Se la percezione dei fenomeni muta la realtà

berkeley

Il tema, di per sé, è di tipo filosofico: esiste una differenza di fondo tra percezione e realtà? Detto altrimenti, è possibile stabilire con esattezza il grado di corrispondenza tra ciò che “appare” ai nostri sensi e gli stati di cose ai quali tali impressioni si riferiscono? Le risposte offerte dai filosofi a questo tipo di problema sono ovviamente molteplici, ma ultimamente, e suppongo in modo non consapevole, in Alto Adige si registra una singolare preminenza della teoria di George Berkeley, l’empirista irlandese che nei manuali spicca per il suo forte accento antimaterialista. La sua formula più famosa, Esse est percipi, vorrebbe farci credere che l’essere di qualsiasi oggetto si risolve completamente, cioè senza residui, nel suo venir percepito.

L’estrema posizione dell’antico pensatore è alla base del modo di ragionare di tutti quegli altoatesini che, per esempio, basano la propria concezione della “sicurezza” su ciò che essi percepiscono astraendo dai dati ripetutamente comunicati da chi ha il compito di raccoglierli. Se, poniamo, il prefetto Elisabetta Margiacchi afferma che la microcriminalità è in calo (-6,4% a Bolzano nel primo semestre 2014), ci sarà comunque il berkeleyano di turno, magari attivo in un apposito Comitato affollato di berkeleyani parimenti allarmati, che punterà il dito sull’aumento dei furti nelle abitazioni o sulla presenza di spacciatori sui prati del Talvera. Il risultato non è così una visione differenziata degli aspetti critici (che peraltro nessuno nega), ma la realizzazione di un quadro apocalittico rilanciato poi da alcuni mezzi d’informazione che hanno tutto l’interesse a redigere titoli e articoli eclatanti.

Se, come visto, ai nostri berkeleyani la rilevazione oggettiva dei dati non è sufficiente per correggere un tipo di percezione orientata a scorgere segnali di allarme sociale sulla base di numeri del tutto “normali”, ancora meno essi potranno essere convinti invitandoli a confrontare la situazione della nostra provincia con altri contesti. Chi infatti vive completamente chiuso nella bolla della propria percezione tenderà sempre a evitare ogni tipo di confronto, finendo col pensare che ogni realtà debba per l’appunto essere appresa con gli occhi esclusivi di coloro i quali vi si trovano immersi. Anzi, peggio ancora, potrebbe addirittura darsi il caso che, posti nella condizione di apprezzare l’evidenza di tali differenze, leggendo per esempio un servizio giornalistico su quanto è recentemente accaduto nel Rione Traiano di Napoli, ciò venga utilizzato per attivare un impulso a non abbassare la guardia o a stringere la corda del controllo finché si è ancora in tempo.

Infine un sospetto spiacevole. I berkeleyani dei quali parliamo talvolta non sono soltanto cittadini esposti alla violenza denunciata, ma rappresentanti politici di partiti che sul tema dell’ordine e della lotta contro la microcriminalità, specie se di “marca straniera”, costruiscono da tempo l’unico capitale di consenso del quale ritengono di possedere l’esclusiva. Qui, tuttavia, la filosofia non c’entra.

Corriere dell’Alto Adige, 30 settembre 2014

Le alternative perentorie non aiutano

Lang

Il tema politico più rilevante della settimana in corso si potrebbe sintetizzare variando un famoso titolo dell’opera di Nietzsche: sull’utilità e il danno della storia per la vita. Ovviamente alla parola “storia” bisogna qui sostituire “referendum”, visto che a tenere banco sono proprio le due consultazioni popolari in programma a Bressanone e in Scozia e delle quali, certo non per gli stessi motivi, molto si sta parlando.

Il referendum scozzese, in programma domani, ha senza dubbio una portata ben più vasta del secondo, giacché interessa gli equilibri geopolitici continentali. In Sudtirolo è seguito con particolare attenzione soprattutto dai nostri separatisti, non a caso schieratisi apertamente per il “sì”, dunque a favore della dissoluzione della Gran Bretagna. La speranza è che ciò possa dare il via a un processo di progressivo smembramento degli Stati nazionali, anche se in fin dei conti l’unico Stato nazionale al quale essi augurano una sorte del genere è l’Italia.

Non è il caso di rimarcare che qualsiasi comparazione tra la situazione scozzese e quella sudtirolese porterebbe a rilevare più differenze che similitudini. Ciò che ai nostri indipendentisti interessa, però, è in fin dei conti solo la natura di esperimento che l’eventuale distacco della Scozia dall’Inghilterra comporterebbe a livello europeo. Stando alle fin troppo disinvolte profezie diffuse dagli ottimisti, la Scozia andrebbe incontro a un futuro di prosperità giudicato impossibile nella cornice istituzionale presente e questo potrebbe fornire un formidabile stimolo a ripetere l’esperimento anche altrove. Rimane il problema di capire se la Comunità europea sia disposta a incoraggiare una simile evoluzione. Anche se, allo stadio attuale, sembra piuttosto vero il contrario, per chi gode della privilegiata condizione di semplice spettatore (mi riferisco ovviamente sempre ai nostri indipendentisti) basta farsi fotografare con una bandiera scozzese in mano e lasciare che a scottarsi le mani siano gli altri.

