L’elefante e la formica

Più o meno tutti avranno sentito questa barzelletta. Nella sua versione standard: un elefante sta camminando nella foresta quando inavvertitamente passa sopra a un formicaio uccidendo migliaia di formiche. Le formiche sopravvissute, per vendicarsi, gli saltano addosso. L’elefante, avvertendo un brulichio fastidioso, si scrolla e le fa cadere, tutte tranne una, che gli rimane attaccata sul collo. Allora le formiche cadute, vedendo l’intrepida formica rimasta, le urlano in coro: “Strozzalo!”. La barzelletta finisce così e non è dato sapere in che modo abbia poi reagito l’elefante (si sarà messo a ridere pure lui?).

Una barzelletta, forse un apologo

Non è pacifico se una barzelletta, come quella appena letta, possa anche funzionare da apologo. In questo caso forse sì, occorre tuttavia fornire una spiegazione, circostanziare, come si suol dire, o comunque esplicitare che cosa dovrebbero rappresentare l’elefante e le formiche (anzi: la formica, unica, che gli si è aggrappata al collo) in un contesto “reale”. Se poi la spiegazione avrà l’effetto di dissolvere l’ilarità che accompagna perlopiù le barzellette, magari ne avremo ricavato un chiaro insegnamento “morale”. Ad ogni modo, al fine di volgere la barzelletta in apologo è necessario rivelare subito la fine mancante della barzelletta, è indispensabile cioè capire come ha reagito l’elefante. E l’elefante non ha riso per niente, anzi, si è mostrato piuttosto piccato, intentando una causa civile contro la formica, accusata non di tentato omicidio (sarebbe stato un po’ troppo), ma solo di diffamazione. Per questo motivo avrebbe chiesto un risarcimento di 150.000 euro da devolvere in beneficienza (il nostro elefante è parecchio permaloso, ammettiamolo, ma anche filantropo).

Attacco alla libertà di stampa?

Scopriamo tutte le carte. L’elefante della barzelletta è la più potente azienda mediatica dell’Alto Adige-Südtirol (il suo nome “Athesia”), mentre la formica è un piccolo quotidiano online, anch’esso con sede fisica da quelle parti, gestito da una cooperativa (si chiama “Salto”). Aggiungiamo poi che “Salto”, essendo redatto in due lingue, rappresenta esattamente da dieci anni – fu varato nel marzo del 2013 – una voce alternativa a quella espressa dall’establishment provinciale, disciplinata dalla rigorosa dicotomia italiano/tedesco. Ma in che modo “Salto” avrebbe tentato di strangolare – pardon, nuocere alla fama – di Athesia? Secondo l’accusa si tratterebbe di questo: in uno spazio di quattro anni (dal 2018 al 2022) il piccolo “Salto” ha pubblicato una sessantina di articoli nei quali si attaccherebbe il gigante “Athesia” sottoponendolo ad una “continua e pressante campagna diffamatoria”, quindi mediante una vera e propria azione di “stalking mediatico” condita da “calunniose insinuazioni di collusione con partiti politici e con la pubblica amministrazione”. Anche se l’obiettivo della denuncia è esteso all’intero portale, è in particolare Christoph Franceschini, il giornalista di punta di “Salto”, ad essere considerato il motore di una simile campagna. Franceschini, fra l’altro, è anche uno degli autori del libro (“Freunde im Edelweiss. Ein Sittenbild der Südtiroler Politik”) che ha turbato di recente il sonno a parecchi rappresentanti del partito egemone in quelle terre (la Südtiroler Volkspartei) e portato nuova legna da ardere al tema della “collusione con partiti politici e con la pubblica amministrazione” della quale si sarebbe resa protagonista e colpevole “Athesia”. Ma a questo punto è utile forse chiarire un po’ meglio che cosa sia l’elefante, cioè “Athesia”, e per quale motivo la sua consueta e consolidata strategia – ignorare sdegnosamente avversari e competitors facendo loro il vuoto attorno: in tedesco si dice “Totschweigen”, soffocare nel silenzio – si sia adesso mutata in una reazione che in qualche modo ha fornito a “Salto” il luminoso palcoscenico della vittima, ossia di chi si trova a difendere a mani nude nientemeno che la “libertà di stampa”.

Non si muove foglia che Athesia non voglia

Che cos’è, dunque, “Athesia”? Cliccando sul portale omonimo, la prima descrizione che ci viene incontro suona: “Il Gruppo Athesia vanta una storia di oltre 130 anni ed è legato fortemente alle tradizioni del Tirolo. Centinaia di donne e uomini hanno contribuito a questa storia con il loro lavoro ponendo in tal modo la base per il successo di Athesia come azienda dinamica, tecnologicamente all’avanguardia e sovranazionale nei settori dell’editoria e della stampa, servizi ed energia. Il Gruppo Athesia continua ad investire in nuove idee e progetti, per essere anche in futuro un’impresa che agisce con successo rispettando sempre la sostenibilità”. Al netto della retorica aziendale, il quadro che se ne ricava pone in fila i seguenti dati: nata ab antico per opporre alla stampa d’ispirazione liberale o socialdemocratica posizioni ispirate al cattolicesimo più intransigente, l’impresa si è via via ampliata fino a diventare determinante in una vastissima rete d’interessi (dalla fabbricazione dei cartoni per la pizza – il che stride un po’ con la mission intonata alle tradizioni tirolesi – fino alle attività che la coinvolgono nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del turismo). Non è insomma un mistero per nessuno che “gli Ebner”, la famiglia che si identifica con il marchio (e al cui vertice siedono la centenaria Martha, nipote di Michael Gamper, un monumento dell’antifascismo locale, moglie di Toni Ebner, storico direttore del quotidiano “Dolomiten”, con i figli Michl, ex politico SVP, attualmente presidente della Camera di Commercio, e Toni Ebner Junior, Chefredakteur del “Dolomiten” sulle orme del padre), esprimano e difendano con ogni mezzo un grumo di potere – mediatico, economico e non solo latamente politico – per il quale l’aggettivo “monopolistico” è pienamente giustificato. In Alto Adige/Südtirol (quasi) non si muove foglia che Athesia non voglia, e questo sia grazie a un’egemonia di mercato quantificabile con la cifra dell’80% della superficie informativa (relativamente, anche in termini di ricavato pubblicitario), sia sfruttando un finanziamento statale devoluto a sostegno delle minoranze linguistiche – anche se poi Athesia ha inglobato i due più rilevanti quotidiani regionali in lingua italiana –, che in sovrappiù le garantisce l’afflusso di circa sei milioni di euro all’anno (primato nazionale).

Anche gli elefanti…

«Quando un’azienda dice di controllare l’80% del mercato dei media – ha affermato una volta l’ex senatore Karl Zeller (SVP), di recente caduto fuori dalla grazia degli Ebner, e quindi trovatosi a non godere più degli abituali riguardi sulle colonne del “Dolomiten” –, questo non può essere salutare per la democrazia». Ma cadere fuori dalla grazia degli Ebner (venire quindi osteggiati, oscurati o cancellati) è un conto, un altro essere presi di mira con attacchi che tracimano in azioni legali rivolte contro un potenziale concorrente. Ed è per l’appunto questo il caso della querelle Athesia-Salto, alla quale ci stiamo riferendo. Le domande che restano da fare sono allora essenzialmente due: possibile che l’atteggiamento di Salto – che per tirare in ballo un equipollente nazionale, assomiglia magari un po’ allo stile aggressivo del “Fatto Quotidiano” – sia da ritenere così insostenibile per la reputazione di Athesia, e comuque non gestibile in termini che rientrano in una normale dialettica tra testate? E, dalla parte di Salto, possibile che per contrastare l’imperium di Athesia non sia sufficiente concentrarsi sulla pubblicazione di proprie notizie alternative (distinguendosi così per scelta, per stile o anche semplicemente per mission), finendo con l’incolpare a più riprese ed expressis verbis il monopolista di non poter essere diverso da ciò che è? In attesa di conoscere, se verrà, il responso di chi è chiamato a giudicare (ma spiace, a proposito, che non siano semplicemente i lettori ad avere qui la parola decisiva), all’osservatore imparziale sarà intanto già saltata agli occhi la clamorosa inversione di un titolo famoso: a volte, anche gli elefanti nel loro grande s’incazzano e, fingendo d’ignorare la loro stazza, si attaccano al collo delle formiche.

Suicidio, unica soluzione

Nel 2019, alla fine di luglio, il bolzanino Matteo Gazzini – europarlamentare della Lega – pubblicò sui social un post di questo tenore: «Sono stato in Questura di Bolzano per rinnovare il passaporto. Due cose ho notato: l’estrema professionalità e cortesia dei nostri operatori della polizia di Stato ed una puzza nauseabonda che proveniva dal piano dove si trovavano gli uffici immigrazione. Ma è possibile che le nostre forze dell’ordine debbano lavorare in ambienti poco salubri?». Un anno dopo, sempre per mezzo dei social, la disinibita riflessione di Gazzini subisce un ulteriore approfondimento: «Non ci può essere libertà se non si permette a una persona di essere razzista. Il problema non è il razzismo, ma la discriminazione che il razzismo crea e questo è inaccettabile in una società civile». Come dire: razzismo sì, basta non esagerare.

Arriviamo così ai nostri giorni, e alla luce del suo modo di vedere le cose l’europarlamentare giunge a sintetizzare il senso della tragedia calabrese (oltre settanta vittime del naufragio, con almeno 18 minori): «Naufragio di Crotone: questi non sono viaggi della speranza, sono suicidi di massa. Accertare le responsabilità dei clandestini che hanno portato i bambini a morire in mare. Che non succeda mai più!». L’elenco delle citazioni non è tanto interessante al fine di puntare il dito su una singola persona, ma per portare alla luce uno schema di pensiero purtroppo largamente condiviso. Persino l’aberrante richiamo al “suicidio”, in apparenza frutto di scarsa competenza linguistica o di eccessivo cinismo, trova così una possibile spiegazione non appena se ne comprenda il criterio che ne ha suscitato l’evocazione.

