I dilemmi di casa Goethe

Goethe

Supposto che quando parliamo dello scrittore Johann Wolfgang von Goethe non intendiamo solo il referente di una delle molte strade o scuole a lui dedicate, ecco una citazione che ne illustra più di altre il lascito intellettuale: «Noi Tedeschi non sappiamo guardare oltre l’angustia cerchia del nostro ambiente […]. Io invece guardo volentieri alle altre letterature: e consiglio a ciascuno di fare altrettanto. Le prediche sulla letteratura nazionale sono invecchiate oramai: è vicina l’epoca di una letteratura universale; e ciascuno deve adoperarsi per affrettare quell’epoca». Sono parole che si leggono nei celebri colloqui raccolti da Johann-Peter Eckermann. Occorre però introdurre una precisazione che contestualizzi il termine «letteratura universale» (Weltliteratur) sottraendolo al rischio di farne un vuoto richiamo retorico. «Può sembrare sorprendente — ha scritto Susan Sontag in un testo intitolato Tradurre letteratura — che Goethe abbia proposto un’idea così in anticipo sui tempi. Sembra meno strano se si pensa che Goethe era non solo un contemporaneo di Napoleone, ma egli stesso napoleonico in una serie di idee e progetti che si potrebbero considerare gli equivalenti intellettuali dell’impero. La sua idea di letteratura mondiale ricorda l’idea napoleonica degli Stati Uniti d’Europa, dal momento che per “mondo” Goethe intendeva l’Europa e i paesi neoeuropei, dove era già in atto un intenso traffico letterario attraverso le frontiere».

Non senza attivare una qual certa ironia, e abbandonando adesso il campo ristretto della letteratura, potremmo proiettare questo gioco di citazioni sul nome e la figura storica di Goethe per affrontare la recente polemica inerente l’inaugurazione della «casa» delle associazioni culturali in lingua tedesca, aperta — neppure a farlo apposta — nella via del centro di Bolzano dedicata proprio all’autore del Faust. Si sono udite grida indignate da parte «italiana»: ma come, possibile che in una città bilingue e multiculturale come la nostra non sia ancora prevista una casa comune della cultura in cui far incontrare e promuovere scambi tra tutti i suoi abitanti? In effetti no, non è prevista, il grande progetto goethiano del polo bibliotecario pare essersi per esempio arenato, ma ciò non ha solo a che fare con la scarsa volontà delle istituzioni a promuovere politiche, diciamo così, fusionali, bensì è anche il frutto di automatismi che la popolazione in genere asseconda, salvo poi prendersela di tanto in tanto con chi non farebbe nulla (o comunque poco) per combattere la tanto aborrita — a parole — tendenza separatista.

Mi rendo conto che messa così assomigli un po’ al problema dell’uovo e della gallina: la mancanza di proficui scambi culturali oltre il confine delle lingue è dovuta alla scarsa iniziativa della politica? Oppure sono gli stessi cittadini che, almeno sinora, non sono riusciti ad alimentare un vero e più corposo interesse, a plasmare quelle «affinità elettive» indispensabili a creare maggiori spazi di condivisione? Non è inverosimile che il concorso di demerito, se non di colpa, sia equamente distribuito.

