Filo spinato davanti alle scuole

Le nostre scuole sono ancora edificate con i mattoni concettuali del vecchio nazionalismo. Ecco perché vengono schiacciate dalle contraddizioni dell’esistente.

Il tema del quale sto per parlare, probabilmente, non è già più un tema del quale “si parla”. Non perché sia effimero, cioè destinato a comparire e sparire senza lasciare traccia, ma al contrario perché si tratta proprio di uno di quei temi eterni, direi consunstanziali al discorso pubblico sudtirolese, e dunque assai ricorrente, ancorché in un modo stranissimo: tutti hanno al riguardo qualcosa da dire, ma alla fine, quando cioè se ne è discusso per un po’, accalorandosi pure, è come se di questo tema non importasse più niente a nessuno, e comunque non si produce alcuna innovazione significativa nella sua trattazione, non si palesano cambiamenti di sorta, tanto che le cose tornano subito esattamente quelle di prima, in attesa che tra qualche anno se ne riparli con la medesima prospettiva votata allo scacco e al totale insuccesso. Il tema, chiaramente, è quello del “bilinguismo”.

Ora, se le cose stanno così – e a me pare stiano esattamente così – occorre porsi la domanda giusta al fine di puntare lo sguardo nel groviglio apparentemente inestricabile che ci blocca, che rende una simile discussione per l’appunto sterile, ricorsiva, e quindi anche estremamente irritante nella sua trita ricorsività. Credo che il motivo di fondo sia questo: in Sudtirolo non si riesce ancora a superare la contraddizione tra senso delle opportunità e senso dell’identità che il tema del “bilinguismo” (o per meglio dire del “plurilinguismo”) attiva in chi lo osserva o lo vive tentando (come si è detto, senza minimamente riuscirci) di mediare la dimensione privata e collettiva che lo caratterizzano. La politica, come sappiamo, si è dimostrata e ogni volta si dimostra del tutto incapace di pensare produttivamente tale contraddizione. In apparenza tutti sono d’accordo, o perlomeno lo sarebbero su un fatto molto banale: parlare più lingue è meglio che parlarne una sola. Quello che però vale a livello individuale (e – ripeto – è apprezzato sul piano della logica delle opportunità) viene sostanzialmente rifiutato a livello di gruppo, giacché la percezione dell’identità collettiva è ancora totalmente riferita al dogma di una aderenza completa all’ideale del monolinguismo, così come esso è stato modellato nell’epoca dei nazionalismi e dei revanscismi ottocenteschi e novecenteschi. Tradotto in termini elementari: ciò che è sicuramente auspicabile per Patrizio e per Patrick (ma anche per Luisa e Luise, per non dire di Omar, di Pedro, di Natalka e di Imane) lo diventa molto meno se le singole persone cessano di essere intese nella loro singolarità, ma al contrario vengono prese come rappresentanti di entità collettive feticizzate, ritenute da salvaguardare nei loro tratti essenziali (essenzialismo che, quindi, si oppone alle sfumature e alla proliferazione delle differenze).