A Bressanone, domenica prossima, verrà invece deciso finalmente se concretizzare o meno l’ardito progetto della funivia di collegamento tra la stazione ferroviaria e la Plose, la montagna posta esattamente dall’altro lato della valle. In questo caso il processo che ha portato alla formulazione dei tre quesiti referendari è stato pasticciato, contraddittorio e, ritengo, insoddisfacente per tutti. Non è dunque escluso che, senza considerare i risultati del voto e le scelte che poi verranno effettuate, il malumore continui ad albergare nella città vescovile.

Se ne può trarre una lezione valida in generale: prima di chiamare il popolo a decidere su una determinata questione, sarebbe utile verificare attentamente se esistono soluzioni alternative e possibilmente prive del carattere perentorio che questi ed altri referendum rischiano sempre un po’ di avere.

Corriere dell’Alto Adige, 17 settembre 2014

Piangiamo l’orso perché non è un pollo

orso

Perché l’uccisione di un’orsa desta tanta commozione e il quotidiano massacro di milioni di polli non solo passa del tutto inosservato, ma è percepito dalla coscienza collettiva come un aspetto inevitabile del nostro rapporto con il mondo animale? Possibile che la differenza risieda solo nel fatto che l’orso viene servito rare volte con contorno di patate? (Peraltro, nell’Europa dell’Est – Russia, Slovenia – la sua carne è utilizzata per cucinare gustosi spezzatini o realizzare insaccati).

Da una rapida ricerca condotta in internet si ricava che l’orso è simbolo di buona volontà, forza eroica, ma anche di goffaggine. Tutte cose indubbiamente simpatiche. In seconda battuta troviamo comunque anche caratteristiche quali la cattiveria, la brutalità e l’avidità. Non è escluso che la contraddizione simbolica abbia agito (ed agisca) opponendo la fazione di quanti tendono a giustificare, o perlomeno a non rimpiangere troppo, l’abbattimento di Daniza e di chi, al contrario, fa mostra d’indignazione e si scaglia contro i responsabili (giudicati quindi degli irresponsabili). Ogni simbolizzazione esprime una cospicua dose di antropomorfismo, ecco forse la chiave per spiegare la veemenza di certe reazioni?

Chi si occupa di ambiente (e dunque anche di fauna) sa che noi tendiamo a coltivare un’idea molto parziale allorché ci proponiamo di “salvaguardare” alcune specie animali. Ci aspettiamo cioè che anche gli esemplari selvatici, potenzialmente pericolosi, si comportino astraendo da ciò che in fin dei conti li rende quel che sono. Vogliamo ripopolare i boschi con lupi ed orsi, ma poi pretendiamo che questi si adattino senza problemi alla presenza dell’uomo. Il rischio che si generino “effetti indesiderati” è ascritto a un difetto di comportamento che non siamo disposti a condividere, finendo col sanzionarlo nel modo più brutale. Anche il comprensibile “istinto materno” – capace di indurre, e non solo tra gli orsi, aggressività – viene così rubricato come inaccettabile. All’occorrenza narcotizzato con una dose letale.

Certo, nel caso di Daniza, c’è da ritenere che il suo essere “madre” abbia alzato di molto la suscettibilità di chi avrebbe desiderato conservarla in vita. Una curvatura antropomorfizzante, allargata al concetto stesso di “madre natura”. Commozione a parte, il destino tragico dell’orso si origina in realtà dalla sua difficile collocazione all’interno del nostro modo di intendere e categorizzare quei fenomeni naturali che non risultano sufficientemente addomesticabili per poter attribuire loro una relativa immunità, oppure che non sono funzionali all’economia di sfruttamento. L’unica che, purtroppo, rispecchia in prevalenza la nostra “natura”.

L’ordinaria rivoluzione

Attimo fuggente

Ieri è ricominciata la scuola. Un evento ciclico che però ogni volta tendiamo ad enfatizzare sotto il segno della rottura e quindi – a seconda del punto di vista – a caricare di toni eccessivamente speranzosi oppure di preoccupata rassegnazione. Con ciò, come spiacevole conseguenza, perdiamo l’esatta percezione di quel che costituisce la quotidianità scolastica, della quale continuano così a non essere riconosciuti meriti e difetti.

Ecco allora comparire all’orizzonte soluzioni spacciate per miracolose, inversioni di rotta proclamate da chi ricorrerebbe sempre e comunque ad interventi “straordinari” e “sistematici”. Salvo poi verificare, al giro seguente, che le resistenze erano più dure del previsto o che, addirittura, il rimedio si è rivelato peggio del male.