Qual è, dunque, ridotto ai suoi minimi termini, tale schema? Senza troppi giri di frase: se nel mondo c’è disagio, malessere, persino disperazione, ciò dipende – ancor prima che da situazioni contingenti o storiche, quindi rimediabili – da una strutturale incompatibilità ontologica (ché, altrimenti, non si potrebbe ricorrere a legittimare placidamente il razzismo, come fa Gazzini richiamandosi alla “libertà di pensiero”) tra i diversi tipi umani. E quando questi tipi umani hanno la sfortuna di entrare in contatto (per esempio nella sala d’aspetto di una Questura, o in prossimità di una spiaggia, all’arrivo di un’imbarcazione sfasciata carica di migranti) tale incompatibilità si manifesta, deflagra in modo insopportabile: con la puzza che non fa lavorare i poliziotti, quando va bene, con la morte, se va male.

Ora, per potersi affermare, lo schema di pensiero appena esposto non tollera obiezioni di natura pragmatica. Se ai migranti fossero consentite prospettive di vita più idonee, cioè assicurando loro un viaggio in condizioni non disumane, o anche di essere accolti in luoghi in cui farsi tranquillamente una doccia e tenere un guardaroba capiente per non offendere l’olfatto sensibile dei parlamentari europei, l’impatto tra i nostri mondi potrebbe essere più morbido? Neanche per idea, risponde qui il razzista ontologico e ideologico, perché alla fine le differenze si riaffermerebbero comunque in altro modo. L’incompatibilità, insomma, è un dato oggettivo che non può essere negato da strategie pragmatiche volte alla limitazione delle diseguaglianze, e a voler dirla tutta – la cruda conclusione, ancorché non espressa, sta però già dentro il perimetro delle parole di Gazzini – il confronto delle due parti non prevede altra soluzione del “suicidio” di una di esse: o si ammazzano “loro”, osando sperare di arrivare dove non possono arrivare, oppure ci ammazziamo “noi”, accogliendoli con i loro miasmi, i loro malesseri e tutte le altre strampalate ambizioni d’integrazione delle quali i difensori del decoro, dei crocifissi e dei presepi dicono di non potersi fare carico.

Corriere dell’Alto Adige, 12 marzo 2023 – Pubblicato con il titolo “Tornano i difensori del decoro”.

Guardiamo un film?

Sei a scuola, fai l’insegnante, sai che prima o poi la domanda arriva. Sospesa nell’aria, anche se in certi momenti più che in altri, soprattutto quando un quadrimestre sta per finire, quindi piazzata, anzi condensata all’inizio di un’ora in cui anche tu, confessiamolo, desideri un po’ sentirla arrivare, ecco che sopraggiunge sostenuta da una voce che miscela il tono di un’invocazione, di una preghiera e di un invito a mettere tra parentesi il grigio dovere: “Prof, guardiamo un film?”. Ma se la domanda è sempre la stessa, quello che da qualche anno ha cominciato ad accadere, quando cioè il prof alla fine si convince, cede, e dice “va bene, guardiamo un film…”, quando la leggera euforia si è dispiegata fra i banchi e ora, rientrata, tutti sono lì con gli occhi puntati allo schermo, quello che adesso accade, dicevo, non ricalca l’esperienza del passato. Il film, indipendentemente da ciò che mostra, non riesce a catturare l’attenzione degli studenti, specialmente quelli giovanissimi. Che infatti dopo poco cominciano a distrarsi, a parlare tra loro, a sbirciare il telefonino o a rifarsi le unghie. Perché? Perché un momento di distrazione focalizzata non riesce più a generare curiosità come un tempo? Il punto è che l’abitudine a fruire di narrazioni prolungate si è drasticamente ridotta. Gli studenti, oggi, non riescono a restare concentrati per più di venti, trenta minuti. Devono costantemente cercare altro, fare altro, o fare contemporaneamente più cose. Persino quando si distraggono, vengono afferrati da un impulso a distrarsi dalla distrazione che li aveva appena distratti. Un film, insomma, si rivela noioso come la lezione più noiosa, e come ci si vorrebbe scrollare di dosso la noia di quella lezione, si finisce per volersi scrollare di dosso anche tutto ciò che impedisce lo scorrere di una continua insofferenza.

ff – 9 marzo 2023

Nello specchio della letteratura

Lo storico Carlo Romeo ha appena pubblicato l’aggiornamento della sua “mappa” letteraria (“Scorci di un confine. L’Alto Adige in un secolo di letteratura italiana“, Edizioni alphabeta Verlag, 2023), schizzando il percorso che ha mutato in profondità la percezione di una provincia a lungo vista come “straniera”.

Scorci di un confine” rielabora e aggiorna il precedente “Un limbo di frontiera”, uscito al tramonto del secolo scorso, per l’esattezza 25 anni fa. Perché questa continuazione?

Era da molti anni che ci pensavo. Con il “limbo” avevo affrontato la questione di come fosse stata raccontata in lingua italiana questa terra. Era una sintesi di lunga durata che partiva dalle origini, da quando l’Alto Adige era solo un progetto politico-culturale, e arrivava al “dopo Pacchetto”. Mentre lo scrivevo si intravedevano già nuove tendenze, ancora però solo accennate. Poi il panorama si è enormemente arricchito. Il tema meritava quindi un’approfondita rivisitazione.

Rivisitazione che si nota anche nel cambio del titolo.

Sì, l’immagine del “limbo” all’epoca voleva alludere da un lato alla distanza con cui per lungo tempo la produzione in lingua italiana aveva parlato dell’Alto Adige, dall’altro alla dimensione ovattata, autoreferenziale che nel discorso pubblico veniva associata alla cultura locale. Da allora molto è cambiato, non solo in termini quantitativi, nei titoli usciti e nella proliferazione dei generi, ma anche nelle coordinate culturali. Del resto è cambiata la provincia stessa e la sua immagine.

Il mutamento tecnologico nel frattempo intervenuto, e le nuove possibilità di ricerca che abbiamo adesso a disposizione, hanno determinato anche un cambiamento nel modo di comporre il testo?

Indubbiamente, se consideriamo la comodità di ricerca e di confronto dei dati che offre oggi la rete, rispetto a 25 anni fa. Dal punto di vista del concetto, invece, il lavoro è rimasto sostanzialmente uguale. Del resto è un libro consapevolmente tradizionale, se vogliamo un po’ controcorrente rispetto ai nostri tempi, sempre meno “storici” e sempre più appiattiti sul presente. Anche qui ho puntato alla connessione più stretta possibile tra fenomeno letterario e contesto storico. Per questo la trattazione coinvolge continuamente anche gli aspetti sociali, politici e del discorso pubblico.

La suddivisione in tre parti sottolinea non solo l’esistenza di altrettante cesure storiche, ma allude anche al senso di uno sviluppo. Riuscirebbe in estrema sintesi a tratteggiare tale evoluzione?

Ho scelto una periodizzazione che ricalcasse cesure nella percezione interna ed esterna della provincia. La prima parte (“Cantare la nuova frontiera”) tratta il periodo dall’annessione fino alla caduta del fascismo. Dominano forme di racconto del tutto esogene, standardizzate e finalizzate perlopiù a obiettivi nazionali, celebrativi o di promozione turistica. Del mondo tedesco non si parla, è l’implicita presenza che si indovina paradossalmente attraverso il “non detto”, la sua rimozione ufficiale. La seconda parte (“Il monte e la città”) affronta il dopoguerra fino agli anni ’80, cioè fino alla stabilizzazione dell’assetto della seconda autonomia. Ricorre il tema dell’estraneità tra due mondi separati che si avvertono lontani e diversi, mentre le tensioni e le bombe rendono più aspri gli stereotipi. Col tempo si registra da parte italiana un primo interrogarsi sulla propria storia, sul proprio radicamento in chiave esistenziale e generazionale.

E questo genera il passaggio alla nostra epoca, nella quale i fili da intrecciare diventano molti di più…

Diventano di più e sono anche, per così dire, fili più mobili (per questo ho dato alla terza parte il titolo di “Paesaggi in movimento”). Diciamo che negli ultimi decenni affiorano il sentimento di “minoranza nella minoranza”, la parodia surreale delle contraddizioni del sistema autonomistico, la critica della sua auto-referenzialità, il rapporto di amore e odio di almeno un paio di generazioni “centrifughe” e “centripete”. Ma vi è anche la strada della narrazione storica, più o meno finzionale, e persino della “ricostruzione” dello spazio in chiave rosa, fantasy, thriller e horror. Tutto ciò mostra il definitivo superamento di un limite preesistente, una confidenza (almeno presunta) col territorio tale da declinarne la rappresentazione in termini “glocali”.

Ritiene che l’attenzione dei due mondi culturali nei confronti dei testi letterari composti nella “lingua dell’altro” abbia subito una trasformazione nel corso degli anni?

Un precursore di questa attenzione è stato N.C. Kaser. Nel 1969, contestando la tesi di Eugen Thurnher sull’inesistenza di una “letteratura italiana” locale, criticava il tentativo di tagliare i Nabelschnüre del Sudtirolo a Sud e a Nord. Ma è sostanzialmente dagli anni ’90 che la situazione si evolve. Da un lato si manifesta curiosità verso la produzione italiana, dall’altro gli italiani cominciano a conoscere meglio, anche grazie alle traduzioni, la cosiddetta “nuova letteratura sudtirolese”. Ormai da tempo esistono autori e autrici, associazioni, iniziative editoriali, eventi plurilingui che hanno una pur piccola “comunità letteraria” di riferimento. Oggi si registrano persino i primi segni letterari provenienti dall’immigrazione extracomunitaria in provincia. Lo sguardo, che s’incarna nella lingua, include sempre più la prospettiva dell’“altro”, tendendo anzi a una dimensione globale.

Per concludere: riuscirebbe a suggerire alcuni titoli per riassumere “un secolo di letteratura italiana” in Alto Adige?