La scuola è il campo in cui questa contraddizione di fondo stride di più. Basta osservare una classe qualsiasi – a meno di non cercarla in quelle porzioni di territorio in cui ancora persiste un monolinguismo legato a schemi conosciuti, ma è bene sapere che si tratta di fenomeni più orientati al passato che al futuro – per rendersene conto. Solo a condizione di percepire le aspirazioni delle persone che abbiamo davanti come obbedienti a un disegno di standardizzazione formativa che, di fatto, ne trascende le peculiarità, potremmo dire di trovarci in una situazione priva di scarti, di pieghe ed esigenze come se la figurano i fautori di una scuola d’ispirazione etno-nazionale (e una scuola d’ispirazione etno-nazionale è anche una scuola orientata esclusivamente alla tutela di una minoranza etno-nazionale). Oggi, però, non siamo più nel 1957, o anche nel 1980, non viviamo cioè in un contesto in cui tale finzione etno-nazionale può essere spacciata per la norma sempre valida in grado di abolire e persino brutalizzare ogni altra eccezione. Persino una società a vocazione immobilista come quella sudtirolese ha nel frattempo subito trasformazioni radicali, e si tratta di trasformazioni che non possono essere negate solo perché non si sa bene come affrontarle, continuando così a mettere la testa sotto la sabbia. Eppure, quando si sente dire che davanti alla domanda di uno studente o una studentessa x che vuole iscriversi nella scuola z occorre “prima” stabilire se quello studente o quella studentessa sarebbe “già” in grado di seguire le lezioni in un certo modo, o quando si sente affermare che per disciplinare le condizioni di accesso a quella scuola occorre vincolare i genitori a un programma d’istruzione linguistico che, di fatto, ha il solo scopo d’inibire in prima battuta il progetto di quei genitori, frustrandone le ambizioni, quando si sentono queste cose è esattamete con quel movimento di sotterramento e d’inabissamento della testa nella sabbia che abbiamo a che fare, e se anche la vera frase da dire viene taciuta, essa si può percepire con chiarezza dalla profondità della sabbia sotto alla quale la si vorrebbe nascondere: noi – recita quella voce con grande e sconfortante chiarezza – non possiamo accogliere vostro figlio a scuola perché l’impostazione della nostra scuola non è pensata per apprezzare e affrontare le peculiarità concrete di vostro figlio, non è tarata sulle sue esigenze, che noi in effetti non abbiamo previsto e nessuno ci chiede di prevedere, ma solo sulla salvaguardia astratta di un gruppo di appartenenza a limitata capacità d’inclusione.

Dobbiamo essere onesti. La contraddizione di fondo, che ho cercato di richiamare, non è uno specifico sudtirolese, perché in qualsiasi altro luogo disciplinato dalla logica etno-nazionale e dal monolinguismo dominante che la caratterizza, tenderà ad emergere anche se con diversa intensità e forse in modo meno eclatante di quanto faccia al confine tra due stati nazionali di recente formazione (l’Italia e l’Austria), per di più con un passato conflittuale alle spalle che fa sempre comodo riscaldare. Ci vorrebbe quasi un miracolo per superare una contraddizione di questo tipo, e ci vorrebbe una creatività ancora del tutto inimmaginabile per anteporre alle esigenze dei gruppi che pensano se stessi a partire dal modello etno-nazionale ricamato sulla prevalenza del monolinguismo un’intelligenza di tipo complessivo, che muova invece da ciò che oggi è destinato sempre a soccombere, vale a dire dalle individualità eccedenti, irriducibili alla logica dei gruppi.

In realtà, come ho detto all’inizio, anche se questa contraddizione è emersa già da diversi anni, e nonostante si siano avuti molteplici interventi al fine di adattare la formazione linguistica offerta dalle scuole sudtirolesi alle mutate condizioni storiche e sociali (basti qui citare ad esempio la sentenza numero 363 del T.A.R di Bolzano, risalente al 4 dicembre 1998, con la quale si dichiarava la perfetta compatibilità delle sperimentazioni linguistiche al dettato dello statuto di autonomia), lo scoglio psicologico che ci porta ogni volta a retrocedere su un concetto di “Muttersprache-madrelingua” come fosse inchiodato per l’eternità nella mente e nella vita degli abitanti di questa terra (di tutti: anche degli albanesi, dei cinesi, dei marocchini che da anni ormai popolano le nostre città), questo scoglio fa sì che si scambi la difesa di un diritto inalienabile, che peraltro nessuno vuole negare (garantire e incrementare la presenza e l’uso di almeno due idiomi “distinti”), con il permesso di ignorare un paesaggio antropico molto più variegato e complesso di quello che la nostra legislazione riesce a fotografare. Ma ci potete scommettere ciò che avete di più caro: nessuno muoverà un dito per cambiare le cose in profondità, la testa sarà ancora tenuta a lungo sotto la sabbia, e i giornali – ogni due, cinque, dieci anni – torneranno a parlare di “invasioni di alloglotti” da fermare coi cavalli di Frisia sulla soglia delle nostre scuole edificate con i mattoni del nazionalismo decrepito o del sovranismo, suo cugino moderno.

