Il vuoto degli italiani

La scorsa settimana, su queste colonne, soffermandomi sul voto italiano, cioè sul suo possibile esito, ho rischiato d’incorrere in un refuso che, a giochi fatti, non si sarebbe rivelato uno sbaglio. Anziché parlare di “voto”, avrei infatti potuto tranquillamente alludere al “vuoto”.

Un vuoto, per l’esattezza, prodotto da fattori numericamente documentabili. In prima battuta: aumento dell’astensione e scarso appoggio alle liste di tradizionale riferimento per un elettorato ancora orientato sull’offerta politica nazionale. A fronte di una parziale tenuta del Pd (che evidentemente dispone di un apprezzamento, seppur contenuto, non più erodibile), ecco perciò il mancato sfondamento dei Fratelli d’Italia (che contavano di fare persino quattro eletti, o perlomeno tre, e si sono invece fermati a due), il disastro della Lega (adesso rappresentata in Consiglio dal solo Christian Bianchi, che neppure ne fa parte) e l’estinzione di M5S e Forza Italia. Unica eccezione, in questo quadro desolante, il successo della Civica capitanata da Angelo Gennaccaro, sul quale sarà opportuno spendere qualche riflessione ulteriore. Su trentacinque consiglieri, insomma, la pattuglia degli “italiani” si è ridotta a cinque unità, riproponendo il non inedito quesito sul perché, nella nostra provincia, il secondo gruppo linguistico si autocondanni ad essere così sottorappresentato e finisca col rivelarsi ben più marginale di quanto non lo sarebbe se partecipasse di più o meglio.

Le spiegazioni da avanzare sono, a mio avviso, principalmente tre. Due di natura più contingente, la terza che rimanda alla storia della presenza italiana in questa terra. Per quanto riguarda la prima possiamo evocare la figura del circolo vizioso. Gli altoatesini tendono a non aspettarsi granché dalle elezioni provinciali, operando la più classica delle profezie che si autoavverano. Il ragionamento è più o meno questo: a cosa ci serve andare a votare se poi, anche facendolo, non arriveremo comunque mai a decidere e neppure incidere su qualcosa di rilevante? La seconda spiegazione si lega strettamente alla prima e, stavolta attingendo dall’esperienza, la conferma a posteriori. Anche quando hanno espresso un orientamento tutt’altro che blando (vedi per esempio i quattro leghisti eletti nella scorsa tornata elettorale), i risultati si sono rivelati poi ben al di sotto delle aspettative, tanto da non rendere appetibile ripetere l’esperimento. L’ultima spiegazione, infine, fornisce un fondamento storico alle prime due. Gli italiani che vivono tra Salorno e il Brennero avvertono raramente di “possedere” la terra in cui abitano, non si sentono cioè “a casa” (mentre per i tedeschi l’essere “beheimatet” è quasi la regola), e vivono spesso in un universo mentale che ruota su altre coordinate, letteralmente posizionate “altrove”. In pratica, è come se ancora si scontasse il fallimento del progetto colonialista che, durante il fascismo, mancò di creare un radicamento degno di questo nome. Sul punto ha scritto pagine assai brillanti e istruttive lo storico Andrea Di Michele, nel suo recente volume intitolato “Terra italiana”.

Se queste, come crediamo, sono le argomentazioni in grado di spiegare il “vuoto italiano”, chiediamoci, in conclusione, come sarebbe possibile invertire la tendenza, elaborando una strategia per non andare sempre incontro a batoste del genere. A questo proposito torna utile citare l’unica eccezione notata in precedenza, vale a dire quella della Civica, che ha portato in Consiglio provinciale Angelo Gennaccaro, l’italiano col maggior numero di preferenze (se si esclude Sabine Giunta, dei Verdi, che però, appunto, non è riuscita ad essere eletta). Qual è la ricetta di tale, a prima vista inaspettato, successo? A parte le doti personali di simpatia e spigliatezza del giovane bolzanino, è proprio il radicamento nel cuore e nell’anima della sua città, che già in passato gli ha espresso un significativo gradimento, a costituire l’ingrediente di maggior peso. “Genna” è uno che si muove, ascolta, si mette a disposizione. Non evoca riferimenti lontani, non ha un approccio ideologico, non si appoggia a big che vengono quassù solo per prodursi in comparsate d’occasione. La sua appartenenza al territorio è reale, credibile, verificabile. Per questo piace, per questo è riuscito a imporsi su candidati schermati da nomi altisonanti (Meloni, Conte, Salvini, addirittura il defunto Berlusconi) ma irrimediabilmente lontani. Sembrano cose ovvie, eppure il consenso, quello vero, o si costruisce in questo modo, pezzo per pezzo, oppure diventa volubile e privo di sostanza.

