Un microscopio che vola

Drone

Per fortuna non siamo in campagna elettorale, abbattuta, anche lei, dall’emergenza virus: ubi maior minor cessat. Ma anche se non siamo in campagna elettorale, purtroppo, ci tocca assistere a qualche capitombolo di rappresentanti delle istituzioni galvanizzati dal loro ruolo di controllori, e convinti perciò di avere a che fare con una popolazione di indisciplinati “furbetti” pronti a tutto pur di assecondare l’ascesa della virulenza e la diffusione del morbo. Non fa eccezione, anzi, il sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi, il quale aveva già pronta la carta del monitoraggio di massa, affidata al volo di droni posti nelle mani, anzi negli occhi della Polizia Municipale, al fine di reprimere assembramenti e uscite troppo disinvolte dall’unico seminato concesso oggi alla cittadinanza: restare tappati in casa e muoversi solo in caso di estrema necessità. A quanto pare, e per fortuna, non se ne farà nulla o si farà il poco (non so in realtà se si tratti davvero di poco) che già si sta facendo, ma per finalità di diverso tipo. Ora, io non sono tra quelli che giudicano le misure del governo, vale a dire l’ordine di contenere gli spostamenti ecc., un inevitabile prodromo del fascismo tecnologico imminente; non sono però neppure favorevole ad una implementazione a tappeto della tecnologia basata su un assunto tanto semplice quanto pericoloso: il cittadino va colto sempre in fallo, e se non sbaglia lo facciamo sbagliare noi mettendo i suoi comportamenti al microscopio (il drone è un microscopio che vola). Il confronto con l’attuale stato di emergenza sta facendo emergere troppi istinti moralizzatori, trasforma il vicino di casa in un delatore e solletica brame repressive che vanno contenute proprio come se fossero, anche loro, un virus da combattere. Già siamo messi malissimo dal punto di vista del linguaggio (chi usa la parola “furbetto” o “furbetti”, come ha fatto il sindaco-scrittore, dovrebbe piazzare un drone sulla sua tastiera e consentirgli di intervenire lanciando un allarme di avvenuto contagio populistico), se ci mettiamo poi anche questi cazzetti volanti a ficcare il naso ovunque non ne veniamo più fuori. Quando sarà il momento (e secondo me è sempre il momento) dovremo riflettere sulle tante parti in ombra di questa voglia sfrenata di controllo, adesso “coperta” dalle note ragioni. I cittadini, noi tutti, siamo già messi a dura prova dalla reclusione forzata. L’essenziale l’hanno capito tutti, o quasi. Ritenere però che l’esistenza di qualche “sordo” autorizzi chi detiene il potere di fare applicare la legge a dotarsi di megafoni sempre più forti non rende il clima acustico generale più salubre. La strategia che ci piacerebbe vedere messa in atto è quella che punta ad una maggiore responsabilizzazione, non quella che usa “urgenza”, “paura” e “pericolo di vita” per legittimare ogni possibile riduzione delle libertà fondamentali da parte di “sceriffetti” (sono il pandant dei “furbetti”) improvvisati. Io sto a casa finché si useranno argomenti condivisibili di prudenza, non perché bloccato dal terrore che un drone mi cada sulla testa, o un altro microscopio assetato di supposte nefandezze mi entri nelle mutande per verificare se sono abbastanza pulite.

#maltrattamenti

Una luce nella nebbia

ORSI OR17

Piano piano cominciamo a vederci più chiaro. Il virus e quello che ci sta intorno (ci stiamo noi, intorno) assomiglia a una grande nebbia (e la nebbia è dentro di noi). In questa nebbia siamo andati a sbattere contro diversi ostacoli. Prima c’era la sufficienza con la quale abbiamo appreso dell’esistenza di una curiosa patologia orientale, quindi lontanissima, comunque incapace di preoccuparci sul serio. Poi, quando è sbarcata da noi (sbarcata dagli aerei, non venendo sui barconi dei migranti ai quali in molti, in troppi, attribuiscono ogni male del mondo), abbiamo continuato a non crederci, e ce la siamo presa con i primi cinesi che passavano sotto la finestra. Poi abbiamo ripreso a fare la vita di sempre, ci siamo fatti qualche selfie con altri cinesi (quelli dei ristoranti) e ci siamo detti che noi eravamo comunque fuori pericolo in virtù di una non meglio precisata grazia divina. Errore fatale. Dopo poco, e sempre continuando a muoverci a tentoni, nel gran nebbione, i numeri dei contagi hanno cominciato ad impennarsi. In alcune zone, in Veneto, soprattutto in Lombardia, si cominciava anche a morire, e a morire in modo abnorme. Allora si è propagato il panico. Supermercati svaligiati, treni assaltati da persone che volevano scappare (ma scappare dove?). Così il governo ha deciso di chiudere tutto, sempre di più. Siamo arrivati ad essere il paese in cui l’epidemia del Coronavirus, intanto lievitata a pandemia, miete più vittime, e ci tocca la solidarietà a distanza di chi sembra appena più fortunato di noi. Intanto ce ne stiamo da giorni tutti tappati in casa, ci parliamo, quando rarissimamente ci incrociamo per le strade perlopiù deserte, a tre metri di distanza, e ci chiediamo quando ne usciremo, da questa nebbia, e da tutta questa brutta storia. Però, dicevo all’inizio, intanto qualcosa di più stiamo riuscendo a scorgerla. Vediamo per esempio che il grande numero di morti lombardi non è dovuto a questioni misteriose. Una spiegazione c’è. Il professor Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare e professore di epidemiologia a Padova, in una intervista spero molto letta l’ha messa giù così. Se prendiamo il totale dei positivi in Lombardia (più di 25.000 al 21 di marzo) e lo dividiamo per il numero dei deceduti (più di 3000, praticamente la metà dei morti totali) abbiamo una percentuale incredibile, del 12%. In Veneto sta invece al 3%. Altrove è ancora più bassa. Qual è, allora, il problema della Lombardia? Da dove si origina la nebbia in Val Padana? A mancare – secondo il professore – è il numero dei casi domiciliari: “Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati (corsivo mio). Se si tiene come punto di riferimento il 3% di mortalità si può realisticamente non solo ipotizzare, ma dire che in Lombardia ci sono circa 100.000, non circa 25000 casi, questa è la realtà”. Riassumendo: gli infettati sono molti, ma non vengono contati. Non venendo contati abbiamo a che fare solo con i casi più manifesti, anche quelli più compromessi, per così dire, e quelli appaiono tantissimi. Ovviamente in questa analisi c’è un elemento di preoccupazione (gli infettati sono molti di più di quelli che si credeva) ma anche di speranza (la percentuale dei casi gravi va vista al ribasso, e se riuscissimo, come stiamo provando, ad isolarli, e possibilmente anche a monitorarli, la morsa del virus potrebbe finalmente allentarsi). Intanto, dopo tale acquisizione, un primo concreto elemento positivo: l’assessore lombardo Gallera ha annunciato che per la prima volta dall’esplosione dell’epidemia sta calando il numero delle persone ricoverate. Forse la nebbia ha cominciato a diradarsi.