Mi sottraggo in parte alla domanda e propongo piuttosto scorci di paesaggio, il vero protagonista che compare nelle pagine, non importa se nel best-seller internazionale o nel libretto semisconosciuto. Il Passirio malinconico di Bartolini, le case INCIS della Pucci, la primavera dietro il reticolato del lager di Meneghetti, l’inquieto maso d’alta montagna alla Spielberg di D’Andrea, le movide giovanili in piazza Erbe di Montali, le passeggiate con panchine e pensionati nei “gialli” di Gandini. Ma sono solo alcuni scorci elencati alla rinfusa, tra decine di possibili altri.

ff – 9 marzo 2023

La fiaccola, anzi l’incendio

Non ci si può distrarre un attimo, ché all’improvviso vogliono farci sembrare di essere ripiombati in un clima, in un’epoca, persino in un evo in cui parole come “terrorismo” e “anarchia” (parole legate e rese sinonime, addirittura) campeggiano nelle dichiarazioni dei politici, sulle pagine dei giornali e traboccano da quelle dei social. Ma davvero dovremmo credere che sulla vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico condannato al 41-bis per un attentato che, pur non avendo provocato né morti né feriti, è stato letto come tentativo di strage politica, e quindi severissimamente giudicato al contrario di quanto accaduto per gli ammazzamenti di Capaci e via D’Amelio o per la carneficina della stazione di Bologna – si giochi la sicurezza dello Stato e la salute del Diritto? E chissà cosa sarebbe successo se Cospito, come un Matteo Messina Denaro qualunque, anziché essere incarcerato nel modo più tempestivo e duro possibile dopo aver sparato nel 2007 alle gambe a Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato di Ansaldo nucleare, ed essere stato poi accusato di aver in precedenza piazzato due bombe artigianali nel cuneese, chissà cosa sarebbe successo, dicevamo, se Cospito avesse trascorso una trentina di anni in florida, criminalmente parlando, latitanza. Magari la fiaccola dell’anarchia non si sarebbe limitata solo a baluginare flebile, ancorché strumentalizzata alla bisogna (come in realtà accade dai tempi di Giovanni Passanante, Pietro Acciarito, Gaetano Bresci, ma anche da quelli di Giuseppe Pinelli, il cui volo dalla finestra della Questura di Milano non ha ancora trovato, né mai troverà, la mano che lo causò), e ora vagheremmo sbalorditi tra gli incendi e le macerie fumanti di tutte le nostre istituzioni civili e incivili, sbattendo la testa agli spigoli della cornice di una Guernica iper-cubista reloaded?

ff – 9 febbraio 2023

Sul mare del futuro

L’Adriatico, il mare superum dei latini, lo “Stato da mar” della Repubblica di Venezia, può essere visto come laboratorio per un’Europa finalmente incline a dare alla luce una costellazione post-nazionale? Il nuovo saggio dello scrittore statunitense Robert D. Kaplan prova a rispondere.

All’inizio del suo libro più famoso, Predrag Matvejević scriveva: «Accedendo al Mediterraneo, scegliamo innanzitutto un punto di partenza: riva o scena, porto o evento, navigazione o racconto. Poi diventa meno importante da dove siamo partiti e più fin dove siamo giunti: quel che si è visto e come. Talvolta tutti i mari sembrano uno solo, specie quando la traversata è lunga; talvolta ognuno di essi è un altro mare». L’indifferenza della quale qui parla Matvejević descrive una cornice, la più ampia possibile, che non impedisce la focalizzazione, ma alimenta il gioco tra primo piano e sfondo, la dialettica tra limiti e sconfinamenti (péras e àpeiron). È lo stesso rapporto che al massimo livello di profondità è stato pensato da poeti quali Hölderlin e Leopardi: il primo teso a scorgere nella forma delle colline di Svevia un’allusione all’arcipelago greco, e da lì, con un balzo ulteriore, alle terre più remote dell’Asia, dalle quali si annuncia il ritorno di Dioniso, l’ultimo dio; il secondo dolorosamente conficcato sul monte Tabor, terrasse des audiences du clair de lune e slargo di avvistamento degli interminati spazi, di ascolto dei profondissimi silenzi che appartengono al mare infinito in cui è dolce naufragare.

Ora, se il tema generale è quello della dialettica tra limiti e sconfinamento, il modo concreto per avvistarlo e viverlo non può prescindere da quello del viaggio e della corrispondente narrazione che connette la descrizione dei luoghi all’interpretazione del tempo e alla dilazione della morte. Come asserisce Claudio Magris nella prefazione a una silloge di scritti intitolata “L’infinito viaggiare”: «Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso del mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga nel trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino di un treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo. Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, grande teologo in cammino, cessa lo status viatoris dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore». Non è dunque un caso che un libro tempestivamente tradotto in italiano (Robert D. Kaplan, Adriatico. Un incontro di civiltà, Marsilio 2022) intrecci questi e moltissimi altri riferimenti puntando i suoi occhi su un brano di mare a noi vicino, dall’autore inteso alla stregua di un “globo in miniatura”, spingendoci così a pensarlo non come un mosaico di realtà discontinue, ma in uno spazio di possibilità latenti, svelate da uno sguardo che sa unire alla sua capacità prensile, al talento per la ricostruzione del dettaglio paesaggistico, letterario, storico o politico, anche il respiro di una geopolitica consapevole che «il terreno si muove silenzioso sotto i nostri piedi, senza che ce ne accorgiamo».

Ma di cosa parla, volendo trasvolare di slancio le sue quasi 400 pagine, il reportage di Kaplan? A quali domande cerca di rispondere, e soprattutto perché tali risposte dovrebbero scaturire da un itinerario che comincia in Italia, a Rimini, e poi – dopo aver orlato la costa, o comunque distaccandosene sempre per poco, finisce al confine tra Grecia e Albania (queste le tappe principali: Ravenna, Venezia, Trieste, Pirano, Lubiana, Rijeka, Zagabria, Spalato, Curzola, Dubrovnik, Podgorica, Durazzo, Tirana, Saranda, Corfù)? Il quesito che sostiene tutta la ricerca è questo: «È possibile immaginare una civiltà universale che sia allo stesso tempo ampiamente radicata in una tradizione?». Per comprenderlo, all’eventuale lettore sudtirolese interessato potrebbe bastare ricorrere a riflessioni che legano il destino del mare Adriatico, o per meglio dire dei Paesi che vi si affacciano, a quanto occorso durante il processo di decomposizione dell’impero asburgico (Kaplan cita molto opportunamente un vecchio volume, purtroppo fuori commercio, scritto dal fiumano Leo Valiani e dedicato alla dissoluzione dell’Austria-Ungheria): «L’impero era una difficile negoziazione tra le etnie, che in definitiva non riuscivano a contenere la propria lotta per la conquista di maggiori libertà politiche. Il paradosso è che i moderni Stati monoetnici eredi dell’Austria-Ungheria sono spesso meno tolleranti nei confronti delle minoranze di quanto lo fosse l’impero da essi rovesciato». Qualcuno rammenterà lo stolido attivismo degli alfieri delle identità monolitiche che, persino dalle nostre parti, in questi paraggi formalmente “pacificati”, al levarsi dei primi segnali di frantumazione della Jugoslavia non lesinarono incitamenti al “vento balcanico”. Il punto di vista di Kaplan, chiaramente, si muove in una direzione diversa: «L’Adriatico [valga qui anche come metafora plastica e a più alta definizione di molte altre zone del mondo, forse di tutte, ndr] è sempre stato una zona di incroci di culture e diventa pertanto iconico in un mondo di identità in sovrapposizione e dissolvimento. Ma proprio per la sua straordinaria ricchezza culturale – che include ortodossi orientali, cattolici romani, musulmani e popoli slavi, italiani, albanesi e greci, mediterranei, centroeuropei e balcanici –, anziché restituire incoerenza, dimostra di essere un’alternativa illuminata al deterioramento causato dalla totale perdita di memoria e tradizione. Poiché, se la troppa memoria può essere una prigione di odio e risentimento, la sua assenza ci rende indistinguibili dalle forme di vita inferiori, per le quali l’esistenza non ha alcun contesto né consapevolezza, al di là del momento presente».

È allora possibile estrarre da quanto precede, cioè dalla ricerca di una sintesi di universalismo e difesa delle identità particolari (beninteso: identità sempre viste come stratificate, dinamiche e non monolitiche e statiche), una ricetta per il futuro? L’autore entra, fra gli altri, in dialogo con un teorico quale Pierre Manent – fautore della rivitalizzazione del moderno concetto di Stato-nazione – e azzarda una previsione che non disdegna il risorgere di configurazioni più larghe, post-nazionali, se non addirittura neo-imperiali (Kaplan è uno statunitense d’ispirazione liberale, dopo tutto…), nelle quali assumano un peso maggiore le città, per loro vocazione più inclini a consentire modelli di società aperte o quantomeno permeabili. Anche se probabilmente «dovremmo convivere ancora per un bel po’ in un mondo di Stati-nazione il cui territorio viene gelosamente custodito», si legge nelle pagine conclusive, «il cosmopolitismo di tipo levantino […], caratteristica dell’evoluzione non tanto politica, quanto delle transazioni economiche, agevolate e rese possibili dalla tecnologia delle comunicazioni, da Internet ai jet per il trasporto dei passeggeri» ci porterà forse a rivivere un inedito “medievalismo” d’impronta post-moderna. In questo senso, l’Adriatico assume il profilo di un laboratorio che potrebbe finalmente distillare un’Europa consapevole del suo compito, alla frontiera di un’epoca che vede la necessità di riformulare in grande scala sfide pochi decenni fa ancora all’apparenza gestibili entro il nostro ristretto orizzonte.

Robert D. Kaplan è autore di numerosi libri di viaggi e di argomento internazionale tradotti in molte lingue. È titolare della cattedra Robert Strausz-Hupé in Geopolitica presso il Foreign Policy Research Institute. Per tre decenni si è occupato di affari esteri per la rivista “The Atlantic”. È stato membro del Defense Policy Board del Pentagono e dell’Executive Panel della Marina degli Stati Uniti. La rivista Foreign Policy lo ha nominato per due volte uno dei “Top 100 Global Thinkers” del mondo.

ff – 12 gennaio 2023

Stella cadente

Kennst du das Land, wo das Edelweiß blüht?