Per recuperare il senso positivo di una simile “quotidianità” vorrei richiamare alla memoria un vecchio film che, sebbene in modo romantico e attraente, ci propone anch’esso l’ennesima situazione limite. Si tratta del celebrato “L’attimo fuggente”, del regista Peter Weir, portato al successo grazie all’interpretazione del compianto attore Robin Williams.

Chi ha amato quel film sarebbe sicuramente restio a dare ragione all’ottuso preside del collegio di Welton, il quale – come noto – allontana il rivoluzionario professor John Keating perché ritenuto responsabile di aver spronato un allievo a seguire le sue inclinazioni artistiche fino al punto da porlo in un insanabile contrasto con le aspirazioni del padre. Ma siamo davvero sicuri che anche Keating non abbia in realtà scambiato la scuola per una palestra di idealismo palesemente inadeguato a migliorarne il contesto? Insomma, le teorie letterarie di Jonathan Evans Pritchard erano ridicole e andavano senz’altro decostruite, ma per farlo occorreva fondare una setta nel nome di Walt Whitman, come accade nel film? Talvolta non è necessario combattere il grigiore che ci circonda spargendo intorno, senza pensare alle conseguenze, potenti pennellate di tinta accesa. Inoltre, sono proprio le rivoluzioni più roboanti, soprattutto se limitate al loro annuncio, a rendere impossibili le piccole riforme delle quali avremmo bisogno e a vanificare quei progressi che sono effettivamente alla nostra portata.

Credo pertanto sarebbe meglio tornare a esaminare la scuola a partire dalla sua specificità ordinaria, congedando l’attitudine a vederla come un territorio nel quale si affrontano eroi negletti o fannulloni imboscati. Alle parole di visionari e burocrati, che pretendono di insegnare agli insegnanti il loro mestiere, continuo a preferire quelle di chi, giorno per giorno, entra in classe cercando di aiutare concretamente gli studenti ad avere maggiore fiducia e migliori strumenti per costruire il proprio futuro.

Corriere dell’Alto Adige, 9 settembre 2014

Convenzione, una priorità da preservare

Autonomia

Lo scorso numero del settimanale “ff” aveva un titolo e una copertina preoccupanti. “Arrivederci Autonomie?”, si leggeva sullo sfondo di un’aquila avvolta da fiamme tricolori. Non occorre sforzarsi per comprenderne il senso. L’“Autonomie” (scritto in tedesco) è in pericolo. E il pericolo, camuffato da un saluto apparentemente innocuo (“Arrivederci”), è portato ancora una volta dall’Italia, Paese sempre sull’orlo della bancarotta e perciò insensibile alle istanze di autogoverno delle sue propaggini territoriali più prospere, come la nostra. Modello interpretativo classico, insomma, secondo lo schema collaudato: chissà quanto staremmo meglio se non ci toccasse avere ai piedi una tale zavorra!

Un’argomentazione ipotetica non può essere confutata da un’ipotesi di segno opposto. Che la salvezza del Sudtirolo consista nella sua completa emancipazione dallo Stato italiano è perlomeno plausibile quanto il suo contrario, ossia che un processo del genere finisca per liberare le tensioni a lungo compresse dal regime autonomistico e delle quali tutti vorremmo certamente fare a meno. In ogni caso deve essere chiaro che soltanto praticando la via della cooperazione tra soggetti diversi – in primo luogo tra Stato e Provincia, ma anche, in chiave locale, tra i diversi gruppi linguistici – è possibile trovare una soluzione ai nostri presenti e futuri problemi. Rimane allora da chiedere quanto sia attualmente sviluppata una simile cooperazione e, soprattutto, impegnarsi a cercare il modo di incrementarla.

Il governo di Arno Kompatscher era proprio nato sotto un auspicio sulla carta molto attraente: consolidare e ampliare l’edificio dell’Autonomia mediante l’allestimento di un cantiere non più diretto dal solo partito “etnico” in un quadro di trattative esclusive con Roma. L’idea di un “Konvent zum Ausbau der Autonomie” – poi ribattezzato “Südtirol-Konvent” e in italiano tradotto con il termine di non immediata comprensione “Convenzione” (ma non era meglio chiamarla semplicemente “Commissione”?) – sembrava la via maestra da seguire. Si tratta però di un’idea che sta impallidendo a fronte di priorità, inerenti le questioni finanziarie e di adattamento alla riforma costituzionale promossa da Renzi. Il che riporta in auge il vecchio schema, quello per l’appunto messo a fuoco (è il caso di dirlo) dal titolo e dalla copertina del settimanale “ff”. Il rischio di veder presto bruciare le aspettative attribuite alla “Convenzione”, o “Commissione”, è stato smentito a più riprese dallo stesso Kompatscher. Purtroppo però anche le smentite fanno presto a finire in cenere. Facciamo in modo che ciò non accada.

Corriere dell’Alto Adige, 4 settembre 2014