#maltrattamenti

Dentro o fuori

Vecchio divano

Si fa presto a dire “rimanete a casa”. E chi una casa non ce l’ha? E se c’è chi ne ha più di una, perché dispone di una residenza in un luogo, ma anche di più domicili stabiliti altrove? Solo nella finzione, della quale usufruiamo quando nessun fatto drammatico sconvolge le nostre abitudini, è possibile ipotizzare che ognuno abbia una dimora stabile, e questa dimora sia anche quella in cui si risiede e si vive senza spazio di ambiguità. Può accadere però – come sta accadendo – che un virus “vagamondo” ci scuota e obblighi le persone a cercare un riparo che appare improvvisamente incerto: sia perché alcuni diritti che credevamo garantiti prendono ad oscillare al vento delle “misure straordinarie”, sia perché ovunque si sta diffondendo la smania di chiudere porte e cancelli tra gli stati, tra le regioni, tra le province, tracciando una linea sempre più invalicabile tra chi sta “dentro” e chi va trattenuto, o cacciato, “fuori”.

Nello stato confusionale che ci coglie quando dobbiamo prendere decisioni fondamentali, per di più in modo rapido, può allora accadere che si compiano errori, magari soltanto di comunicazione, ma che per questo non causano minori problemi. È andata così per quanto riguarda l’“Ordinanza presidenziale contingibile ed urgente” con la quale sembrava venisse imposto a “turisti, ospiti, villeggianti e tutte le altre persone presenti sul territorio provinciale che non hanno la propria residenza in Alto Adige, di rientrare alla propria residenza, affinché possano eventualmente beneficiare delle prestazioni dei propri medici di base o pediatri di libera scelta”. Adesso l’imposizione evidenziata dal verbo “ordina”, presente nella prima versione, è stata saggiamente mutata nel più mite “raccomanda”, e comunque si sottolinea che tale provvedimento non si estende a chi qui lavora, ha quindi un domicilio e molto probabilmente anche un medico di riferimento. Una precisazione doverosa, ancorché fondamentalmente inutile, visto che la legge continua a garantire che chi si sposta dal proprio Comune di residenza per un periodo inferiore ai 3 mesi non abbia l’obbligo di scegliere un nuovo medico di famiglia, perché l’assistenza medica dovrebbe (anche se sappiamo che in questi giorni il condizionale ha perso moltissimo vigore) essere garantita dagli ospedali pubblici e dal servizio della guardia medica turistica.

Non ha invece avuto bisogno di emettere un’ordinanza apposita, e quindi poi di correggerla, Maurizio Fugatti, Presidente della Provincia di Trento, il quale in una conferenza stampa tenuta il 14 marzo ha però dichiarato: “Alle persone nelle seconde case, e quindi in villeggiatura, chiediamo di rientrare a casa loro perché sono qui in forma di irregolarità. La situazione in Trentino si sta aggravando, noi crediamo di dover dare risposte sanitarie per chi rispetta le regole: il Trentino sarà responsabile con chi è responsabile, il Trentino non lo sarà con chi è irresponsabile”. Parole molto gravi, immotivate dal punto di vista giuridico, velate addirittura da un senso di ritorsione e minaccia, destinate comunque a restare ininfluenti per tutte quelle persone che hanno stabilito la propria dimora sul territorio prima dell’11 marzo, data dell’emissione dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Altro discorso da fare riguarda l’assistenza fornita a tutti quei lavoratori stranieri, per esempio quelli impiegati nei nostri alberghi, che comunque devono osservare un periodo di quarantena. Già. Ma dove? Per chi non ha qui un proprio alloggio, e trovasse le frontiere sbarrate, l’unica possibilità è quella di entrare nelle strutture messe a disposizione dal ministero della difesa (cioè caserme). Nessun provvedimento è stato ancora preso per allestire dei posti letto negli alberghi in cui quelle persone lavorano, nonostante essi siano di fatto chiusi. Il caso è stato sollevato da chi sta operando, tra crescenti difficoltà, al fine di riuscire ad accompagnare fuori dall’Italia questi lavoratori e, contemporaneamente, riportare indietro chi si trova all’estero per studio o lavoro. È vero che il virus ha sorpreso e danneggiato tutti, ma tutti hanno diritto di non subire in aggiunta gli svantaggi derivanti dalla mancanza di chiarezza, di organizzazione e di solidarietà.