Goethe, vagheggiando nel Wilhelm Meister il sud, parlava di limoni. Qui osserviamo più da vicino un’altra fioritura, quella della stella alpina, anch’essa legata al sud, ma a un sud molto particolare e poco conosciuto: il Sudtirolo. Soprattutto se pensiamo che tale stella rappresenta un partito, la Südtiroler Volkspartei, operante in modo sorprendentemente longevo (la sua fondazione risale al 1945) in un ambito, quello della politica italiana, altrimenti contraddistinto da trasformazioni e rivolgimenti profondissimi. Ecco come lo storico Hans Heiss – già membro del Consiglio provinciale di Bolzano per tre legislature con i Verdi – ne tratteggia la fisionomia: «Il simbolo della SVP, la stella alpina, è sinonimo di vitalità anche in condizioni avverse, un fiore che prospera su terreni rocciosi e può sopravvivere a temperature inferiori allo zero». E di rimando, Lucio Giudiceandrea, giornalista della locale sede Rai, rimarca come il profilo di questa strana formazione (descritta come partito fenomeno, partito etnico, partito di raccolta) non sia sufficientemente noto in Italia – persino agli italiani che vivono in Alto Adige/Südtirol –, tanto da meritarsi l’appellativo di “stella aliena”, vale a dire diversa, estranea, che non “ci” appartiene.

I fiori di un potere alieno

I nomi di Heiss e Giudiceandrea non sono casuali. Si tratta infatti dei due autori ai quali Aldo Mazza, editore di alphabeta, si è affidato per lumeggiare la storia, le dinamiche, i successi, ma anche le innegabili difficoltà nelle quali sembrerebbe adesso dibattersi il cosiddetto “partito di via Brennero”. Difficoltà tali da far addirittura pensare a un incipiente tramonto delle sua pluridecennale egemonia, e dunque alla fine di un’intera epoca. Due autori e due libri, occorre ancora spiegare, convergenti con lingue diverse, cioè in tedesco e in italiano, su un tema di solito esaminato perlopiù in sedi separate, come se insomma, pur nella condivisione di un mondo di piccolissime dimensioni, certi fatti e la loro percezione venissero quasi automaticamente scomposti o disarticolati in cliché non comunicanti. Die Blüten der Macht. Die Südtiroler Volkspartei zwischen Wunder und Widerspruch (I fiori del potere. Miracolo e contraddizioni della Südtiroler Volkspartei, ndr), questo il titolo scelto da Heiss, e Stella aliena. La Südtiroler Volkspartei spiegata agli italiani, il contributo di Giudiceandrea, offrono perciò una cartografia esaustiva e complementare al fine di orientarsi in un argomento che potrebbe interessare anche chi non ritenga superfluo conoscere l’evoluzione di un territorio così a lungo marcato dalla dialettica tra minoranze linguistiche e popolazione nazionale.

Colonialismo mancato

Ora, volendo trovare un filo conduttore per rendere conto di tale dialettica, non sembri azzardato parlare di “colonialismo mancato”. A farlo, per esempio, fu già un intellettuale toscano immigrato in Sudtirolo poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Antonio Manfredi, in un libro del 1963 (Alto Adige segreto, anch’esso ripubblicato di recente da Edizioni alphabeta Verlag) utilissimo per comprendere il plesso topografico e psicologico del quale ci stiamo occupando. Un brano significativo: «Il fascismo scambiò l’Alto Adige per una terra da colonizzare. E proprio dove vigeva il mito germanico in secolare frizione con quello latino, dette fiato alle trombe romane. Occorreva tatto, ordine, comprensione: adottò la maniera forte. Ma neppure con quella precisione che il tirolese è uso, se non proprio apprezzare, almeno a temere e ammirare nei tedeschi. […] Ora che abbiamo rinnegato l’inconsistenza fascista con lo statuto autonomo, siamo costretti a rimontare lo svantaggio in condizioni aggravate dalla malafede volkspartista e dalla generale diffidenza tirolese». In questo passaggio, a saperlo leggere bene, c’è già tutto, perché in poche righe afferriamo il senso di un trauma che solo grazie a una faticosa mediazione diplomatica poté essere riassorbito dalla legislazione autonomistica elaborata dall’Italia repubblicana, e la strategia di controllata distanza (qualcosa di più complesso della semplice “malafede” o della “diffidenza” rilevate da Mandredi) adottata dalla SVP, cioè il partito di quasi esclusivo riferimento delle minoranze di lingua tedesca e ladina, intento a cementare la posizione di chi continua a volersi difendere dai “tentativi di colonialismo”.

La radice e il sistema

Ecco perciò di cosa è fatta la radice che in tutti questi anni ha potuto affondare nel terreno roccioso della politica locale, consentendole di alimentare un robusto consenso, nonostante le rigide temperature alle quale la pianta è stata esposta. Scrive Giudiceandrea: «La ragione fondante della SVP si può riassumere in poche parole: difendere la minoranza sudtirolese dal centralismo dello Stato italiano. […] La stella aliena non gravita intorno alla città eterna e non si lega a nessuna forza nazionale se non per convenienza tattica. Fondamentalmente è rimasta in tutti questi anni blockfrei, libera dai blocchi, sia pure mostrando una maggiore affinità con il centro-sinistra». Libertà d’azione, dunque, e saldissima presa sul territorio – anche grazie alla quantità di denaro disponibile (la provincia trattiene circa il 90% delle tasse versate in loco) –, riducendo in pratica a una mera questione di differenze interne al suo bacino elettorale il bisogno di “democrazia”. A questo proposito Heiss cita la battuta del cabarettista tedesco Gerhard Polt, riferita alla CSU bavarese, che si attaglia benissimo anche alla SVP: «A cosa ci può servire l’opposizione, se abbiamo già la democrazia?», mentre Giudiceandrea evoca addirittura il “centralismo democratico” di matrice leninista. Un sistema di potere contraddistinto da una “capillarità corporativa” (la formula è ancora di Heiss), intrinseco alla quasi totalità dei corpi intermedi, e orchestrato da un partito percepito alla stregua di una vera e propria holding, vale a dire una società finanziaria per la quale l’affiliazione (ancorché decrescente: dal picco del 1988, quando gli iscritti erano 80.000, si è passati agli attuali 26.000, dato del 2019) è garanzia di riconoscimento sociale e successo economico.

Stella cadente?

Eppure, come i due libri con dovizia di particolari argomentano, negli ultimi tempi qualcosa è cambiato anche nel piccolo mondo sudtirolese, e in quello pressoché sovrapponibile della SVP. A partire da alcuni scandali, emersi negli ultimi mesi: uno per tutti, quello relativo al tentativo da parte di un gruppo di potere, facente capo all’ex Landeshauptmann Luis Durnwalder e all’assessore provinciale Thomas Widmann, di non mettere a gara il trasporto pubblico provinciale per non intaccare gli interessi di un’azienda locale, la SAD. E poi ancora: i costanti litigi, le indecisioni su temi quali le norme da adottare nell’ambito dell’edilizia abitativa agevolata, l’aumento dell’Imposta Municipale Immobiliare (IMI) per i comuni con più carenza di alloggi, ma anche il riequilibrio della rappresentanza di genere, arduo da ottenere in una società ancora costitutivamente patriarcale. E la spinosissima questione della limitazione dei posti letto nel turismo, a certificare la difficoltà di orientare in senso ecologico un modello di sviluppo da tempo rivelatosi sinonimo di sfruttamento accentuato delle risorse ambientali. Tutto questo ha sconfessato a più riprese l’immagine che l’SVP ha sempre dato di sé, basata sul motto imperativo del Zomholten!: qualsiasi cosa accada, dobbiamo restare uniti. Ha evidenziato crepe potenzialmente devastanti, tanto da far baluginare l’idea che il trinomio indissolubile “SVP-Autonomia-Sistema sudtirolese” dimostri di non essere più al passo con le sfide che si pongono. In apparenza superato lo scoglio della ricandidatura dell’attuale governatore, Arno Kompatscher, accredidato di un sufficiente gradimento della base ma non ben visto da influenti segmenti della nomenklatura del partito, i nodi verranno definitivamente al pettine allorché si tratterà di smussare i contrasti interni e comporre la lista da proporre alle elezioni regionali del prossimo autunno. È in questo campo di forze percorso da tensioni non più sopite, e non più alla luce dello storico contrasto etnico ormai sbiadito a sfondo di cartapesta, che potrebbero esasperarsi linee di frattura in grado di creare uno scenario inedito, cioè di far cadere o perlomeno appassire in modo significativo la stella. La SVP schiacciata sulla percentuale del 35% sarebbe costretta a includere nella maggioranza di governo non solo il consueto e ininfluente partito “italiano”, così come previsto dallo Statuto di autonomia, ma un partner “tedesco” di coalizione, quindi estraneo alle logiche di potere consolidate. In qualsiasi altro luogo sarebbe una cosa normale, in Alto Adige/Südtirol sarebbe una specie di terremoto.

Articolo apparso sul quotidiano “Domani” con il titolo: La stella alpina dell’SVP sfiorisce. Il partito rischia di perdere la sua unità.

Arcipelago T

Innovare l’informazione locale utilizzando la complessità dei linguaggi contemporanei. Il nuovo quotidiano trentino punta a incidere anche a livello regionale.

Da circa un mese – il varo è avvenuto lo scorso 3 novembre – il panorama dell’informazione nel nostro territorio si è arricchito con la pubblicazione di un giornale – “Il T. Quotidiano autonomo del Trentino Alto Adige/Südtirol” – che, nelle intenzione dei suoi sostenitori e animatori, dovrebbe contrastare in primo luogo la recente espansione del marchio Athesia verso sud, cioè oltre il confine di Salorno. Abbiamo chiesto al direttore, Simone Casalini, di illustrarci più nel dettaglio lo spirito e le prospettive di questa ambiziosa esperienza editoriale.

Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a intraprendere questa nuova avventura, e qual è il punto che ha saldato il suo interesse personale con quello della collettività alla quale intende rivolgersi?