ff – 13 aprile 2023

C’è bisogno di cinesi

Riccardo Dello Sbarba ha ricordato il suo ingresso da protagonista nei Verdi, risalente alla primavera di 20 anni fa. Con una mossa strategica azzeccata, i membri del cosiddetto Grüner Kern e Christl Kury — a quel tempo unica rappresentante del partito in consiglio provinciale — pensarono che il giornalista venuto dalla Toscana alla fine degli anni Ottanta, nel frattempo impratichitosi del tedesco in modo da parlarlo abbastanza fluidamente, potesse cumulare in sé tre caratteristiche essenziali: sensibilità sociale, ecologica e — punto fondamentale, in quanto «italiano» — interetnica. Era infatti già cominciata, seppur assai sottovalutata, una tendenza che si sarebbe ispessita negli anni a venire: l’elettorato di riferimento del partito fondato da Alexander Langer risultava percepito sempre più come «tedesco». Necessario perciò riequilibrare anche con figure di spicco provenienti dal mondo «italiano», e Dello Sbarba ha senz’altro svolto in modo egregio questo compito per ben 4 lustri, fino al suo annuncio di voler lasciare spazio ai giovani.

Già, ma quali sono, o dove starebbero adesso i giovani «italiani» in grado di garantire nell’immediato futuro ai Südtiroler Grüne di essere anche un po’ Verdi altoatesini? Perché, insomma, i Verdi sudtirolesi (espressione che auspica la sintesi) non riescono a essere veramente attraenti per gli «italiani« che vivono qui e che potrebbero garantire, per l’appunto, un profilo composito all’unico partito programmaticamente interetnico — mettiamo tra parentesi per il momento il Team-K o il Pd, definibili piuttosto post-etnici, senza comunque neppure riuscire ad esserlo — presente sul territorio?

L’abbiamo notato in precedenza: il problema è stato a lungo sottovalutato, o per meglio dire ricoperto da una giustificazione teorica che non ha mai fatto i conti con la realtà. Che importa se pochi «italiani» si accostano ai Verdi, l’importante è che l’orientamento del partito sia nominalmente aperto, cioè in fin dei conti basta asserire di essere interetnici, o comunque aspirare ad esserlo, senza preoccuparsi troppo di non riuscire poi a scovare candidati in grado di rendere concreta tale istanza.

Ma davvero basta? Quando Riccardo Dello Sbarba afferma — l’ha fatto in un’intervista concessa al portale Salto — «I bin a Südtiroler» (sfoggiando il dialetto tedesco) non si accorge che ci sarebbe anche bisogno di qualcuno che dicesse, in italiano, «io mi sento invece pienamente sudtirolese, quindi anche altoatesino, e non ho bisogno di ricorrere al dialetto per riconoscere nei Verdi la mia destinazione politica»?

Ora, è senza dubbio bellissimo che Riccardo Dello Sbarba, per ciò che lo riguarda, ritenga di sentirsi un sudtirolese (e anche tutte le altre cose che dirà di essere, ovvio, sdrammatizzando e diluendo come si conviene la questione identitaria), e lo dica nel dialetto della Heimat sudtirolese. Ma i Verdi — visto che lui tornerà a fare il pensionato pendolare tra la Toscana e la provincia di Bolzano — hanno bisogno sul serio di altri «italiani» (ma anche di «cinesi», «albanesi», «rumeni» o «egiziani»…) che li rendano ciò che vorrebbero essere: interetnici di fatto. Sempre nell’intervista a Salto citata, leggiamo: «I Verdi sono lo specchio della società sudtirolese, poiché risentono delle regole del gioco monoetnico, pur cercando di ribaltare il sistema con uno sforzo sovrumano. E, al contempo, giocando la partita del futuro: le generazioni più giovani sono molto più bilingui delle precedenti. Il grido alla “tedeschizzazione” dei Verdi lo apprezzo perché significa che molti (media compresi) ritengono l’interetnicità dei Verdi un bene prezioso da preservare. Cosa sarebbe il Sudtirolo senza l’unico partito interetnico? Sono certo che costruiranno una lista con candidature di lingua tedesca, italiana e ladina».

Lasciamo pure a Dello Sbarba la sua certezza. Noi, che purtroppo di certezze ne abbiamo meno, proprio assistendo a quegli «sforzi sovrumani» rivelatisi comunque incapaci di sovvertire le «regole del gioco monoetnico», ci limitiamo a coltivare una speranza alquanto flebile.

Corriere dell’Alto Adige, 2 aprile 2023