Corriere dell’Alto Adige/Corriere del Trentino, 20 marzo 2020

Un virus chiamato Odradeck

Virus

Un virus, ormai lo sappiamo, è un piccolo, indicibilmente minuscolo pezzo di materiale genetico racchiuso in una specie di guscio chiamato capside. La sua riproduzione dipende dalla capacità di “infettare” una cellula, e deve quindi essere ospitato. Una delle domande che si sono posti gli scienziati che li studiano è questa: i virus sono una forma di “vita” (ma attenzione: possiamo considerarli “vivi” solo avendo chiarito la loro natura eminentemente parassitaria) più o meno antica delle cellule delle quali si servono per riprodursi? In rete ho trovato la notizia che parla di alcuni ricercatori della University of New South Wales, in Australia, i quali avrebbero scovato un indizio per rispondere: si tratta di un microrganismo rinvenuto nei laghi delle isole Rauer (vicino all’Antartide), simile a un batterio, ma molto più semplice: un plasmide (chiamato pR1SE) che, al pari di un virus, è fatto di piccoli filamenti di DNA. Copio il testo: “I geni che trasporta permettono di creare vescicole, essenzialmente “bolle” di lipidi, che lo racchiudono in uno strato protettivo. Incorporato nella sua bolla protettiva, pR1SE può lasciare la sua cellula ospite per creare nuovi ospiti. In altre parole, pR1SE sembra comportarsi come un virus”. Sembra comportarsi come un virus, tuttavia non è propriamente un virus, visto che è costituito da geni che si trovano solo sui plasmidi, mentre gli mancherebbero altri geni che lo caratterizzerebbero compiutamente come un virus. E comunque: l’ipotesi è che questo plasmide stia alla base dell’evoluzione dei virus, e quindi si tratti di un modello di organismo che, sì, precede la nascita delle cellule. Detto ciò, appare realistico pensare che saranno loro, i nostri predecessori, a protrarsi anche oltre la nostra estinzione, probabilmente parassitando fino all’estremo qualsiasi aggregato cellulare che vedrà la luce tra qualche milione di anni? Ha scritto Tom Whipple in un articolo comparso sul Times: “Un virus non è malevolo. È la forma di vita più pura che esista. Non ha cellule, né cervello né volontà. È una macchina riproduttiva, un frammento di materiale genetico all’interno di un guscio protettivo, il cui unico scopo è quello di riprodurre copie. Non vuole farti del male, vuole usarti. Se muori non va bene. I cadaveri, dopotutto, non starnutiscono. Questo è il motivo per cui quanto più un virus è peggiore per i singoli esseri umani meno è probabile che sia fonte di preoccupazione per l’umanità. Se provoca la morte istantanea, termina con la prima vittima. Se provoca un lieve raffreddore, conquista il mondo”. Questo passo è molto bello, persino tranquillizzante, perché ci propone una specie di alleanza tra noi e i virus, e ci dice che alla fine troveremo un buon equilibrio. Ma in realtà può benissimo non andare così. La chiave è proprio nella sovrana indifferenza – preistorica e per questo futuribile – dei virus rispetto alle nostre finalità (e del resto, l’idea di una finalità è qualcosa che abbiamo inventato noi). Magari noi non ci estingueremo a causa dei virus, ma i virus non aspetteranno la nostra estinzione per estinguersi a loro volta. Il virus mi ricorda un po’ Odradeck, quello stranissimo oggetto di cui parla Kafka nel racconto “Il cruccio del padre di famiglia” e viene descritto come “una specie di rocchetto da refe piatto, a forma di stella, e infatti par rivestito di filo; si tratta però soltanto di frammenti, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra loro e di qualità e colori più diversi. Non è soltanto un rocchetto, perché dal centro della stella sporge in fuori e di traverso una bacchettina, a cui se ne aggiunge poi a angolo retto un’altra. Per mezzo di quest’ultima, da una parte, e di uno dei raggi della stella dall’altra, quest’arnese riesce a stare in piedi, come su due gambe”. Ma a cosa serve, qual è il destino di una cosa così? Ecco come risponde Kafka, dandoci una lezione che vale per ogni cosa esistente, dal virus all’universo: “E mi domando invano cosa avverrà di lui. Può morire? Tutto quello che muore ha avuto una volta una specie di meta, di attività e in conseguenza di ciò si è logorato; ma non è questo il caso di Odradeck. Potrebbe dunque darsi che un giorno ruzzolasse ancora per le scale, trascinandosi dietro quei fili, fra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli? Certo non nuoce a nessuno; ma l’idea ch’egli possa anche sopravvivermi quasi mi addolora”.

#maltrattamenti

 

 

 

La linea e la bolla

Cina satellite smog

Alla fine ci siamo convinti, o ci hanno convinti: stiamo passando molto tempo chiusi in casa. Nell’alternativa tra il modello della bolla e quello della linea, tematizzata con straordinaria finezza dall’antropologo Tim Ingold, il primo ha avanzato le sue pretese «curative» sulla naturalezza degli scambi lineari, e dunque sulle intersezioni e gli annodamenti lungo i quali procede così rapido anche il contagio virale. Adesso, se vogliamo prevenire la diffusione della malattia, siamo costretti a recidere per un po’ quei filamenti delle nostre vite che ci porterebbero a respirare la medesima atmosfera nella quale di solito, in condizioni «normali», fluttuiamo insieme agli altri.

Esiste forse però un modo per sopperire a questa tendenza sociale momentaneamente frustrata, riscoprendo dentro la forzatura delle nostre bolle l’esistenza di linee delle quali, quando siamo proiettati verso l’esterno, fatichiamo ad accorgerci. Qualcuno ha giustamente scritto che un conto è sopportare l’isolamento in una condizione di permanente interconnessione, un’altra sarebbe quella di affrontarlo sommando un eventuale collasso dell’ambiente informatico nel quale siamo immersi.

Ingold_Cover

Ma non è questo ciò a cui vorrei qui alludere. Le linee che scavano profondità e allacciano nodi all’interno della nostra bolla hanno più a che fare con un substrato arcaico, non necessariamente governato dalla tecnologia.

Per avvistare tale substrato occorre essere disponibili a valutare i lati positivi di un ripiegamento in noi stessi, aderendo per così dire al mondo di possibilità che lasciamo inaridire quando ci disperdiamo nel contatto con il mondo esterno. Riflettere, ad esempio, su come percepire diversamente il tempo in cui matura un’azione, rispetto a quello in cui essa si esplica. Aumentare il livello d’intensità che generalmente dedichiamo a capire ciò che distingue qualcosa di essenziale dal superfluo. Oppure, ancora, rivolgere uno sguardo retrospettivo alla nostra storia personale e collettiva, alle nostre abitudini consolidate, chiedendoci, adesso che il flusso del mutamento sembra sospeso, non solo come siamo cambiati, ma in quale direzione vorremmo muoverci quando torneremo con più libertà ad uscire e a incontrare di nuovo le persone.