Le motivazioni sono infinite. Quella di misurarsi sulla possibilità di immaginare un nuovo modello di informazione locale, fondato sull’approfondimento e la variazione continua dei temi giornalistici, è stata sicuramente nel novero dell’infinito una delle ragioni di maggior senso. Ormai le iniziative editoriali sono sporadiche e spesso di mantenimento. In questo caso c’era una linea di indirizzo ma anche una grande libertà nella realizzazione del progetto. Riflettere su un nuovo modello di informazione significa anche proiettare questo pensiero sul lato della rappresentazione. Sapendo che si è compressa nel tempo e che ha ridotto la sua capacità di incrementare le differenze e le difformità della società. Questo è forse il punto di caduta in cui si sono saldati gli interessi.

Il giornale ha alle spalle un progetto promosso dalla Fondazione Synthesis: insieme imprenditoriale nel quale si riconoscono diverse sigle (Confindustria Trento, Cooperazione trentina, Anche Trento, Associazione albergatori, Associazione artigiani, Confesercenti del Trentino). In che modo è possibile governare tale complessità, conservando parimenti libertà di giudizio e di azione?

La complessità si governa rispettando l’autonomia dei ruoli. Questo aspetto è stato affrontato da un punto di vista organizzativo scindendo la Fondazione Synthesis, senza scopi di lucro e in cui siedono i soci, e la società omonima che invece è autonoma ed edita il giornale, nelle sue molteplici dimensioni. La società è un diaframma tra la redazione e i soci fondatori/promotori. Ma al di là di questo, l’esperienza editoriale nasce con una sua chiara autonomia di azione e per ripristinare un pluralismo informativo che negli ultimi cinque anni è mancato per l’acquisizione di tutti i media da parte del gruppo Athesia. La precondizione di un rinnovato pluralismo è comunque la libertà. Quella che ci è stata assicurata e che comunque ci prendiamo ogni giorno.

Nel suo editoriale comparso sulla prima edizione del quotidiano scrive che la finalità principale del giornale corrisponde alla «esigenza di riflettere sul senso delle parole, dei significati, delle rappresentazioni e dei linguaggi con i quali far emergere le identità in movimento della società trentina e delle sue multiformi comunità». Si tratta di una critica implicita al sistema dei media così come noi finora li conosciamo?

Credo che i media soffrano di una sindrome che è quella della fissità o staticità. Sono organizzazione complesse, che lavorano sulla sintesi e la velocità, e soffrono nei cambi di ritmo narrativo. Questo penalizza le trasformazioni che accadono nella società, le variazioni culturali, gli arretramenti o le progressioni. Rappresentare è una forma di potere molto crudele: durante il colonialismo abbiamo assistito ad uno sviluppo deciso di questo esercizio che attribuisce caratteristiche, spesso immaginarie e stereotipate, ai tanti soggetti che affollano una società. Sbagliare rappresentazione significa imprigionare in una categoria irreale centinaia o migliaia di persone o di argomenti. In questo senso mi riferivo alla necessità di riflettere sulle parole, i significati e le rappresentazioni.

E quando parla di identità in movimento, di multiformi comunità, a cosa allude esattamente?

Già percepire il movimento sarebbe un successo, la direzione poi non è mai uniforme e dipende da molte variabili. Le comunità sono multiformi perché sono espressione di una eterogeneità di posizioni, provenienze, slittamenti. Mi interessa questo discorso dal punto di vista interculturale, della generazione di nuove culture. Le strade, i cortili, le scuole sono laboratori spesso rilevanti per la genesi di nuovi percorsi culturali e per la frantumazione e ricomposizione di identità erroneamente ritenute immobili.

Che cosa l’ha guidata nella scelta dei giornalisti, dei redattori e dei collaboratori? Quale “immagine guida” orienta il loro lavoro?

La ricerca di competenze assai differenti e divergenti – linguistiche, culturali, professionali, tecniche – che consentissero di costituire non un quotidiano ma un arcipelago informativo o un ecosistema che fosse in grado di esprimersi con linguaggi e modalità diverse. Che potesse rivolgersi anche a platee inesplorate di lettrici e lettori perché in un mercato in via di restringimento – quello classico dell’editoria – l’obiettivo non poteva che essere quello di provare a forzare qualche schema rigido di lettura. Non c’è un’immagine guida, ma un’idea di fondo di variare la scrittura dal basso all’alto e viceversa. Utilizzare Foucault in un’analisi o nella intelaiatura teorica di un articolo non esclude la possibilità di raccontare una storia di vita, una biografia sommersa, un episodio apparentemente minuto in cui si concentra l’essenza del nostro essere nel mondo. Questi due elementi non possono vivere separatamente, il concetto senza la vita non ha fondamento.

Parlare di “arcipelago informativo” allude a una diversificazione dell’offerta che, in primo luogo, affiora nella doppia edizione del giornale: cartacea e online. Come si riesce a tenere insieme e far dialogare queste dimensioni?

Oggi un’esperienza editoriale non può che essere pensata in modo molteplice. E con contenuti che dialogano fin dove possibile – per esempio tra carta e web – per poi distanziarsi dove questo dialogo non ha più senso. È anche la ragione per cui stiamo comunque cercando di creare una redazione senza barriere con tutte le redattrici e i redattori che transitano anche dal lavoro sull’online. Il sito web è comunque un altro giornale che sfrutta l’attimo ma anche la profondità delle interviste, delle storie, degli approfondimenti, degli “spiegoni” che arano un determinato argomento rendendolo fruibile a tutti. Senza essere schiavi del clic, ma sapendo che da lì transitano ormai tantissime lettrici e lettori. Come dai social che da rimbalzo delle news prodotte su carta e web sono diventati un canale di produzione totalmente autonomo di informazioni con linguaggi che evidentemente raggiungono i più giovani. Hanno un potenziale enorme anche se spesso la loro stilizzazione – mi riferisco a Instagram, per esempio – comprime lo sviluppo del pensiero.

Trentino e Alto Adige sono realtà contigue. Nel mondo dell’informazione scritta, però, spesso si ha la sensazione che si tratti di mondi molto distanti. “Il T” intende coprire anche il territorio altoatesino per offrire un punto di vista regionale?

Intanto abbiamo cominciato a distribuire il quotidiano in alcune edicole di Bolzano, Merano e Bressanone. In questa fase ci siamo strutturati selezionando un editorialista e un collaboratore che potessero coprirci l’Alto Adige-Südtirol sui temi di maggior rilievo. In futuro l’idea sarebbe quella di dedicare almeno una pagina, magari arrivando fino a Innsbruck, per costruire una narrazione differente sull’Euregio e riattualizzare il Brennero come grande porta di accesso al Mediterraneo e alle sue civiltà.

ff – 7 dicembre 2022

Labirinto dal quale uscire

Qualcuno ricorderà il finale “a sorpresa” del racconto di Jorge Luis Borges, “La casa di Asterione”. La breve narrazione culmina con il disvelamento di una celebre vicenda mitologica che l’utilizzo di un nome perlopiù sconosciuto, fino all’ultima frase, rende celata. Asterione, infatti, è il nome proprio del Minotauro, il mostro metà uomo e metà toro ucciso nel labirinto di Creta da Teseo. L’ultima frase, però, contiene anche un’altra rivelazione: Teseo non ha bisogno di ingaggiare una lotta con il suo avversario, perché questi gli si offre praticamente senza tentare di fuggire o di combattere: «Lo crederesti, Arianna? – disse Teseo – Il Minotauro non s’è quasi difeso».

Ora, ogni mito alimenta sempre una cometa di interpretazioni, di attualizzazioni, e vorrei proporne una che ha sullo sfondo un episodio di cronaca del quale si è molto parlato. Nella versione di Borges, intanto, assistiamo al rovesciamento della prospettiva più consolidata: il racconto che concerne il Minotauro non avviene adottando il “nostro” punto di vista (che potrebbe essere quello del suo uccisore, Teseo, o della sua aiutante, Arianna), ma per la prima volta scendiamo nei pensieri di questo alienato, di questo recluso, scoprendone lati inaspettati. In un articolo che ho trovato sul Web, firmato da Michele Di Bello, si dice: «Il labirinto non è che la concretizzazione della sua psicologia, in quanto non è il suo covo, il suo rifugio, ma la sua prigione, il suo micromondo imposto, l’universo circoscritto in cui è stato recintato da tutta una tradizione mitica che la voce impietosa e falsa dei cantastorie ha trasmesso per secoli, seminando un’immagine del mostro che ha fatto germogliare l’antipatia verso un ruolo di cattivo che adesso Borges intende smantellare». Ma si potrebbe andare oltre, per esempio intendendo quella stessa psicologia labirintica come il prodotto di un meccanismo istituzionale (evidentemente introiettato) che disumanizza o mostrifica un essere umano, condannandolo di fatto a non poter essere altro da ciò che gli altri l’hanno ridotto ad essere. Per questo, davanti al suo carnefice, egli si sente “liberato” e rinuncia a difendersi.

Vengo al fatto di cronaca che mi ha fatto tornare in mente il racconto di Borges. Quando si è appresa la condanna formulata nel processo a Benno Neumair – al quale sono state negate, come noto, le attenuanti richieste dalla difesa su motivazione psichiatrica – l’immagine del Minotauro è emersa delineando somiglianze e differenze. Le differenze sono evidenti, e sarebbe impensabile asserire che la severissima censura del comportamento di Benno, responsabile della morte dei suoi genitori e dell’occultamento dei loro corpi, sia il frutto di una mitologia negativa intessuta a suo danno. Eppure (e ci avviciniamo così alle somiglianze), sembra parimenti difficile da credere che un giudizio talmente grave comprenda tutte le sfumature di un evento che, per quanto abissalmente scellerato, non può risolvere dentro i suoi confini, tracciati dai gesti omicidi, una storia scaturita da un terribile labirinto di esperienze pregresse. Ha scritto Paul Valéry: «Toutes le fois que nous accusons et que nous jugeons, le fond n’est pas atteint» (tutte le volte che noi accusiamo e giudichiamo, il fondo non è raggiunto). Intendere il senso di questo “fondo”, che le accuse e il giudizio lascerebbero inattinto, non è solo un gioco futile o letterario. Occorre spiegarlo.

