Il referendum austriaco sull’esercito

Fanteria

Qualche giorno fa mi è capitato di stigmatizzare lo scarso interesse reciproco dei sudtirolesi e dei trentini. Un mio amico, solitamente benevolo, ha colto la palla al balzo per rivolgermi un puntuale e utile rimprovero: “Perché ti lamenti visto che neppure tu prendi nota di quanto accade al di là del Brennero? Lo sai, per esempio, che questa domenica in Austria si tiene un referendum sull’abolizione del servizio militare obbligatorio?”. Al rimprovero faceva seguito il consiglio di un paio di siti internet per farmi capire quanto sta accadendo lassù. Dopo aver letto gli articoli, mi sono messo a cercare un riscontro anche sui siti locali più popolati dai cosiddetti patrioti sudtirolesi, generalmente sempre molto attenti a rilanciare discussioni sulla madrepatria perduta o sulla doppia cittadinanza. Non ho trovato alcunché. Strano: il destino dell’esercito austriaco non interessa neppure loro.

In realtà, seguendo il dibattito sul referendum si sarebbero potute notare alcune cose interessanti. La prima riguarda il giudizio sostanzialmente negativo riportato da non pochi commentatori sulla qualità della discussione che ha preceduto il voto. Siamo soliti attribuirci l’esclusività di ogni pressapochismo (espressione non a caso forse intraducibile) metodologico, risulta dunque sorprendente leggere le parole del politologo Ferdinand Karlhofer intervistato dalla Tiroler Tageszeitung: “La preparazione di questo referendum, il momento e le modalità prescelte per animare un dibattito per anni caratterizzato dalle giravolte che i due maggiori partiti hanno inscenato su questo tema, non sembrano condizioni utili a suscitare nella gente l’idea di andare a votare per un’opzione veramente ragionata”. Karlhofer concludeva rimarcando il fatto che l’Austria non ha praticamente esperienze del genere – l’istituto referendario, istituito nel 1989, non è mai stato praticamente utilizzato – e dunque non può vantare standard partecipativi di un qualche spessore.

Colpisce poi soprattutto l’accusa di scarsa prevedibilità degli effetti che saranno innescati sui rispettivi versanti della decisione. Ogni scelta è destinata a rotolare verso l’incerto, questa è l’unica cosa priva di dubbio. Ma una considerazione del genere non dovrebbe servire a coprire di scetticismo l’istituto stesso: una migliore e più attenta informazione resta l’unica via d’uscita praticabile.

A proposito: sapete qual è stato uno degli effetti più curiosi dell’abolizione del servizio militare e civile obbligatorio qui in provincia? Che le competenze in lingua italiana della popolazione maschile rurale sono progressivamente diminuite. In Italia, però, la leva venne semplicemente abolita senza l’intervento di una consultazione popolare.

Corriere dell’Alto Adige, 19 gennaio 2013

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Penso che ieri sera abbiate visto tutti il programma di Santoro. Ospite Silvio Berlusconi, per la maggior parte degli italiani era un po’ come se si stesse giocando Italia Germania. Peccato che oggi ci siano almeno cinque televisori o schermi per casa, perché altrimenti sarebbe stata una di quelle giornate un po’ anni cinquanta, con la folla nei bar a fare il tifo.

Davanti alla televisione comunque c’ero anch’io. Stravaccato sul divano, tra una dormitina e l’altra cercavo di seguire l’appassionante confronto senza cedere completamente alla noia. Siccome però a un certo punto si sono messi a urlare – più o meno quando Berlusconi leggeva la lettera a Travaglio scrittagli da un collaboratore, forse Bonaiuti, cioè quello che spediva ogni giorno ai vari infimi rappresentanti del Partito il suo “Mattinale”, la raccolta di formulette fatte apposta per essere infilate nei loro cervellini -, siccome si sono messi a gridare, dicevo, mio figlio Paolo si è svegliato, è venuto di là e mi ha chiesto: “Babbo, ma cosa succede, chi sono quelli, perché urlano?” E io ovviamente ho detto che non “erano nessuno” e “non succedeva nulla” e poi mi sono accorto che questa non era una formula di circostanza, pronunciata per evitare di dover fornire spiegazioni incomprensibili a un bambino, ma si trattava della pura e semplice verità. Due nullità bercianti, Santoro e Berlusconi, affratellati nell’epilogo (speriamo) della loro ventennale contesa del cazzo.