Corriere dell’Alto Adige, 25 ottobre 2023

Il voto degli italiani

Chiedersi come voteranno gli italiani dell’Alto Adige significa considerare la persistenza di un aggettivo (il voto “italiano”, appunto) che a distanza di più di 100 anni dall’annessione del Sudtirolo dovrebbe destare qualche preoccupazione.

Ma com’è possibile, sarebbe insomma il caso di domandare, che il riferimento, o per meglio dire l’ancoraggio all’appartenenza linguistica sia tutt’ora così forte da determinare scelte orientate in modo addirittura pre-riflessivo, automatico, tanto da far dirigere immancabilmente il parlante x su una lista in larghissima parte (se non addirittura esclusivamente) affollata da parlanti x, cioè della sua stessa “specie”? Più che fenomeni dalla vita complessa, vengono in mente comportamenti propri degli organismi unicellulari, come per esempio il paramecio, prigionieri di schemi reattivi impostati sull’unica funzione della fuga da qualsiasi cosa sembri loro “aliena”.

Certo, un discorso simile potrebbe pure essere fatto per il “voto tedesco”. È infatti indubbio che la caratteristica della quale stiamo tratteggiando il profilo si comprende nel quadro più ampio di abitudini e inclinazioni che, seppur in apparenza divergenti, indicano tendenze comuni, modellate, cresciute e solidificate le une sulle altre. La conferma si può cogliere dall’esistenza, nel complesso ancora marginale, di partiti programmaticamente “inter-etnici” (pensiamo soprattutto ai Verdi, al Team-K, ma anche alla lista Vita), formazioni cioè ispirate non solo dalla ricerca di un consenso trasversale – anche la Svp, è noto, non disdegna pescare nel bacino “italiano”, adesso più che mai indispensabile per mitigare la perdita di appeal nel suo elettorato tradizionale –, ma dalla volontà di esibire già al proprio interno una composizione più stereofonica della realtà. Ebbene: quanta fatica hanno sempre fatto (e probabilmente faranno) tali partiti ad attirare voti di preferenza in grado di premiare candidati di più lingue, prerogativa essenziale per coltivare poi qualche labile ambizione di governo?

Citate le stentate eccezioni, resta il dato iniziale: saranno dunque molto probabilmente gli automatismi, le appartenenze consolidate – quelle che, come abbiamo affermato in modo un po’ irriverente, ci fanno più assomigliare a dei parameci, piuttosto che a persone pensanti – a permettere agli italiani di affermare la propria presenza dentro le urne e, di conseguenza, sia tra i banchi del Consiglio provinciale che sulle due poltrone degli assessorati qui da noi assegnati per statuto a quasi esclusivo “titolo etnico”. Immiserita e schiacciata la prospettiva, è allora chiaro che il semplice elenco dei partiti maggiormente visibili a livello nazionale (Fratelli d’Italia, Lega, con parecchio distacco M5S, Pd e Forza Italia, quest’ultima persino condannata a richiamare nel simbolo l’estinto fondatore, o a diffondere slogan dadaisti – “Credere. Combattere. Vincere” – per non affogare nell’irrilevanza) smuoverà per l’ennesima volta un voto “altoatesino” che però di “locale”, cioè rapportato davvero al luogo in cui viene espresso, non ha poi molto, essendo piuttosto il risultato di dinamiche di successo (o di fallimento) maturate in larga prevalenza altrove.