Mi pare evidente che il “fondo”, in questo caso, non sia stato attinto proprio perché, nell’economia che regola l’emissione del giudizio (e quindi la formulazione della pena), la complessa fenomenologia psichica che ha portato un giovane uomo a macchiarsi di un reato così efferato non è stata considerata né parte di lui né del contesto che l’ha generata: al contrario, di tutto il suo “esserci” è stata colta solo l’espressione cruenta che ha posto fine all’esistenza dei suoi genitori, e in base alla quale anche l’esistenza dell’omicida adesso è ridotta, abbassata a una mera “sopravvivenza” (giacché, se preso alla lettera, un ergastolo non può consentire nessun effettivo recupero della propria soggettività e rende impossibile una “vera vita”). Se nelle società che prevedono la pena di morte si fa valere la scabra equazione, di natura vendicativa, del privare della vita chi ne ha privato le sue vittime, la mitigazione che mette capo alla mera sopravvivenza di un omicida recide in modo ugualmente insensato (e non meno vendicativo) le espressioni vitali dei condannati, inchiodandoli per sempre a ciò che essi hanno fatto in un momento della loro vita (così come il Minotauro mitologico non può più smettere di essere tale, se non incontrando un Borges capace di farcelo conoscere più da vicino). Pur tenendo conto di obiezioni che riguardano la “pericolosità sociale”, o la propensione a reiterare determinati delitti (e lascio ovviamente del tutto impregiudicato se, nel caso di Benno, anche queste obiezioni siano state fatte valere), credo che l’ergastolo costituisca un paradigma, una pratica, o se volete un altro labirinto dal quale dovremmo presto sforzarci di uscire.

Corriere del Trentino / Corriere dell’Alto Adige, 23 novembre 2022

Le contraddizioni di Giorgia

La scrittrice Francesca Melandri ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post che parla della nuova premier Giorgia Meloni lamentando un effetto di “dissonanza cognitiva” riassumibile nella domanda: come facciamo a inquadrare un fenomeno che è l’espressione di un moto regressivo o comunque fortemente conservatore (Giorgia Meloni è innegabilmente di destra, dice cose di destra, e temiamo farà cose di destra), ma al contempo è animato anche in senso progressista, trattandosi di una donna, la prima a ricoprire un ruolo tanto prestigioso, per di più proveniente da un contesto sociale non elitario? «L’Italia – scrive Melandri – è un paese misogino e classista, e la persona che in questo momento incarna la rottura di questi due schemi in maniera più dirompente, senza confronto alcuno, è una persona che propugna una società ancora più misogina e classista (solo per dirne una, il ministero “per il merito”). Ma la sua storia personale è commovente e a raccontarla alle bambine è straordinaria». Ci troveremmo, insomma, davanti a una contraddizione apparentemente insolubile, così come difficilmente solubile risulta il fatto che Meloni – pur dichiarando compita di non “avere simpatia” per il fascismo – è comunque stata portata a raggiungere il traguardo che ha raggiunto proprio perché tanti simpatizzanti del fascismo, regime fondato sulla subordinazione delle donne agli uomini e all’origine di un maschilismo di Stato di gran lunga sopravvissuto al Ventennio, l’hanno fatta diventare una sorta di Donna Assunta (la moglie del vecchio capo missino Giorgio Almirante) promossa sul campo al rango di Duce. Se non proprio un imbarazzo, a questo punto rimane un dubbio. Le contraddizioni delle quali stiamo parlando vanno viste come un caso indecifrabile e isolato oppure, rispolverando la filosofia di Hegel, si sta preparando un effettivo scatto in avanti della storia?

La colonnina – ff – 10 dicembre 2022

La fragilità di Aldo Moro

Dimenticato in Alto Adige, lo statista che contribuì notevolmente al varo del secondo statuto di autonomia è adesso al centro di un romanzo in cui affiora la sua dimensione più umana.

In Alto Adige la toponomastica, e in generale la memoria ufficiale, è piuttosto avara con Aldo Moro. Al politico italiano (ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio del 1978) sono dedicate solo due strade, nei comuni di Laives e Salorno. La cosa è strana solo in apparenza, dato che la figura dello statista – ancorché assolutamente decisiva nel quadro dell’evoluzione che portò al varo del secondo statuto di autonomia – non è mai stata amata da queste parti. Su di lui grava una doppia maledizione: quella di essere sottovalutato dalla popolazione di lingua tedesca (per la quale l’autonomia – nonostante la menzione ormai consolidata di Alcide Berloffa, che di Moro fu collaboratore – è vista in genere come l’esito di uno sforzo compiuto contro l’intero mondo politico italiano) e di essere inoltre apertamente osteggiato da quegli altoatesini che a lui rinfacciano la cedevolezza di chi, al contrario, avrebbe dovuto ergersi a difensore dell’italianità e delle prerogative nazionali.

Va meglio, per fortuna, con la saggistica e la letteratura. In un libro di qualche anno fa, incentrato soprattutto sul lavoro diplomatico svolto da Giulio Andreotti (Luciano Monzali, Giulio Andreotti e le relazioni italo-austriache 1972-1992, Edizioni alphabeta Verlag 2016), si possono leggere pagine equilibrate che chiariscono come, senza la svolta dei governi di centro-sinistra presieduti da Moro, la cruenta stagione degli attentati eseguiti all’inizio degli anni Sessanta avrebbe potuto portare a un esito molto diverso da quello che celebriamo ogni 5 settembre. Scrive Monzali nel testo citato: «Dopo il fallimento del progetto Saragat-Kreisky [del 1964, ndr], il governo di Roma puntò a raggiungere un accordo diretto con i leader della SVP, ponendo in secondo piano il negoziato diplomatico con Vienna. Di fatto il vero negoziato sull’Alto Adige fra il 1965 e il 1967, anno in cui si raggiunse un’intesa sostanziale sul Pacchetto fra la dirigenza della SVP e il governo italiano, si svolse fra Bolzano e Roma, e vide come protagonisti primari Magnago e il presidente del Consiglio Moro». E proprio riferendosi a una discussione avvenuta alla Camera il 13 ottobre del 1965, con Moro chiamato in causa da chi gli rinfacciava di aver ricevuto privatamente una visita del collega austriaco Josef Klaus nel giorno di un attentato in cui persero la vita due carabinieri a Sesto Pusteria, il presidente del Consiglio italiano ribadì la linea poi mai abbandonata: «Rispettando e garantendo l’autonomia delle minoranze in Alto Adige, attuiamo una norma costituzionale e favoriamo la tranquillità, la fiducia e la pace. Sforzandoci di mantenere, nel rispetto della nostra dignità e dei nostri legittimi interessi, buoni e costruttivi rapporti con l’Austria, facciamo una cosa che corrisponde alle esigenze nazionali e a quelle della cooperazioni tra i popoli» (traggo il brano dall’utilissimo volume di Maurizio Ferrandi Dibattiti e dinamite, anch’esso disponibile nel catalogo di Edizioni alphabeta Verlag).

Per quanto riguarda la letteratura, il rimando invece non può che andare alle pagine centrali del romanzo di Francesca Melandri, Eva dorme. La scena qui è un pranzo, collocato temporalmente proprio nello stesso periodo di svolta (il 1965), nel quale l’Obmann della SVP Silvius Magnago ospita il presidente del Consiglio e altri rappresentanti del suo governo in un tipico ristorante sudtirolese. Nelle riflessioni attribuite dalla scrittrice a Magnago ecco che nell’apprezzamento per il politico venuto da Roma filtra una stima che tocca una nota più calda, umana: «Parlava pianissimo e con l’esasperante lentezza di chi ha sonno, e aveva la mollezza di gesti e movimenti di chi da bambino inciampava correndo, si chiudeva le dita nei cassetti, dimenticava di allacciarsi le scarpe. Tutto in lui lo faceva sembrare inerme, debole, certo non uomo d’azione ma piuttosto, pensò il latinista Magnago, un cunctator. Eppure l’Obmann aveva verificato, in più di un incontro personale, che dietro quel viso inespressivo lavorava un’intelligenza politica finissima. A differenza di troppi altri rappresentanti dello Stato italiano, l’uomo che gli sedeva accanto era un intellettuale, oltre che un giurista d’alto grado. Soprattutto era un uomo dalla cui bocca mai, nemmeno per stanchezza o distrazione, sarebbe uscita una frase fatta».

Tutto, in Moro, lo faceva sembrare “inerme”, scrive Melandri. L’aggettivo è chirurgico e fa pensare a un recente romanzo dedicato esplicitamente alla vicenda cruciale e drammatica del suo rapimento (Andrea Pomella, Il dio disarmato, Einaudi 2022). Pomella si è immerso come uno speleologo nei tre minuti fatali di ciò che accadde la mattina del 16 marzo 1978, cavandone un materiale narrativo emozionante. Sono quindi le vicende personali, è l’uomo Moro che affiora dal contesto familiare che «è da sempre il luogo in cui [egli] può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie, è l’antro della grotta in cui il dio è disarmato, in cui depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità». Il drammatico delitto “d’abbandono” – la definizione è di Carlo Bo – segnò uno spartiacque ancora visibile, allorché tra la dimensione pubblica di un mite avversario della violenza politica (ciò vale sia per quanto concerne il risvolto positivo sulla storia sudtirolese, sia su quella italiana, che al contrario lo vide sconfitto) e il suo destino individuale è alla fine la spoliazione di ogni simbolo ulteriore rispetto a quello dell’estrema fragilità creaturale a rilevare, a liberarci da tutti gli altri pesi, ristabilendo il “punto di riferimento e di equilibrio” (sono espressioni di Moro, utilizzate in una lettera ritrovata nell’ottobre del 1990) imprescindibile per ogni società che voglia dirsi civile.

ff – 10 novembre 2022

Università, ambizioni frustrate

La Costituzione italiana parla chiaro. L’articolo 3 dichiara: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’articolo 34, poi, focalizza l’auspicato quadro normativo includendo nel dettato costituzionale anche quel particolare tipo di cittadini e lavoratori che sono gli studenti: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Tutto bellissimo, come stanno però le cose in realtà?