Una delle immagini più note che tramanderemo ai posteri è sicuramente quella colta dai satelliti di Nasa ed Esa sull’area geografica di Wuhan, primo epicentro noto della diffusione del Sars-CoV2. Dopo le misure di contenimento in seguito alla quarantena imposta a milioni di cinesi, ecco il cielo nuovamente pulito. Segno di un drammatico rallentamento economico, certo, ma anche di un apprezzabile declino dei livelli di inquinamento. La stessa cosa non potrebbe verificarsi anche all’interno del cielo delle nostre vite, una volta sgombrato dalla coltre di preoccupazioni che l’assenza del virus manteneva in agitata sospensione?

Corriere dell’Alto Adige / Corriere del Trentino, 14 marzo 2020

Al tempo del virus

Roma e mascherine

Potente la suggestione del titolo di Marquez, L’amore ai tempi del colera, tutti ce l’abbiamo nell’orecchio. Che cosa poi si racconti, in quel libro, non è molto importante. Il tempo di adesso non ha neppure a che fare con la carica batterica scatenata dal vibrio cholerae, non sa di antiche miserie, non ne condivide scenari e letteratura. Intanto, parliamo di virus, non di batteri, e la differenza è stata spiegata, registrata, capita o non capita, dimenticata. Anche se gli esperti sono tornati di moda, noi non siamo e non saremo mai esperti (soprattutto: non vorremmo esserlo). Non vediamo più in là del nostro naso, che non possiamo più neanche strusciarci. Ci laviamo le mani, più volte al giorno, cerchiamo di non incontrare nessuno, o in maniera mai troppo ravvicinata. Di cosa è fatto, quindi, questo tempo che sarebbe il tempo del virus? In che modo questa entità microscopica tinge le nostre vite, ne infetta e devasta le abitudini? Possiamo già dire, mentre la stiamo attraversando, dove ci porterà l’immensa deportazione dell’immaginario alla quale siamo sottoposti? Abbiamo osservato tre ondate di emozioni. La prima, più remota, quando si è appreso dell’epidemia in Cina (ormai quasi tre mesi fa). Pochi hanno pensato che si spostasse da laggiù, o se l’hanno pensato hanno creduto che il passaggio non avrebbe causato troppi problemi quaggiù. Per uno strano effetto dettato da generalizzazioni indebite, abbiamo creduto che il confine territoriale e quello etnico erigessero una barriera all’evasione dello spettro: non si sarebbe aggirato per l’Europa. La seconda ondata è così scattata con la prima rilevazione della trasmissione avvenuta, ma era ancora affare di pochi, ancora una ferita inferta a territori che un destino non più avverso si sarebbe poi occupato di cicatrizzare in loco, e comunque abbastanza alla svelta. Il rovescio di questa ondata, paragonabile alla risacca che segue la distensione del mare su una costa, è stato quello di provare a non pensarci, in fin dei conti il tema era già stato prosciugato dalla curiosità mediatica. Ci siamo dunque dedicati ad altro, come chi, avvertendo un dolore mentre dorme, prova comunque a ritrovare il sonno, sperando che la mattina dopo sia definitivamente passato. La terza ondata, infine, è stata quella della consapevolezza legata all’azione. Bisognava chiudere tutto, raggomitolarci dentro casa, impedire al contagio di prendere sempre più campo (e proprio mentre stava prendendo sempre più campo). È calato uno strano silenzio, al quale ci siamo sottomessi, in qualche caso ritenendo che non fosse neppure abbastanza. È sopraggiunto il tempo di uno svuotamento che, in modo incerto, stiamo provando nuovamente a riempire. Abbiamo fiducia che serva, ma non sappiamo quanto dovrà passare, prima che serva davvero. Le nostre abitudini sono state messe in una posizione di attesa. Se incontriamo l’amico o l’amica per strada restiamo a un metro, ci informiamo su come sta andando. Poi ci dedichiamo ad espletare le poche cose da fare, giustificate da un certificato. Chi va in giro senza scopo apparente lo fa calpestando l’ombra di una colpa. Proprio adesso che un cielo “sì benigno” ci sorride dall’alto, e la calda stagione inviterebbe all’aperto. Ma cosa accade in profondità, nel profondo e più profondo di noi? Alcuni lavorano senza sosta, negli ospedali e al fronte delle urgenze, dove il virus non si manifesta solo come un riflesso di un’informazione stregata. Gli altri, e sono la maggioranza, restano attoniti, cercano scampoli di normalità come si cercano gli oggetti sopravvissuti a una catastrofe. Tutti abbiamo timore di pronunciare ad alta voce la parola “dopo”, la parola più desiderata e invocata di tutte.