Corriere dell’Alto Adige, 27 febbraio 2019

Una terrazza per Bolzano

City Skyliner

Una volta, sotto l’effetto del film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, mi capitò di lamentare l’assenza di terrazze panoramiche a Bolzano. “Ma a Bolzano – scrissi – ce sta una cazzo di terrazza sulla quale organizzare una festa con 200-300 persone?” Sia chiaro, non che abbia davvero voglia di frequentare un posto del genere (ci fosse) in un’occasione del genere (ci fosse anche quella). Io alla festa neppure ci andrei. O ci passerei giusto il tempo per svignarmela alla prima occasione. Ma è la questione generale a interessarmi, il punto in sé. Bolzano è una città sprofondata in basso dall’orografia che l’avvalla (con due v) e per coglierne il profilo complessivo bisogna salire un po’ in montagna, per esempio sulle passeggiate del Guncina o di Sant’Osvaldo. Oppure prendere una delle tre funivie (quella del Colle, del Renon, di San Genesio) e aspettare che gli edifici si allontanino mollemente contemplati dal nostro sguardo ammirante e preoccupato (in funivia è inevitabile essere un po’ preoccupati, per la paura che qualcosa vada storto e si rimanga poi per delle ore a dondolare nel vento in balia di un guasto tecnico o di un blackout). Per non parlare del futuribile Virgolo di Benko, con la sua piramide per Tutankötzi. In un bellissimo libro che ho appena finito di leggere (Marco Lodoli, Paolina, Einaudi), la piccola protagonista – una ragazzina quindicenne romana che vede la sua vita come se scorresse dietro ad un vetro – sale su una terrazza e si abbandona a considerazioni che sicuramente non sviluperrebbe, non stesse là in alto: “Paolina si affaccia sulla città, pensa a tutta quella vita sparpagliata negli appartamenti illuminati, nelle piazze, pensa che forse nessuno è veramente felice, eppure tutti si alzano, vanno, tornano, ricominciano, come le valige sul nastro dell’aeroporto che girano e girano in tondo, e ogni tanto qualche valigia viene ritirata e qualcun’altra appare dalla tendina in fondo, e sembra che il nastro non si fermi mai. Io non c’ero, e poi non ci sarò, ma intanto devo girare, amare, odiare, riprodurmi, fare confusione, fare poco, tanto, niente, riempire la valigia. Guarda la città, Paolina, ma ha la strana sensazione che anche la città la guardi, che quella immensa macchia buia punteggiata di luci la osservi con migliaia di occhi”. Poesia. Ora, non so se per rimediare a questa mancanza di poesia urbana, ma da qualche tempo qui a Bolzano si parla con minacciosa concretezza di far erigere una torre panoramica nel centro del centro. In un certo senso funzionerebbe da mega-terrazza. Prima la volevano mettere in piazza Walther, poi sul lungo Talvera. Ora pare che la location prescelta sia piazza del Municipio, che in pratica verrebbe quasi tutta consumata per diventare la base della fenomenale attrazione turistica. Al contrario di chi pensa che una cosa del genere renderebbe Bolzano un po’ più simile a Parigi (sic), a mio avviso si tratterebbe di una modesta ma assai invasiva esibizione fallica priva di originalità, una semplice replica di altri esemplari costruiti dalla medesima ditta (City Skyliner) in giro per l’Europa. Una cosa un po’ da Luna Park, insomma, con tanto di ascensore e ristoro rotante sulla vetta. Peraltro, almeno stando alle dichiarazioni del sindaco, l’installazione sarebbe solo temporanea (dal primo maggio a metà giugno), facendo quasi l’effetto di un Pandoro scartato in primavera. Nessuno ne sentiva il bisogno, neppure io, che amo così tanto le terrazze.

#maltrattamenti

Toponimi, le scelte della Lega

Toponomastica

In Alto Adige il tema della toponomastica evoca subito il monito che la saggezza popolare ha escogitato a proposito dei cavi dell’alta tensione: chi li tocca muore. Non che ci sia niente di particolarmente pericoloso o letale, in quel tema, ma tali e tante sono le trappole aperte sotto la sua superficie (peraltro già tanto scivolosa) che è difficilissimo non finirci dentro e rompersi l’osso del collo.

La prima trappola è quella data dalla noia, o per meglio dire dalle sue crepature. Esiste un pubblico realmente appassionato, qualcuno che in condizioni normali troverebbe non dico interessante, ma almeno sensato occuparsi di verificare se (e come) i nomi dei luoghi vengono di fatto appuntati su mappe e cartelli?

Eppure, non ci troveremmo in Alto Adige se non capissimo che tali condizioni «normali» possono essere assai repentinamente sovvertite da una polemica attorcigliata dal nodo malefico e maledetto dell’identità. Ma per l’appunto: si tratta di polemiche sterili, infilzate dai «noi siamo noi» recitati come un mantra nei pozzi profondi, aspettando che la stanchezza faccia il suo corso. Dunque in un certo senso occuparsene si deve, anche se il legislatore non pare mostrare soverchio talento.