P.S. Leggo in giro che Berlusconi ha fatto una “bella figura”. Torniamo quindi a temere gli acefali che l’avevano già votato.  Non è più tanto scontato che abbiano imparato la lezione: potrebbero perseverare. Proviamo allora a fare un po’ di pubblicità a un articoletto di Massimo Bordignon. In poche righe liquida come merita la rinnovata alleanza tra Pdl (ammesso che continui a chiamarsi così) e Lega, supposta architrave dell’ennesimo tentativo di andare al governo per compiere ulteriori inevitabili porcate.  [LINK]

Migliorare la società civile aiuta la politica

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La politica non è la causa di ogni male e la società civile non è la causa di ogni bene. Piccolo gioco per scoprire l’espressione o la parola più abusata in questa campagna elettorale. Ogni dichiarazione breve è qualificata come un “cinguettio” (e guai a chi non semina su “Twitter” le proprie considerazioni sul mondo); al posto dei programmi sono spuntate come funghi le “agende”; una posizione appena un po’ più decisa, o comunque non perfettamente equidistante da ciò che un tempo chiamavamo “destra” o “sinistra”, è rubricata subito alla voce “estremismo”. Il vero fenomeno debordante è costituito inoltre dalla continua evocazione del ruolo quasi taumaturgico attribuito alla “società civile”. Formula tanto evocata quanto probabilmente poco compresa in tutte le sue implicazioni.

Ho fatto così una piccola ricerca. Alla voce “società civile” dell’enciclopedia Treccani on-line, Giuseppe Bedeschi scrive che per il pensiero giusnaturalistico del Seicento “società civile” era soltanto un sinonimo di “società politica”. Cioè esattamente l’opposto di quanto oggi siamo soliti pensare. Fu poi grazie alla riflessione di Jean Jacques Rousseau che cominciò a prendere forma quella disgiunzione terminologica alla quale ci siamo abituati. Ma cosa intendeva Rousseau per “società civile”?

Nel “Discorso sull’origine e fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini” (1755) la “società civile” è il campo in cui si manifesta l’“ambizione divorante”, la “smania di innalzare la propria posizione” e l’“oscura tendenza a nuocersi reciprocamente”. La politica allora serve a garantire e sanzionare – mediante l’inganno operato dai più forti – le ineguaglianze e le disparità già create dalla “società civile”. Per il filosofo ginevrino sarebbe dunque stato impensabile proporre di curare i mali della politica mediante un ricorso proprio a quella “società civile” che di quei mali rappresenta la causa.

Certo, magari l’analisi di Rousseau risulta nel complesso datata. Ancora apprezzabile sembra però la sua capacità di distinguere, non opponendole, “società civile” e “società politica”. Senza al riguardo cadere in un’ardua ipostatizzazione e separazione tra “buoni” e “cattivi”, egli insiste piuttosto su alcuni elementi di continuità difficilmente negabili. Più ingenui di lui, noi tendiamo ad attribuire proprio alla “società civile” i tratti idilliaci che Rousseau riservava allo “stato di natura”, e spostiamo tutto il peso delle critiche, per non dire il disprezzo, sulla politica. In questo modo ci sfugge l’essenziale: soltanto se fossimo in grado di migliorare il nostro vivere civile, continuando cioè ad operare nel contesto delle nostre inclinazioni e professioni, saremmo sicuramente poi anche capaci di animare una politica migliore.

Corriere dell’Alto Adige, 11 gennaio 2013

Standard-Interview

“Ohne Autonomiestatut wäre es sicher schlechter”

Interview | 3. Jänner 2013, 18:50
Publizist Gabriele De Luca

Der Publizist Gabriele Di Luca über ethnische Identität in der nördlichsten Provinz Italiens, zweisprachige Wanderwegmarkierungen und den Ruf nach einem Freistaat.