#maltrattamenti

Togliere spazio al virus

Contagio

Siccome dobbiamo stare più a casa (non murati vivi, ma comunque più del solito), mi sono preso la briga di leggermi un “istant-book” appena pubblicato sul fenomeno di cui tutti (inevitabilmente) parliamo. Si tratta di un’intervista a Maria Capobianchi, vale a dire la direttrice del laboratorio italiano che ha isolato il Sars-Cov-2, il famigerato Coronavirus. Attenersi alle spiegazioni delle persone competenti parrebbe una pratica ovvia, ma negli ultimi anni era caduta un po’ in disuso, visto che, grazie all’estensione portentosa della superficie dei social, sempre più incompetenti si sono sentiti in diritto (e vorrei quasi dire in dovere) di diffondere le proprie opinioni a cazzo di cane su qualsiasi argomento. Uno degli effetti positivi di questa epidemia è anche l’aver riportato le cose alla loro giusta proporzione: quelli che non sanno niente possono di nuovo essere messi a tacere. Dunque, la frase che nel libro ha attirato maggiormente la mia attenzione è questa: “I virus meno virulenti, che si diffondono maggiormente, sono quelli che provocano una sintomatologia lieve che permette al malato di diffonderli”. Se ci facciamo caso, qui è contenuta la chiave interpretativa del grosso problema con il quale abbiamo a che fare. Non contano tanto gli effetti del virus sui singoli, il suo impatto di mortalità (se è più o meno elevato rispetto ad altre patologie analoghe, se interessa “solo” o in grandissima maggioranza gli anziani immunodepressi ecc.) o in che modo, nel passato, ci siamo comportati di fronte a simili evenienze. La cosa che veramente conta è che questo virus ha un altissimo potenziale di contagio e quindi, di per sé, rappresenta un cospicuo pericolo per il nostro sistema sanitario. Ora, come si è mosso il nostro governo e, in generale, come hanno reagito le istituzioni, ma anche il mondo dell’informazione alla minaccia del contagio? In estrema sintesi: hanno reagito in modo intermittente, estremizzando e banalizzando a seconda dei giorni, e poi affrontando con determinazione il problema quando, purtroppo, gli interventi da fare non hanno più potuto evitare di configurarsi in modo drastico. Solo abbastanza tardi, insomma, si è capito che l’unica cosa da fare era ridurre gli spazi di promiscuità, e – come dice ancora Maria Capobianchi – “identificare i casi, tenerli isolati ed evitare i contatti degli infetti con altre persone”. Adesso però che lo sappiamo, adesso che si è capito che solo sottraendosi al contatto con i possibili contagianti possiamo contrastarlo, dovremmo sospendere ogni tipo di titubanza, di obiezione, e lavorare – tutti! – ad un unico fine: quello di far circolare il meno possibile il virus trasmettendocelo a vicenda. Per esaudire questo compito occorre fidarsi delle istituzioni, degli esperti e di chi ne sa più di noi. Punto. “Tutte le pandemie – conclude Capobianchi – hanno un periodo in cui si espandono e si diffondono”. Noi però possiamo fermare questa espansione e diffusione sottraendoci al contagio, diradando il più possibile le occasioni in cui potrebbe saltarci addosso. Più disciplinatamente obbediremo a questa indicazione e più rapidamente il virus scomparirà dal nostro orizzonte.

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La scuola in silenzio

scuola vuota

L’altra mattina ho fatto un giro in città, credendo, chissà perché, di trovarla piena di studenti. Invece, di studenti, non ce n’era neppure uno. Allora mi sono sentito come il giovane Caulfield, il personaggio di Salinger, mentre si chiedeva dove andassero le anatre dello stagno di Central Park South, quando in inverno gela. Però non ricordavo la risposta (c’è una risposta?). I negozi aperti, e le scuole chiuse. I bar aperti, e le scuole chiuse. Ogni cosa aperta, o ancora aperta, e speriamo davvero continui ad essere così, ma le scuole sono chiuse. Quando normalmente si va a scuola, il pensiero di una vita fuori dalle sue mura è una fitta dolorosa che s’incunea nel desiderio di ogni studente.

Certo, ci sono quei coraggiosi (o pavidi, dipende dai punti di vista) che magari la mattina a scuola non ci vanno. E allora li puoi vedere nei parchi, che attraversano la solitudine di una condizione non priva di qualche privilegio. Oppure restano a letto, e quando aprono gli occhi sono stupiti di essere rimasti così a lungo sotto le coperte, il cielo già inondato di luce. Pensare di essere là dove si vorrebbe essere non è uguale ad essere costretti ad esserci veramente. Obbligati a restare fuori da scuola, ai ragazzi e alle ragazze è tolto il senso di un’avventura che sboccia solo ai margini dell’essere ligi a un precetto che si può rompere, ogni tanto. Ma l’imposizione dovuta ad «eccezionali misure di sicurezza» toglie gusto al gioco. Si è costretti a fare la faccia seria, proprio quando si potrebbe ridere all’infinito.

Che fascino avrebbe uno come Lucignolo, se fosse stato il Re in persona a obbligarlo a starsene a casa? E la voce di quei maestri, adesso spente nei corridoi vuoti, e nelle aule, dove non passa nessuno tra i banchi a controllare? La scuola ritma il tempo di ora in ora, conserva promesse indicibili, che s’infilano tra una lezione e l’altra. Ma ci fa conoscere anche il sapore acre della noia, ne misura le possibilità inespresse. Solo più tardi, quando ci raggiungeranno i ricordi, affiorerà la nostalgia dei tempi perduti, il rimpianto, forse. La scuola senza gli studenti è come il mare d’inverno, «un concetto che la mente non considera». Perché i giorni della «vacanza» sono infatti quelli estivi, quando fa caldo, quando ci si può dare appuntamento all’ora di pranzo, anche per saltare il pranzo. I giorni dei romanzi ingialliti dal sole, le pagine irrigidite dal sale, non il buio delle stanzette con i poster dell’ultimo concerto di febbraio, il maglione arrotolato per terra, i letti sfatti, e gli schermi dei telefonini sui quali scorrono chat in cui ci si chiede «e adesso che si fa?», tra una faccina che ride e l’altra. I giorni senza scuola, per gli studenti, sono adesso un codice indecifrabile, riempito con formule inglesi (e-learning, homelearning). Caricatura di un dovere sbeffeggiato da un malefico virus. Maledizione e opportunità al tempo stesso, perché la scuola è, dovrebbe essere l’arco che fa scoccare come frecce gli studenti per il mondo, e questo lo si comprende dolorosamente quando qualcosa impedisce di frequentarla.