Adesso l’ultima novità è data dall’abrogazione della cosiddetta Lex Durnwalder. Una legge che gli storici annoteranno quale tentativo di tagliare la testa al toro sulla base dell’impiego (rispondendo cioè alla domanda: quali toponimi italiani sono veramente in uso nei recessi più impensabili della provincia?).

La legge — proposta dall’ex governatore grazie a una maggioranza e finanche a uno stile non più gradito dagli elettori — venne sottoposta ad aspre critiche e per anni appesa al capestro della suprema Corte, fino quasi a marcirvi. Fatta fuori questa, il bivio è quello di sempre: lasciare che nessuno decida, in modo che ricresca alta l’erba dell’indifferenza, e magari ogni tanto si sprigionino piccoli incendi dolosi, oppure ricominciare da capo a ponderare, vagliare, eccepire, trovando nuovi criteri o aggiustandone parti già finite in archivio, e guardare se stavolta saremo in grado di pervenire a una soluzione strombazzata come «condivisa» (parola magica, parola vuota).

A guardar bene, nel quadro di ripetitiva disgrazia stavolta potrebbe però annunciarsi persino un piccolo spiraglio di inedita speranza (o disperazione, dipende sempre dai punti di vista). Come approcceranno infatti il problema i leghisti del governo locale, scissi tra le istanze nazionaliste dei loro mandanti romani, nonché della maggioranza dei loro elettori bolzanini, e la vocazione territoriale che, pure, essi si vantano di interpretare? Quali corde toccherà la retorica del «buon senso» davanti a una questione che è fatta apposta per schiantarlo in due metà inconciliabili? Sarebbe estremamente buffo se proprio su una querelle così incancrenita, e tutto sommato da trattare senza dar troppo nell’occhio, si arenassero le istanze del «cambiamento» e arretrassero i bastioni del gradimento. Non sarebbe comunque la prima volta che l’ostacolo responsabile delle più rovinose cadute si rivelasse quello situato più in basso.

Corriere dell’Alto Adige, 23 febbraio 2019

Kevin Masoch

Masocco

Above all else I am a dilettante in life” (Leopold von Sacher-Masoch)

La prima volta che vidi il consigliere comunale, anzi, l’ex consigliere comunale Kevin Masocco, fu durante una delle numerose comparse di Matteo Salvini a Bolzano. A quel tempo il nostro era poco più che un ragazzetto chiamato a far numero nel mediocre contorno del futuro ministro dell’interno, quando – munito di felpe, o di altri indumenti parlanti – ammaestrava folle crescenti di adoratori.

Masocco correva di qui, correva di là, faceva spostare gruppi di persone, creava varchi, attaccava o staccava striscioni, si sbracciava (fate largo, fate largo, arriva il Capitano) e insomma partecipava attivamente allo spettacolo nel quale non era neppure uno dei protagonisti. Se il successo della Lega non avesse consentito l’ingresso in massa nelle istituzioni delle seconde e persino delle terze file di adepti – con consiglieri comunali, consiglieri provinciali e parlamentari a fioccare come in una nevicata di quelle che mandano subito in tilt il traffico –, è chiaro che una figura del genere non sarebbe mai emersa, o comunque lo avrebbe fatto dopo penosissimi sforzi. Invece, ecco che al miracolato si aprono velocissime le porte del Consiglio comunale e, di conseguenza, si alza inevitabilmente il rischio di finire sul serio sotto l’attenzione non proprio benevola dei media, nonché nel tritacarne decisamente malevolo delle piccole invidie, gelosie e antipatie trasversali che sempre caratterizzano un partito popolato da parvenus.