La realtà è che in Italia studiare, ma anche in Sudtirolo (terra troppo spesso, senza evidente motivo, considerata qualcosa di “speciale” tout court), resta di fatto un privilegio. Lo sanno, in particolare, le ragazze e i ragazzi fuori sede, cioè quelli che non dispongono di un alloggio di famiglia nel luogo in cui hanno scelto di trasferirsi. Ovunque i prezzi degli appartamenti e delle stanze lievitano, i posti nelle residenze pubbliche dimagriscono (o comunque non aumentano) e il costo della vita – ora più che mai, con la crisi energetica che fa schizzare in alto l’inflazione –  è praticamente insostenibile per chi dispone di introiti contenuti. Risultato: anche chi riesce a passare un test di ammissione e potrebbe quindi iscriversi a un corso di studi è costretto a rinunciare. Un problema che a Bolzano – città carissima tra le più care – sta portando uno studente su tre a gettare la spugna ancor prima di accedere alle aule che, invano, lo attendono.

Ora, a parte la denuncia del problema (problema del quale i vertici dell’ateneo locale manifestano “comprensione”), che cosa si sta facendo realmente per risolverlo, quali strade si stanno concretamente battendo per rendere il “diritto allo studio” – e l’uguaglianza dei suoi criteri d’accesso come concepiti dalla Costituzione – qualcosa che non sia solo un vago appello retorico? In un’intervista rilasciata al nostro giornale dall’ex prorettrice Stefania Baroncelli il punto è segnalato in questi termini: “Si potrebbe offrire un sostanzioso contributo per l’affitto agli studenti più meritevoli, tramite una borsa di studio”. Attualmente, spiega ancora Baroncelli, la Provincia già fornisce un aiuto economico agli studenti delle scuole superiori meritevoli, che però possono poi spendere questa cifra a loro discrezione. Vincolare l’elargizione di una borsa di studio alle spese per l’alloggio, come propone Baroncelli, sarebbe una soluzione dirimente? E come facciamo per gli esterni, che arrivano senza conoscere o usufruire di finanziamenti a loro mirati? Basterebbe abolire le tasse universitarie, come ha ventilato il rettore Lugli?

Le questioni da affrontare, inoltre, non finiscono qui. Per attrarre studenti da fuori occorre anche uno sguardo lungo, in grado di trattenerli sul territorio oltre il più o meno breve periodo universitario, quindi dopo aver conseguito l’agognato titolo. Se non si troverà il modo di calmeriare un mercato degli affitti gonfiato dai contributi (e sotto i suoi colpi, è evidente, non si trovano del resto a soffrire solo gli studenti), anche il progettato ritocco della politica degli studentati assomiglierà alla goccia d’acqua gettata su una superficie arroventata. Neppure l’università in sé più appetibile avrebbe modo di svilupparsi senza essere inserita all’interno di un sistema che dovrebbe avvalersene per crescere e modificarsi in sintonia con presupposti di vivibilità complessivi. In tal senso possiamo chiederci se, a 25 anni dalla fondazione del suo ateneo, Bolzano sia diventata – nella sua autopercezione e soprattutto nella percezione dei suoi potenziali frequentatori – una città pienamente universitaria, intendendo con questo termine l’intero spazio di possibilità aperte non solo dalla sua ristretta fruizione, oppure, al contrario, su questo scontiamo un ritardo che ne frustra a priori le ambizioni. 

Corriere dell’Alto Adige, 6 novembre 2022

Il Giappone a tavola

Dal 13 al 16 ottobre Bolzano ospiterà la cuoca e autrice di libri sulla cucina nipponica Nancy Singleton Hachisu.

Nancy Hachisu è un’americana che vive nel Paese del Sol Levante dal 1988. Innamoratasi della cultura gastronomica del posto, ne è diventata un’autorevole ambasciatrice, pubblicando negli anni numerose monografie che cercano di illustrarne il vero carattere e gli aspetti meno conosciuti. Per questo motivo è stata invitata a Bolzano, nella cornice di eventi intitolati «à Table – Wine & dine with chefs around the world» dell’Hotel Mondschein, dove allestirà assieme al figlio quattro cene da intendersi anche come occasione di scambio interculturale.

Quali furono le sue prime impressioni appena arrivata in Giappone, la gastronomia le ha fornito un accesso privilegiato per ambientarsi?

Quando sono arrivata in Giappone, più di trent’anni fa, per me tutto era nuovo ed eccitante. Il cibo è una delle prime cose che mi hanno affascinato. All’inizio mi piaceva tutto. Con il passare del tempo ho notato però grandi differenze di qualità, e in generale sono rimasta sempre più delusa dalla modernizzazione e dall’imbastardimento dei sapori che stavo sperimentando. Il glutammato monosodico e l’utilizzo di ingredienti mediocri erano spesso la norma. Così la mia missione è diventata quella di scoprire il miglior cibo giapponese e di parlarne.

Una missione che si basa sulla mediazione di codici culturali a prima vista distanti, quindi. È stato difficile, considerando la sua provenienza americana?

Sono cresciuta in California negli anni Sessanta, con cinque fratelli. I nostri genitori erano intellettuali liberali che incoraggiavano il libero scambio di idee. Le proteste per la guerra del Vietnam e i concerti rock hanno scandito la mia giovinezza. Una delle cose che cercavo, quando sono arrivata in Giappone, era la pace interiore. E nel corso degli anni credo di averla raggiunta. Non sono attratta dagli scambi conflittuali, non sento il bisogno di imporre i miei valori o le mie opinioni agli altri. Detto questo, avverto la responsabilità di essere una sorta di traduttrice di ciò che percepisco come vera cultura giapponese e cerco di mostrare, anche agli stessi giapponesi, quali sono i tratti della loro cultura che rischiano di andare smarriti. Non mi sento comunque sola, in questa impresa: altri stranieri di lungo corso, qui in Giappone, sono coinvolti in attività simili, che esulano dal settore gastronomico.

In che modo è riuscita a farsi percepire come ambasciatrice di una cultura che non è quella dalla quale proviene?

Perché mi avvicino alla cultura alimentare giapponese con molta sincerità e rispetto. Ciò ha fatto sì che venissi percepita come un’appassionata sostenitrice delle loro tradizioni. Così ho iniziato a scrivere libri di cucina giapponese perché non avevo visto pubblicazioni che ritraessero lo stile o il gusto del cibo giapponese così come l’ho conosciuto da mio marito e dai suoi amici cuochi. Perciò ogni volta che mi accingo a scrivere un nuovo libro la mia domanda è: riuscirò ad illustrare con veridicità una porzione del panorama culinario che non è ancora stata mostrata?

Ma scrivere libri, soprattutto se di cucina, non è una cosa sorpassata? Oggi ormai tutti usano Internet.

A mio avviso, i libri di cucina stampati non rischiano di perdere terreno a favore di Internet. In realtà, se si cerca su Internet una determinata ricetta, si scopre che i contenuti migliori provengono da rielaborazioni di fonti stampate: senza i contenuti originali, diciamolo, le ricerche su Internet darebbero scarsi frutti. Questo è un fenomeno che si riscontra anche nella ricerca di ricette giapponesi su Internet. Internet poi è arrivato tardi in Giappone rispetto, per esempio, agli Stati Uniti, e si notano ancora molte approssimazioni. Recentemente, alcune riviste giapponesi o siti di ricette online stanno comunque proponendo contenuti di maggiore qualità: Orange Page, Sirogohan, Kurashiru, Lettuce Club, Delish Kitchen, Macaro-ni e Kyounoryouri sono quelli che mi sentirei di consigliare.

La cucina migliore cerca sempre di trovare un equilibrio tra i suoi tre elementi portanti: stagionalità, materie prime e tecniche. È così anche in Giappone?

Ovviamente la stagionalità svolge un ruolo importante della cucina giapponese, ma forse è più evocata che praticata. Come in tutto il mondo, i cestini dei supermercati contengono frutta e verdura che rappresentano tutte e quattro le stagioni. Anche i ristoranti dipendono dalle inclinazioni dei clienti che si aspettano pomodori e cetrioli in inverno, nonostante siano prodotti estivi. La cultura della ristorazione giapponese è fortemente incentrata sul pesce e il pesce giapponese è il più fresco del mondo, visto che perlopiù dev’essere consumato crudo. Trent’anni fa era difficile trovare verdure di qualità nei ristoranti: il concetto di “farm to table” (dalla fattoria alla tavola, ndr) era completamente estraneo. Ma allargando lo sguardo alle preparazioni, forse oggi la cucina dal maggior fascino, in Giappone, ovviamente oltre a quella elegante e più curata, è quella francese e italiana, prodotta con grande maestria da chef locali che applicano tecniche giapponesi ai loro piatti.

Nei Paesi occidentali il ruolo degli chef ha assunto tratti che ricordano talvolta quelli dei grandi artisti. I cuochi sono diventati anche star televisive. È possibile osservare qualcosa di simile nel Paese del Sol Levante?

In Giappone la serie televisiva “Iron Chef” è andata avanti dal 1993 al 2002 e i cuochi che vi hanno preso parte sono diventati famosissimi. Credo fosse popolare anche al di fuori del Giappone, tanto da fornire l’ispirazione per competizioni analoghe. Di recente, grazie alla crescente curiosità che la cucina giapponese è riuscita ad attrarre su di sé, all’aumento dell’esposizione mediatica e all’ampia diffusione di Internet, anche il fenomeno degli chef stellati ha ricevuto molta più attenzione in Giappone.

Al pari di altre grandi tradizioni gastronomiche diventate famose in tutto il mondo, anche la cucina giapponese è sicuramente esposta a un processo di banalizzazione e standardizzazione: come ci si può difendere da questa tendenza?

Suppongo che l’unico modo per difendersi dall’idea che sushi, ramen o katsu sando equivalgano all’intera cucina giapponese sia quello di continuare a introdurre all’estero una gamma più ampia di autentici piatti giapponesi. Ma è come affrontare un’onda anomala. Il sushi, per esempio, ha una storia lunga, variegata, della quale in pochi conoscono l’evoluzione. Nel 1988, quando sono arrivata in Giappone, questa pietanza era ancora considerata un cibo per persone abbienti, ma già si stavano affermando catene di negozi economici dove le famiglie potevano recarsi senza spendere troppo. Certo, per la maggior parte delle persone il cibo nipponico che si vede fuori dal Giappone è quello dei ristoranti, ma non ha senso cercare di spiegarlo ai non giapponesi. Quello che mi preoccupa, piuttosto, è il processo di imbastardimento del miso e dello shoyu (salsa di soia, ndr) al quale assistiamo in Occidente. Il miso e lo shoyu preparati male sono così diffusi all’estero che il mondo rischia di perdere l’idea del sapore di questi antichi cibi tradizionali.