Corriere dell’Alto Adige, 8 marzo 2020

Lo scambio di voto

Tapies 2

Ho un’amica siciliana che vive qui in provincia di Bolzano da un po’ di tempo. Siccome però ha la residenza da meno di cinque anni, non potrà votare alle elezioni comunali, così come non ha potuto votare a quelle provinciali. Lei non la vive bene, questa cosa. È una donna colta, ha molti interessi, è curiosa, le sta a cuore la vita pubblica, e vorrebbe quindi “partecipare”. Invece non lo può fare, almeno nella forma minima consentita a chiunque voglia farlo esprimendo ad esempio un voto per un candidato o per un partito. Se verrà eletto il sindaco x lei dovrà subire la scelta fatta da altri. Se verrà eletto il sindaco y, idem. Per lei è prevista solo una finestra, alla quale sarà costretta ad affacciarsi per vedere cosa fanno gli “altri”. Non ricordo se nel lungo lavorio che fu imbastito per “aggiornare” lo statuto di autonomia, nella cosiddetta Convenzione, se ne parlò. Probabilmente sì, qualcuno avrà magari proposto una riforma, per non dire un’abolizione di questo vincolo. Ma la proposta è affogata in mezzo ad altre proposte, anch’esse tutte affogate nella nebbia della loro irrealizzabilità. Ora, molte di quelle persone che così inutilmente hanno partecipato agli incontri per la riforma dello statuto di autonomia voteranno alle prossime elezioni comunali. Tutta gente, presumo, nata qui, o che ha qui la residenza da più di cinque anni. Anch’io ho da molti anni la residenza qui, quindi potrò votare, anche se ne ho sempre meno voglia. Ne ho meno voglia perché ho la sensazione che il mio contributo allo sviluppo di questa comunità sia sbiadito nel tempo, sia diventato sempre più insignificante. Potessi, proporrei uno scambio. Cederei volentieri alla mia amica siciliana il mio diritto di voto, per mettermi un po’ alla finestra al posto suo. Uno scambio alla pari. Lei è fresca, ha voglia di fare, di dire. Io sono vecchio, stanco, triste. Perché devo essere io a decidere per lei? Molto meglio che sia lei a decidere per me.

ff – La colonnina – 10/2020

Fuga (senza fine) dal risentimento

Giorgio Fontana Bolzano

Nel romanzo “Prima di noi” di Giorgio Fontana affiora l’intesa impura che stringe assieme quattro generazioni lungo un secolo di storia.

“La memoria collettiva è notoriamente fallace, e gran parte del passato s’inabissa nell’oceano del tempo per affondarvi in eterno. Eppure di tanto in tanto le acque si aprono, lasciandoci intravedere un balenio del tesoro nascosto, anche se solo per un attimo”. Scegliamo questa epigrafe involontaria di Margaret Atwood (dal suo libro “I testamenti”) per introdurci nel senso profondo della grande narrazione imbastita da Giorgio Fontana (“Prima di noi”, Sellerio). Occorre tuttavia definire una importante correzione di prospettiva. Il balenio del tesoro nascosto (immagine che peraltro si ritrova anche nella bellissima citazione di Maeterlinck posta da Robert Musil all’ingresso del suo “Törless”) indica un movimento che procede in prevalenza dal presente verso il passato, come se in sostanza dipendesse da noi il buon esito di questo recupero. In tal modo, però, sottovaluteremmo la spinta contraria, vale a dire la volontà del passato, e segnatamente di chi oggi non c’è più, di sporgersi verso di noi. Di ciò ha esplicitamente parlato Fontana, presentando il suo romanzo a Bolzano, richiamando un pensiero di Walter Benjamin tratto dal suo “Angelus Novus”: “C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra”. Ma di cosa è fatta, propriamente, questa intesa?

C’è una scena che vede protagonisti due figli del capostipite dei Sartori (la famiglia della quale Fontana ricostruisce la storia lungo quattro generazioni, abbracciando così un arco temporale che va dal 1917 al 2012) sulla quale vale la pena soffermarsi brevemente. Siamo negli anni Trenta, in pieno fascismo. Gabriele, il fratello maggiore, ha organizzato insieme a un amico un piccolo cinematografo. A una proiezione partecipa anche il fratello minore, Renzo, il quale però a un certo punto blocca il normale corso di una pellicola perché non approva l’epilogo della storia. Quindi si alza e fa andare il film a ritroso, come se si potesse davvero riavvolgere il nastro del tempo. Ora, nella vita reale risalire il corso del tempo è manifestamente impossibile, oltre che ingenuo, e può accadere infatti solo così, per scherzo. Ribellarsi al flusso delle cose (scrollarsi di dosso i pesi, le responsabilità che tale flusso ci pone sulle spalle) può però avvenire in altri modi, ipotizzando per esempio una “fuga dal tempo”, che Fontana evoca, citando esplicitamente Joseph Roth, nella figura ricorrente del “disertore”. Ma c’è un problema. Il prodotto di ogni diserzione genera inevitabilmente delle scorie che ricadono su chi resta, cioè su chi, di tale diserzione, si troverà a ereditare effetti e colpa. Ecco allora che l’“intesa segreta fra le generazioni” non va letta nel segno della fedeltà, della purezza, ma è offuscata da un sentimento dal quale, alla fine, è necessario sgravarsi senza pretendere di poterlo cancellare definitivamente: la fuga dal tempo, specificandosi in un tradimento dell’ereditarietà, richiede di essere risolta mediante un’ulteriore fuga, un’ulteriore liberazione, quella dal risentimento per essere stati traditi.

Semplificando moltissimo un intreccio che si dipana per quasi novecento pagine, la vicenda raccontata da Fontana (le peripezie di una famiglia, ma anche di un intero Paese, nonché meditazione su cosa significa, in generale, scrivere) segue allora due linee che alla fine si uniscono in un’intuizione dirimente: da un lato ci sono i disertori, i traditori, che affidano ai loro eredi la colpa per le loro mancanze, perché sentendosi traditi dal futuro hanno cercato a loro volta di tradirlo; dall’altro ci sono quelli (ma chi leggerà il romanzo vedrà che si tratta soprattutto di donne) che hanno il compito di resistere a tale gesto, addolcendo – potremmo quasi dire “perdonando”, senza che il termine suggerisca un compito morale o addirittura una vocazione di “genere” – con un atto di postuma comprensione e di “pietas” il tradimento compiuto dagli avi nei confronti dei posteri e dei posteri nei confronti degli avi. Tale comprensione affiora nitidamente nelle parole dell’ultima dei Sartori, Letizia, la quale pone le domande decisive: “In quei momenti si immaginava come la polena di un veliero. Per decenni, per quasi un secolo la famiglia Sartori aveva costruito una nave partendo dal poco legno disponibile: di generazione in generazione era uscita dal fango e dall’oscurità alzando alberi, tessendo vele, rinforzando lo scafo e accumulando cordame. E infine ecco lei, l’ultimo elemento del processo, una decorazione lignea apposta sulla prua, perfettamente modellata ma in fondo inutile – e con gli occhi aperti sullo scoglio contro cui si sarebbe infranta. Possibile, si diceva, che il passato avesse una tale forza sul presente? Il potere di ciò che accade prima di noi è tale da forgiare un destino? O era soltanto colpa sua?”.