Masocco è la vittima perfetta di se stesso (potremmo giocare sul suo nome e chiamarlo Sacher-Masoch), perché impulsivo, inesperto e fin troppo ingenuo. Chi bazzica i luoghi da lui frequentati (spesso locali notturni) parla di un ostinato provocatore, mitomane e spesso incline alla rissa. Sul suo profilo Facebook, nonostante il tentativo di clonare i moduli accattivanti messi a punto dalla famigerata “bestia”, il successo però gli arride poche volte, e perlopiù sono i suoi detrattori a prendere la parola, infamandolo in lungo e in largo (ma lui, da masocchista, ci gode). Suscita quasi tenerezza, il povero Masocco, e quando affiorano le registrazioni che lo espongono al livello di un volgare millantatore di pratiche misogine e di bestemmiatore amante dei presepi (registrazioni peraltro messe in circolo non da “nemici”, ma da qualcuno dei suoi apparenti sodali), la sua reazione è quella di un pulcino impaurito (“non sono stato io, hanno imitato la mia voce”), del tutto incapace di metterci la faccia e di gridare al mondo: “hey baluba, io sono un rappresentante della nuova razza padrona, capito? dico e faccio quello che cazzo mi pare, e se non vi sta bene un bel ciaone e un bel bacione”. Ovvio così che la bugia non regga. Pinocchietto Masocco ha il naso troppo lungo per farla franca e finisce col cedere: ammissione tardiva, addolorate scuse e l’addio allo scranno del Consiglio comunale, dal quale aveva comunque fatto in tempo a farci pervenire un paio di selfie col sorriso per i rosiconi radical-chic.

Qualcuno, commentando da buonista l’esito di questa vicenda, ne ha voluto sottolineare il risvolto edificante, e ha spronato Masocco a trarre finalmente una lezione per migliorarsi. Io rimango dell’avviso che la sconfitta sia già avvenuta “a monte”, quando abbiamo cominciato a consentire e a far sembrare normale che chiunque potesse farsi eleggere riuscendo a sfruttare le sue caratteristiche peggiori.

#maltrattamenti

Appartenenza sfocata

Vettorato

Qualche giorno fa ho avuto il privilegio di avere ospite Giuliano Vettorato – il nuovo assessore provinciale alla cultura e scuola italiana – nell’ultima puntata della mia “Lampada Verde”, la serata di discussione che modero ogni due mesi a Merano al Club OstWest. Mi ha fatto l’impressione di una persona modesta (non necessariamente nell’accezione più negativa del termine), disposta a confrontarsi seriamente con il compito non facile che lo aspetta, ma tutto sommato ancora molto all’oscuro per quanto concerne l’idea principale che dovrebbe guidarlo nel suo lavoro. All’oscuro, dicevo, proprio per l’oscurità intrinseca, la sfocatezza del concetto che egli vorrebbe programmaticamente mettere a fuoco, ovvero un “focus” sull’appartenenza degli altoatesini a questa terra. Parlando di fuoco e di “focus” mi viene in mente il giochino dell’indovinello che si faceva da piccoli. Ricordate? Qualcuno doveva pensare una cosa (un oggetto, per esempio) e poi rispondere a delle domande che gli altri gli (o le) ponevano per scoprire a cosa aveva pensato. È grande? Acqua. È piccolo? Fuoco. Si trova in casa? Acqua. Sta in giardino? Ecco, fuochino. E così via. Quando le domande si apprestavano a farsi sempre più circoscritte, e per così dire a puntare senza indugi l’oggetto cercato, si poteva finalmente dire fuoco, fuochissimo, brucia tutto, e il mistero andava presto in fumo. Anche la ricerca dell’appartenenza degli altoatesini a questa terra potrebbe assomigliare al giochino dell’indovinello, e ci si potrebbero immaginare quei raduni di persone che si siedono in tondo, tutti con dei cartoncini colorati, dei pennarelli. Poi si formano i gruppi, ogni gruppo va a discutere in un angolo, o in un’altra stanza, quindi si torna tutti insieme e si presenta il risultato di questo cercare: acqua, fuochino, fuoco. In genere ciò che si trova sono banalità luoghi, comuni, frasi fatte. In una formula: pessima psicologia sociale. Cosa troverebbero ricercatori siffatti? Certamente non la robusta e sapida identità che essi ingenuamente invidiano ai “tedeschi” (neppure i “tedeschi”, peraltro, possono contare su quel piatto prelibatissimo, ma loro non hanno bisogno di imbastire faticose ricerche, giacché pensano di mangiarselo tutti i giorni), ma al contrario troverebbero l’acqua insulsa di qualche frase di circostanza sulla bellezza delle “nostre” montagne, l’imprescindibile richiamo ai “nostri” simboli confessionali e una grandissima lode dell’autonomia “più bella del mondo”, una lode che agli italiani di qui (ma anche a non pochi “tedeschi”, quelli più indipendentisti) è sempre risultata quasi impronunciabile o pronunciabile solo dopo molti gargarismi di grappa. L’appartenenza, vorrei timidamente suggerire all’assessore e ai suoi focalizzanti ricercatori, molto spesso è una trappola cognitiva e sentimentale: se abbiamo bisogno di cercarla vuol dire che non ce l’abbiamo (e non la troveremo), se invece ci riconosciamo come appartenenti a qualcuno, a qualcosa, allora è sicuro che non stiamo lì a spendere tante parole per chiederci in cosa consista, ad alzarci il maglione per controllare l’ombelico, e magari anche il cordone ombelicale con tutto quello che ci starebbe ancora attaccato.

