung, nicht auszuweisen. Sie wurde auf der serbischen Seite bewacht von Franzosen, das war schon an den Uniformen zu erkennen, auf der albanischen Seite von, an jenem Morgen wenigstens, schwarzen Amerikanern. Grüßen in beiden Sprachen, und freundliches, jedenfalls nirgends argwöhnisches Zurückgegrüßtwerden. Mir war, ich sei der erste Brückengänger am Tag, und die Soldaten sähen sich bei meinem Passieren in der Tat als Angehörige einer Schutztruppe. Der Ibar, nicht gar tief unten, rauschte, trotz des gelegentlichen Aufheulens der Kawasakis, Harley Davidsons etc., vernehmlich dahin, noch ein Gebirgsfluß, schnell und, abgesehen von den eher verwahrlosten Ufern, eher rein, wohl auch, weil in Kosovska Mitrovica und Umgebung lange schon jede Industrie lahmlag? Die Stacheldrahtrollen, beiseite geschoben hüben wie drüben dann, wirkten wie aus einer Vorzeit.

http://www.lefigaro.fr/debats/2008/02/20/01005-20080220ARTFIG00656-notre-venerable-europea-perdu-son-cur-.php

Chi ha paura della toponomastica?

Sull’Alto Adige di oggi Francesco Palermo ha pubblicato un ottimo articolo che spiega benissimo quello che per me signfica “rappresentazione del contrasto etnico“. Giustamente Palermo mette in evidenza come il contrasto sia oggi tutto spostato sul piano simbolico, mentre sul piano pragmatico molti problemi sono risolti o si possono comunque risolvere (benché siano più complessi, almeno apparentemente, di quelli simbolici). Soltanto riguardo alla conclusione del suo ragionamento mi permetto di segnalare una divergenza tra la sua interpretazione e la mia. Mentre infatti per Palermo sembra che i contrasti simbolici possano essere superati semplicemente riconoscendo al piano pragmatico la sua supremazia (e in questo senso la citazione finale postula una sorta di evoluzione o meglio di emancipazione dal simbolico, visto quasi alla stregua di retaggio di un mondo primitivo), io sono convinto che il simbolico (cioè il livello delle “semicieche fissazioni e appartenenze”) non solo non sia mai disposto a mollare la presa, ma nel nostro caso sia una diretta emanazione del livello pragmatico che si vorrebbe a lui superiore. Ma ci sarà modo di approfondire il discorso.

* * *

La politica dell’autonomia ha due volti, quello simbolico e quello pragmatico. Come un metronomo, al tocco da una parte segue inesorabilmente quello dall’altra. Il volto pragmatico si e’ mostrato col recente accordo per il coordinamento della finanza delle province autonome di Bolzano e Trento con gli obiettivi del “federalismo fiscale”. Nonostante la complessità della materia, è bastato un incontro tra i presidenti Durnwalder e Dellai e i ministri responsabili per raggiungere un importantissimo risultato. Subito dopo il pendolo si è spostato sul versante simbolico, rilanciando temi tecnicamente più semplici (clausola di tutela, autodeterminazione, toponomastica), ma ai quali da anni non si riesce a trovare soluzione.

In questo modo i rapporti tra Bolzano e Roma continuano tra alti e bassi. E a ben vedere i bassi sono sempre e solo sulle questioni simboliche, mentre ciò che conta davvero funziona piuttosto bene. I simboli sono necessari per mantenere in movimento il sistema e soprattutto come carta negoziale. Nel contempo, l’apertura al dialogo dimostra che in ogni stagione si possono fare passi in avanti sulla strada di una convivenza matura. Non è quindi vero che in presenza di un governo se non ostile quantomeno difficile per le autonomie speciali le riforme non siano possibili, come viene spesso detto per giustificare l’immobilismo sulla riforma dello statuto. Quando si vuole, lo statuto si può modificare, come sta avvenendo per gli accordi sul finanziamento delle Province autonome, che andrà a toccare gli articoli 75-79 della carta fondamentale dell’autonomia.

Insomma, i problemi si possono risolvere spostando le questioni simboliche sul piano pratico, col doppio vantaggio di disinnescare i simboli e di risolvere i problemi. Si può fare anche con la toponomastica.

La toponomastica è forse l’unico reale punto di forza della comunità italiana in Alto Adige. Nulla si può fare senza il suo consenso, e senza un accordo non ci potrà mai essere una toponomastica che non sia interamente bilingue, senza eccezioni, perché qualunque forzatura unilaterale sarebbe illegittima. La SVP lo sa benissimo, gli italiani meno.

Così la SVP forza per poter negoziare, e gli italiani dicono un no di maniera, come rara occasione per mostrare di esistere. Un teatrino che però non fa bene alla convivenza. La SVP non si accontenta del bilinguismo totale ed è disposta a molto, forse a tutto, per rompere il principio. E’ un peccato che la SVP sia contraria ad una toponomastica completamente bilingue, ma lo è altrettanto che i partiti italiani siano così affezionati ad essa. Così il tema resta ostaggio di due debolezze. Quella della SVP, che insiste per paura delle destre tedesche, e quella degli alleati italiani, che temono le destre italiane. Ma con la paura non si va avanti e si resta impantanati nei simboli.

Dovrebbero essere gli italiani a sfruttare la situazione con proposte razionali, mettendo sul piatto della toponomastica una contropartita ragionevole. Il guaio è che gli “italiani”, e meno ancora i partiti che li rappresentano, non sono in grado di avanzare alcuna proposta seria, perché su tutto c’è dissenso. Potrebbero proporre l’allentamento della proporzionale, ma una parte la vuole tenere in piedi più di quanto vogliano i tedeschi. Potrebbero rilanciare sulla scuola, ma nessuno si azzarda a fare proposte per paura di smuovere le acque. Potrebbero ipotizzarsi forme di maggiore coinvolgimento nel processo decisionale, ma queste si sono finora ridotte a calcoli sulle poltrone (ricordate il “terzo assessore italiano”?).

Da parte tedesca c’è la vecchia proposta Durnwalder, concreta e non scandalosa, che vorrebbe distinguere tra macrotoponomastica (bilingue) e microtoponomastica (che potrebbe essere anche monolingue a decisione dei comuni). Da parte italiana cosa c’e’? Né controproposte, né un no convinto. Così si resta, da una parte e dall’altra, sul piano dei simboli. Un piano che, come ha scritto il filosofo Lombardi Vallauri, “tend[e] a catalizzare l’aggressività, a mobilitare-contro: i simboli svelano un livello, intellettuale e relazionale, primitivo dello sviluppo umano, quello delle semicieche fissazioni e appartenenze”. Saperne uscire indicherebbe la capacità di un colpo d’ala per spezzare la logica del metronomo. Ma, si sa, ci sono le comunali alle porte. [Francesco Palermo]