Solo la scrittura, sembra alla fine suggerirci Fontana, serve a liberare i morti dalla colpa di non essere riusciti a corrispondere alle aspettative dei vivi, e i vivi da quella di non aver salvato i morti. Nella scrittura – “né presenza, né assenza, presenza di un’assenza, assenza di una presenza, rinvio presente ad un assente”, come ci ha insegnato a pensare Jacques Derrida – noi tracciamo un segno presente che s’indirizza ad una assenza e si protende in avanti. Un segno che sarà raccolto da qualcuno che non conosciamo, che forse non conosceremo mai (ognuno di noi è atteso da un segno che attende di essere decifrato). E quando quel segno verrà decifrato, chi lo farà avrà in mano la chiave del mondo che è sempre, insieme, il mondo dei vivi e dei morti, e la possibilità di sciogliere il risentimento che così spesso li lega.

ff – 10/2020

Basaglia e la Fenomenologia (appunti)

Franco Basaglia 1

Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980)

“Sono come una marionetta rotta, con gli occhi caduti al di dentro”. Questa frase di un malato mentale conta più dell’insieme delle opere di introspezione. (E. M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, pag. 45)

Qualcuno chiamò Franco Basaglia “filosofo”, in senso dispregiativo.

Atene disprezzò Socrate, chiamandolo “filosofo” (o era Socrate a chiamare se stesso “filosofo”?). Lo mandò a morte come “corruttore della gioventù”. Per non essere corrotta, la gioventù non avrebbe dovuto seguire il filosofo “corruttore”. Ma in cosa consisteva, propriamente, questa corruzione? Essenzialmente in questo: lasciare che le domande non venissero mai estinte da una risposta. Socrate, dunque, è stato condannato a morte perché aveva decretato la morte della tirannia delle risposte sulle domande.

Il metodo socratico consiste nel riaprire ogni risposta con una domanda.

Il gesto socratico, vale a dire la prevalenza della domanda sulla risposta, attraversa tutta la storia della filosofia. Ogni filosofo riapre il tema della domanda e della sua prevalenza sul tema della risposta.

Edmund Husserl è il padre della fenomenologia.

Il gesto socratico della fenomenologia si ritrova nell’indagine intorno alla cosità delle cose. La sua preoccupazione è questa: come facciamo a pensare la cosità delle cose senza pietrificarle in una essenza che le manterrebbe staccate dal mondo della vita in cui esse appaiono? In che senso, per esempio, posso pensare una “sedia” se non voglio pietrificarla, cioè considerarla un mero oggetto che mi sta di fronte (Gegen-stand)? Una sedia non è solamente il referto di una osservazione puntuale e statica di un soggetto che “sarei io”. Ogni oggetto entra in una trama di relazioni che concernono possibili utilizzi e possibili significati. Tutto l’insieme dei possibili utilizzi e dei possibili significati apre la cosità delle cose alla loro vera “essenza”, che dunque non può essere mai pietrificata (la vita non può essere pietrificata). La filosofia ha il compito di descrivere questa trama di relazioni, ha cioè il compito di far affiorare il profilo multiforme dei fenomeni nella cornice del mondo della vita che esprime una relazione indissolubile tra soggetto e oggetto.

Husserl

Edmund Husserl (Prostějov, 8 aprile 1859 – Friburgo in Brisgovia, 26 aprile 1938)

In che modo Basaglia è debitore di questa lezione filosofica?

Per Basaglia il malato psichico deve essere “liberato” dalla sua reificazione clinica, deve dunque essere restituito alla sua soggettività. La reclusione e il trattamento disumanizzante all’interno del Manicomio sottrae e alla fine annienta la soggettività del malato, facendolo apparire come un oggetto (Gegen-stand) manipolabile dal potere psichiatrico. Per restituire al malato la sua soggettività, e dunque restituirlo alla vita [al mondo della vita], occorre smantellare l’istituzione entro la quale quella potenzialità è soppressa. Occorre distruggere il Manicomio. Solo distruggendo il Manicomio, infatti, il malato – pur non cessando ipso facto di essere malato – può attingere nuovamente la speranza di “guarire” (ma su che cosa significa “guarire” da un disturbo psichico dovremmo parlare a lungo) e riappropriarsi della propria soggettività (che il Manicomio ha cercato di annientare). Solo distruggendo il Manicomio il malato psichico può essere liberato dall’ingiunzione (lo stigma) che lo ha relegato nella gabbia sfigurante della malattia. La distruzione dell’istituzione manicomiale indica lo sconfinamento del soggetto “malato” dalla gabbia della sua malattia [Marco Cavallo sfonda la porta e se ne va a passeggio per la città].

Dopo la chiusura dei Manicomi la riforma non è terminata, ma si può dire che inizi.

Restituire il malato psichico alla vita [al mondo della vita] significa immaginarsi una vita [un mondo della vita] nella quale c’è spazio anche per la follia [un mondo in cui la follia non avesse spazio sarebbe una completa follia].

Urzì nella giungla

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Alessandro Urzì, l’esponente di Alto Adige nel Cuore titolare della filiale di confine del partito di Giorgia Meloni, fa di professione il cecchino etnico. Il suo lavoro consiste nello stare appostato, affacciato sulla scena pubblica sudtirolese (che ovviamente lui chiamerebbe “altoatesina”) per vedere se qualcosa o qualcuno calpesta la piccola aiuola tricolore della quale si ritiene il custode e la sentinella eretta a condannarne il calpestio (notoriamente, è severamente proibito calpestare le aiuole). Quando qualcuno si avvicina con fare minaccioso alla sua aiuola, ecco che lui è già pronto a sparare. E la sparatoria ha sempre lo stesso contenuto: hey, chi va là, parola d’ordine, aiuto, vogliono attentare all’italianità dell’aiuola, marrani, come si permettono, mascalzoni, ma niente paura: l’armi, qua l’armi: “io solo combatterò, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco agl’italici petti il sangue mio”. Spesso questi attacchi sono del tutto immaginari, il nemico non esiste. Allora Urzì, la sentinella, il cecchino Urzì, se li deve un po’ inventare. L’altro giorno ha pubblicato un esilarante video su Facebook in cui faceva ascoltare una telefonata in tedesco. Secondo la sua ricostruzione qualcuno, contattando l’Azienda Sanitaria locale, ha ricevuto delle spiegazioni in tedesco su come annullare (o confermare) una prenotazione senza poi trovare l’indispensabile versione italiana. Un attentato all’integrità della nazione, un affronto.