#maltrattamenti

Salute, il tempo giusto

krankenhaus-ospedale

Nei giorni scorsi si è riparlato di una notizia che tocca un nodo da sempre dolente nell’ambito delle possibilità d’impiego in provincia di Bolzano. Un nodo che, inoltre, diventa ancora più intricato se parliamo di personale ospedaliero, tanto che il discorso pubblico si è spesso incagliato in un’alternativa inevitabile ma fuorviante: è meglio avere medici competenti, sebbene non in possesso dei requisiti linguistici pretesi, oppure la non conoscenza della seconda lingua è davvero un ostacolo all’esercizio della professione? L’argomento è riaffiorato, dicevo, perché il sindacato Bsk-Vsk, che raggruppa soprattutto i sanitari di lingua tedesca, ha chiesto alla nuova giunta di concedere più tempo (cinque anni, anziché tre) a 220 giovani medici adesso assunti a tempo determinato, per non dire condizionato.

Non è difficile mettersi nei panni (e quindi percepire le preoccupazioni) di quei giovani medici. Hanno studiato tanto, finalmente hanno un lavoro, s’impegnano, cercano di fare il loro meglio, ma le attenzioni vengono canalizzate in una direzione che le assorbe quasi tutte, e non c’è tempo, spesso neppure modo di evolvere una competenza linguistica che non deve trascurare anche risvolti specialistici. Alla stessa maniera, non dovrebbe essere difficile mettersi nei panni dei pazienti.

Un paziente non è semplicemente un caso clinico, un composto di molecole sofferenti da trattare o riparare come farebbe il meccanico con una motocicletta finita fuori strada. Nel rapporto che lega un medico al suo assistito la comunicazione riveste un ruolo essenziale, non è solo questione di limitarsi a fornire indicazioni sommarie. «Il colloquio tra medico e paziente — si legge in un testo che cerca di mettere a fuoco i principi fondamentali della cosiddetta medicina narrativa — rappresenta un momento fondamentale, sia nel setting del ricovero ospedaliero che in quello ambulatoriale, per ricavare importanti informazioni anamnestiche ai fini della diagnosi, per instaurare una relazione terapeutica e garantire così l’aderenza alla cura da parte del paziente, e per rendere edotto sia il paziente che i suoi familiari sull’andamento della malattia». Senza una conoscenza adeguata della lingua del paziente, è evidente, ciò non sarebbe minimamente possibile.

Soppesando le ragioni degli uni e degli altri, possiamo intuire come l’esigenza di evolvere le appropriate competenze in un lasso di tempo più largo non rappresenti un’inutile dilazione. Certo, è vero anche che lo studio astratto di una lingua non basta, figuriamoci se imposto con la minaccia di un allontanamento dal posto di lavoro a causa di un errore nella declinazione di un verbo. Occorrerebbe quindi una diversificazione dell’attività di apprendimento e di esposizione alla lingua parlata che, in sostanza, mettesse questo tipo di personale a maggiore contatto con la forma di vita complessiva della quale la lingua costituisce l’articolazione principale (pensiamo per esempio a quanto peso ha il dialetto nella comunicazione di tutti i giorni). In quel caso, forse, lo spauracchio del «tedesco» potrebbe lasciare il posto al desiderio d’impadronirsi di strumenti culturali più sensibili, avvolgenti e neppure limitati al mero utilizzo professionale.

Corriere dell’Alto Adige, 9 febbraio 2019