STANDARD: Wie sollte nach Ihrer Vorstellung Südtirols neue Ära nach jener von Durnwalder aussehen?

Di Luca: Sie sollte sich so gestalten, dass keine herausragende Persönlichkeit das Sagen hat. Weniger hierarchisch und patriarchalisch, mehr Mitbestimmung und Demokratieverständnis.

STANDARD: Sehnen sich Südtirols Italiener nach einer ethnischen Sammelpartei à la SVP?

Di Luca: Das glaube ich kaum. Sie hätten dafür in den letzten Jahrzehnten genug Zeit gehabt. Das haben sie nicht einmal unter Berlusconi geschafft, dessen Partei in Südtirol heillos zerstritten war. Die italienischen Parteien sind hier nur Ableger ihrer römischen Zentralen, blasse Fotokopien ohne eigene Gestaltungsfähigkeit, aber genauso zersplittert.

STANDARD: Wie empfinden Sie das oft gepriesene Zusammenleben der Sprachgruppen?

Di Luca: Als Nebeneinander ohne Böswilligkeit. Jede Gruppe lebt ein bisschen für sich, da ist viel Bequemlichkeit im Spiel. Es ist bequemer, unter sich zu sein. Die wenigsten lesen Bücher in der anderen Sprache, obwohl sie dazu durchaus in der Lage wären. Gleichsprachige Gruppen durchmischen sich ohne große Konflikte, alles scheint einfacher, es braucht keine Anstrengung.

STANDARD: In Ihrem Blog “Sentieri interrotti – Holzwege” spielt die ” Kunst des Zusammenlebens” eine wichtige Rolle. Worin besteht denn diese Kunst?

Di Luca: Es ist schwierig, einer anderen Kultur zu begegnen. Man darf nicht resignieren und auch nicht versuchen, die Grenzen zu verwischen oder die andere zu annektieren – sei es auch aus Zuneigung. Abstrakte Themen wie die Identität sollte man Soziologen überlassen und sich konkreten Problemen des Alltags widmen. Dann verschwinden die Barrieren, und das Zusammenleben wird zunehmend zum Erfolg.

STANDARD: Wie reagieren Sie auf die Parole “Los von Rom”?

Di Luca: Ich bin kein Nationalist, daher schreckt mich die Vorstellung einer Abtrennung von Rom nicht. Ich möchte gerne, dass mir jemand glaubhaft erklärt, wie man die juridischen, institutionellen, diplomatischen und sonstigen Probleme löst, die dabei auftreten. Das von Wien und Rom in langen Jahren ausgehandelte und von beiden Staaten mitgetragene Autonomiestatut müsste abgeschafft werden, die heutige Minderheit würde zur Mehrheit.

STANDARD: Nervt Sie das Geplänkel um zweisprachige Hinweisschilder auf Wanderwegen?

Di Luca: Es gibt psychologische Gründe dafür. Die grundsätzlichen Probleme sind gelöst, die Minderheit geschützt, alle leben im Wohlstand. Die Wunden früherer Jahre überleben dann eben in Form symbolischer Konflikte. Die Überbleibsel des echten Konflikts leben in Stammtischdebatten fort, ohne Dramatik, meist periodisch zu gewissen Anlässen.

STANDARD: Herrscht in Südtirol ein ausgewogenes Gleichgewicht zwischen den drei Sprachgruppen?

Di Luca: Es herrscht eine gewisse Asymmetrie. Das Autonomiestatut hat das alte Ungleichgewicht korrigiert, aber auch ein neues geschaffen, das der Wohlstand allerdings zu einem marginalen Problem herabmindert. Aber ohne Autonomiestatut wäre es sicher schlechter. (Gerhard Mumelter, DER STANDARD, 4.1.2013)


Zur Person:

Gabriele Di Luca (45) ist Journalist, Lehrer und Übersetzer, stammt aus der Toskana und lebt mit seiner Familie in Brixen.