Urzì preoccupato

Se avete tempo e voglia di ridere cercate il video e godetevi la faccia di Urzì mentre il messaggio registrato svolge le sue teutoniche raccomandazioni. È una faccia che esprime sconcerto, costernazione, con evidenti note speziate di disgusto. Ma che è ‘sta roba? Ma come, come si permettono? Un messaggio del genere solo in tedesco? Adesso farò in modo di chiarire la situazione, si leggeva sempre sul faccione schifato di Urzì, questa cosa qui deve finire, dobbiamo ribellarci, dobbiamo intervenire. Ovviamente non è affatto vero, come voleva far credere, che l’assenza della lingua italiana fosse riconducibile ad una volontà esplicitamente discriminatoria. Non era in corso un’operazione di “pulizia etnica”. Posto che la comunicazione in questione fosse stata davvero elargita solo in tedesco, era chiarissimo che si trattava di un errore, di una svista. Tutte le comunicazioni qui sono ripetute nel modo più pedante e anche snervante in due lingue. Tutte. Basta aspettare ed ecco che arriva la lingua desiderata. Premi il tasto uno (o il due) e sarai accontentato. Semmai, sono in maggioranza i tedeschi quelli che potrebbero lamentarsi, visto che non sempre il rispetto del bilinguismo è curatissimo da parte degli italiani. Ma tant’è. Per Urzì basta un esempio, anche un solo esempio di trascuratezza della lingua italiana, che subito mette mano al suo fuciletto e fa partire la lamentela del disagiato professionista. Urzì assomiglia a quel famoso soldato giapponese che rimase nella giungla anche quando la guerra era finita. Ma lui nella giungla sta benone, non vuole che qualcuno lo tiri fuori e gli spieghi che le sue preoccupazioni sono quasi sempre ridicole, che i pericoli da lui segnalati non esistono. Ha costruito un’intera carriera politica, nella giungla. Ed è un vero spettacolo vederlo ogni volta alle prese con i pitoni, le tigri e le pantere che soffiano e ringhiano e si azzuffano nella sua immaginazione.

#maltrattamenti

Una città bloccata

Leghisti

Apocalisse virale permettendo, tra poco più di due mesi a Bolzano si voterà per il rinnovo del Consiglio comunale. Di una vera e propria campagna elettorale, però, non si è ancora cominciato a parlare. Il motivo è semplice. Se nel Centrosinistra, pur senza emettere scintille di particolare entusiasmo, è emersa da tempo la ricandidatura del sindaco-manager, Renzo Caramaschi, nel Centrodestra si stenta ancora ad avvistare chi dovrà contendergli la poltrona. Forse perché di ambiziosi, in tal senso, se ne trovano pochi. Oppure, piuttosto, forse perché per scovare dei pretendenti non occorre soltanto esprimersi a sfavore del predecessore, ma bisognerebbe poter contare anche su una visione alternativa di città. Sapere, insomma, dove si vuole andare a parare, possibilmente senza ricorrere a slogan (tipo: “liberiamo Bolzano”) che sono stati già usati per altre centinaia di realtà.

Caramaschi sembra perciò ancora forte, ancora saldo sulla sua sella, essenzialmente a causa della debolezza altrui. Ma da cosa si origina questa debolezza? Perché a Bolzano, nonostante il vento che soffia dal Paese non sia mai stato così incoraggiante come adesso (con i partiti che afferiscono alle destre complessivamente assestati oltre la soglia del 40%), non si riesce ancora a dare a questa città quel governo che, in fondo, la maggioranza dei suoi abitanti auspica?

Senza rifare qui la storia dei vari fallimenti ai quali è andato sempre incontro il progetto di dare vita ad una effettiva “unità” del Centrodestra, la prima cosa che balza agli occhi è lo scollamento tra il ceto politico locale – di destra, anche se non ne è ovviamente immune neppure quello di sinistra – e quello strato di società civile nel quale, potenzialmente, potrebbero cristallizzarsi proposte di un certo spessore, per non dire innovative. Nasce da qui, da questo scollamento, la difficoltà a trovare una “faccia” spendibile (o meglio: qualcuno in grado di mettercela, quella faccia). Il motivo sta in un palese vizio d’origine. Ogni partito “italiano”, dalle nostre parti, non è mai stato molto altro che questo: una filiale sbiadita delle centrali nazionali, con esponenti di volta in volta gratificati da un legame particolare con i leader nazionali (pensiamo a Michaela Biancofiore), ma mai in grado di avere una effettiva presa sul proprio territorio, soprattutto per quanto riguarda la capacità d’imbastire le relazioni che contano. Anche per la Lega, che è riuscita negli ultimi anni a crescere in modo notevole, e quantomeno a nascondere il solito substrato nazionalista in un generico e opportunistico sovranismo da social-network, il discorso non è molto diverso: senza l’effetto trainante di Salvini, senza l’appeal nazional-popolare del “Capitano”, i suoi rappresentanti periferici non sarebbero mai riusciti a farsi percepire. Ma per ambire sul serio a governare il municipio più grande dell’Alto Adige ci vuole qualcosa in più.

Bolzano appare una città politicamente bloccata, alla ricerca affannosa di evidenziare, di pretendere quasi, il suo ruolo di Capoluogo provinciale, ma resta avvitata in contraddizioni strutturali che la condannano a recitare il medesimo copione, elezione dopo elezione. E la Svp sta a guardare.

Corriere dell’Alto Adige, 1 marzo 2020, pubblicato col titolo “Politica virale”