Che cosa possono aspettarsi allora gli ospiti altoatesini dalla sua personale interpretazione della cucina giapponese?

Prima di tutto eviterei un malinteso. Ciò che serviremo non corrisponde alla “mia particolare interpretazione della cucina giapponese”; piuttosto, si tratterà dell’autentica cucina giapponese filtrata attraverso il mio particolare gusto o tocco, che definirei leggero e fresco. Anche mio figlio Andrew, che lavora in un ristorante di soba, parteciperà alla preparazione dei piatti. Ma per rispondere alla sua domanda generale, gli ospiti devono aspettarsi un pasto che rifletta uno stile elegante e ricco di sfumature, utilizzando i migliori ingredienti artigianali giapponesi insieme alle vostre splendide materie prime altoatesine. Ne sono convinta: chi verrà avrà la possibilità di godere di un’esperienza del tutto inedita.

ff – 6 ottobre 2022

Le donne e il buio psichico

L’appuntamento con la Giornata Mondiale della Salute Mentale, istituita trent’anni fa e celebrata ogni 10 ottobre, è una ricorrenza della quale occorre sottolineare l’importanza non solo per aderire formalmente alle sue finalità più ovvie (quelle che promuovono “la consapevolezza e la difesa della salute mentale contro lo stigma sociale”), ma soprattutto per verificare cosa resta, oggi, del grande impulso ricevuto negli anni Sessanta e Settanta dalla de-istituzionalizzazione della psichiatria: un processo culminato con l’elaborazione della Legge 180 (nota anche come “Legge Basaglia”), la contestuale chiusura dei manicomi, e l’approntamento di una rete di servizi territoriali orientata alla presa in carico delle persone sofferenti.

Per chi non è del mestiere, o non si occupa abitualmente di simili problematiche, è possibile che il termine “de-istituzionalizzazione” risulti oscuro. Mi servirò allora di una citazione tratta dal bellissimo libro di Franca Ongaro Basaglia (“Salute/Malattia. Le parole della medicina”, edito da Edizioni alphabeta Verlag) per illustrarne i termini generali: «Come ogni altra branca della scienza, una volta inserita e diventata parte integrante di un corpo sociale che si organizza in funzione della logica economica su cui si fonda, [la medicina] può diventare uno strumento di copertura in termini medici di problemi che questo tipo di organizzazione sociale non è in grado o non vuole risolvere».

Cerchiamo di cogliere tutta la densità del passaggio: qualsiasi scienza – afferma Franca Ongaro Basaglia richiamando un preciso assunto della filosofia fenomenologica – corre il rischio di cristallizzarsi o irrigidirsi in un’istituzione che ignora la complessità e la fluidità del mondo della vita, allorché presupponga di occuparsi soltanto di un repertorio di oggetti discreti e inerti. Se però abbiamo a che fare con un “malato” – quindi non con un “oggetto”, ma con un “soggetto” –, e questo viene identificato senza residui con la sua patologia, vale a dire annullato dalla sua diagnosi, come sarà mai possibile curarlo? Ora, se un tale annullamento, se una tale svalutazione dell’individualità ha magari un peso relativo in ambiti come l’odontoiatria o la traumatologia, appare evidente che quando parliamo di psichiatria, ossia di individualità del tutto irriducibili a schemi astratti, è indispensabile trovare un approccio radicalmente diverso.

Proprio per dare nuova linfa ad una pratica psichiatrica che non può che configurarsi come rigorosa de-istituzionalizzazione del proprio impianto, a livello locale la prossima Giornata della Salute Mentale è stata progettata pensando al recupero di una “soggettività concreta”, portando all’attenzione le peculiarità che la sofferenza psichica espone quando incrocia la questione di genere, e in particolare la figura della donna. «L’idea di trattare la questione del femminile – ha affermato il dott. Antonio Luchetti, medico psichiatra di Merano e uno degli organizzatori degli eventi che avranno luogo sabato 8 ottobre presso “Casa Basaglia” di Sinigo – parte proprio dall’intenzione di dare spazio alla modalità che questa ha di esprimere la sofferenza senza essere immediatamente medicalizzata (cioè tradotta e sclerotizzata in diagnostica), con l’obiettivo di rianimare una riflessione su come sviluppare dispositivi di cura e di presa in carico della sofferenza più mirati, quindi in grado di scioglierla e diluirla. Abbiamo insomma voluto dedicare la Giornata esplicitamente all’esperienza di donne, madri, figlie, operatrici, utenti esperte e non, per fare luce su come l’esser donna influenzi la cura subita o agita».

Se, come sosteneva acutamente Franca Ongaro Basaglia, la medicina finisse per privilegiare definitivamente l’esame di corpi privati della presenza della soggettività, ad andare persa sarebbe la particolarissima figura degli uomini (e delle donne, volessimo corrispondere all’esigenza di rispettare la soggettività in tutte le sue sfumature) colti nella loro complessità somato-psichica e insieme sociale, amputando dunque il legame con il mondo di cui fanno parte, e senza il quale ogni ipotesi di cura è incenerita sul nascere.

Corriere dell’Alto Adige, 7 ottobre 2022

Minoranze, la terza strada

Giorgia Meloni, durante la sua visita in campagna elettorale a Bolzano (foto: Valentino Liberto, salto.bz)

Abbiamo spesso pensato e scritto bene dell’autonomia sudtirolese. L’abbiamo fatto quando l’occasione lo imponeva — cioè a ridosso di ricorrenze significative — e in generale l’abbiamo ripetuto quando si trattava di lodare un modello che ha portato indubbiamente grandi benefici a questo territorio. Lodare peraltro non significa abolire in linea di principio le critiche, sbiancare le ombre, che ovviamente ci sono e non potrebbe essere altrimenti, costituendo l’autonomia non solo una vicenda istituzionale, ma umana. La cosa più difficile di tutte, allora, non sta tanto nel sottolineare un apprezzamento nei confronti dell’autonomia (e neppure nel denigrarla, come ci si potrebbe aspettare da chi, mantenendosi in una posizione di volontaria esclusione dal suo sviluppo, ha spesso finito col naufragare in una posizione di sterile risentimento), quanto nel conservare un atteggiamento favorevole che non finisca però né in una autocelebrazione rituale e priva di prospettive, né in un discorso che ne relativizzi in modo sbrigativo l’impianto.

In una sua recente cartolina americana, spedita qualche giorno prima del voto, il presidente della provincia Arno Kompatscher ha scritto: «Nell’ambito di un “Highlevel meeting” a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York, la Provincia autonoma di Bolzano è stata più volte citata come uno dei pochissimi esempi di successo a livello mondiale di soluzione pacifica di un conflitto etnico e di tutela delle minoranze. Ciò non è solo un incentivo per la comunità degli Stati presenti a lavorare in questa direzione, ma rafforza anche la stessa Autonomia dell’Alto Adige. È stato per me un grandissimo onore poter rappresentare il nostro territorio a New York». Si tratta di parole condivisibili, che qui da noi hanno incontrato ovviamente un’approvazione generalizzata, ma che tuttavia avrebbero bisogno di un commento più articolato per non restare al livello di quella mera autocelebrazione rituale che, come detto, ne ridurrebbe la prospettiva. In modo indiretto, un commento di questo tipo è arrivato da Giorgia Meloni, premier in pectore e leader di un partito (FdI) discendente da una tradizione storicamente poco incline a valutare positivamente l’autonomia sudtirolese, la quale si è rivolta con una sorprendente lettera ai sudtirolesi di lingua tedesca sfruttando le pagine del quotidiano Dolomiten.

Che cosa ha detto, dunque, Meloni nel tentativo di accreditarsi come «nuova amica dell’autonomia», o perlomeno non come sua «nemica»? La citazione più significativa, tradotta, suona: «L’autonomia ha il pregio di valorizzare il territorio e di favorire la massima partecipazione dei cittadini, ma deve essere accompagnata e inserita in un quadro di unità nazionale. Questo perché ci sono temi di interesse nazionale e strategico, dalle infrastrutture all’energia, in cui è utile lasciare al governo centrale compiti di regia e alle regioni altri compiti». Con una formula riassuntiva: «Se l’Italia cresce, cresce anche l’Alto Adige (nel testo chiamato tranquillamente Südtirol, ndr) e se l’Alto Adige cresce, cresce anche l’Italia».

Occorre prestare attenzione alle sfumature. Mentre nelle parole del presidente della Provincia, espresse a commento della sua presenza a New York, l’autonomia appare solida perché suggerisce un modello efficace di tutela delle minoranze, quindi trae in sostanza la sua giustificazione più forte alla luce del passato, quanto afferma Meloni, con uno sguardo al futuro, eccede il riconoscimento della base sulla quale questo modello poggerebbe, perché il successo del modello (sebbene non negato) dovrebbe essere tuttavia visto in una dinamica che reintroduce il peso dell’unità nazionale (si badi: solo di quella, sfumando invece il tema più opportuno di un’unità europea) a sostegno della politica esercitabile in loco.

Anche se l’accordo sull’autonomia sembra condiviso, affiorano ancora errori speculari sull’interpretazione della sua sostanza: o essa viene schiacciata su ciò che ha già contribuito a ottenere senza reinventarne un senso praticabile oltre il motivo della sua affermazione (Kompatscher), oppure s’intenderebbe superarne la configurazione pensando che non sia più opportuno difenderne le peculiarità — di carattere anti-nazionalistico — che l’hanno fatta sorgere (Meloni). A noi, invece, sembrerebbe più opportuno battere una terza strada: proprio perché riconosciamo all’autonomia il pregio di aver difeso le prerogative delle minoranze, il suo sviluppo deve essere pensato in un contesto nel quale auspichiamo la maggiore porosità possibile dei confini tra i gruppi linguistici (il che non significa la loro cancellazione) e quelli degli stati che li ospitano.

Corriere dell’Alto Adige, 29 settembre 2022