Unica nota un po’ dissonante, in tale prevedibile inerzia, l’esperimento di una Civica che non sfoggia sedi centrali oltre Salorno, e adesso tenta di estendere sul piano provinciale ciò che si è dimostrato efficace a Bolzano e Merano. Riuscisse a far eleggere almeno un candidato, sarebbe un successo senza precedenti.

Corriere dell’Alto Adige, 21 ottobre 2023 – Pubblicato con il titolo “Incognita italiana”

I molti rischi di Kompatscher

Le elezioni provinciali, anzi regionali (benché la Regione sia un’entità scarsamente percepita), si stanno rapidamente avvicinando, e ormai, formulata dalla prospettiva di Bolzano, la questione che attende il chiarimento più urgente è questa: ce la farà la Svp a limitare la batosta che tutti le pronosticano? Sarà insomma ancora possibile per il partito di via Brennero, che ha costituito per decenni la colonna vertebrale ma anche la carne (e il grasso) dell’autonomia speciale, governare praticamente in solitudine nel territorio da sempre considerato “suo”?

Guardiamo i numeri. Nel 2008, ultima legislatura presieduta dal vecchio Landeshauptmann Luis Durwalder, quasi 150.000 voti assicurarono alla Stella alpina più del 48% dei voti (e 18 seggi). Cinque anni dopo, appena subentrato Arno Kompatscher come alfiere (o ultima spiaggia) del “rinnovamento”, il consenso si assottigliò, consentendo comunque ancora il raggiungimento di un largo 45% e un numero di seggi capace di produrre una comoda maggioranza (17). Nel 2018, sempre con Kompatscher nel ruolo di candidato di punta, l’erosione non si è fermata, spingendo il risultato fino al 41,9%, pur difendendo una quota di seggi (15) sufficiente per formare un governo monocolore. Bene, se il trend venisse confermato, è certissimo che l’argine di sicurezza del 40% stavolta non potrà reggere, e gli ultimi sondaggi annunciano addirittura un crollo epocale, con una Svp ridotta al 35%, quindi a una porzione di seggi oscillante tra i 12 e i 13. Troppo pochi per non contemplare la necessità di allargare avventurosamente la coalizione di governo ad un altro partito di “area tedesca”.

Per cercare i motivi di una tale evoluzione negativa si possono evocare diversi fattori, sia esterni al partito (lo testimonia la crescita di liste che si propongono compe competitors), sia riscontrabili al suo interno (lotta tra le diverse correnti, lobbysmo privo di scrupoli, scandali, incapacità di sostenere le sfide dei tempi che cambiano). Per chi volesse approfondire, è per esempio assai consigliabile la lettura di un libro scritto dallo storico ed ex consigliere dei Verdi Hans Heiss (“Die Blüten der Macht. Die Südtiroler Volkspartei zwischen Wunder und Widerspruch”, Edizioni alphabeta Verlag 2022), ma si tratterebbe di un consiglio fin troppo ambizioso, visto che da queste parti (come del resto anche altrove) alle analisi ben ponderate e di lungo respiro si preferiscono spiegazioni sbrigative, magari orientate a trovare un capro espiatorio al quale attribuire responsabilità altrimenti assai più intricate da esplorare. E in effetti, è proprio su questo versante semplice (e semplicistico) che probabilmente verrà filtrata la risposta delle urne al quesito posto all’inizio, e soprattutto lo scioglimento dei dubbi che, comunque vada, emergeranno in modo cospicuo anche dopo il voto.

Il capro espiatorio che si sta profilando all’orizzonte, allora, potrebbe essere proprio Arno Kompatscher, al quale la sconfitta elettorale del partito costerebbe comunque carissima, persino in caso di un suo successo individuale. In fondo l’uscita di Thomas Widmann può essere letta anche così: come mozione di sfiducia fatta scattare in anticipo da un demolitore dell’unità che però non vede l’ora di tornare nel recinto, potendo poi imputare al suo maggior concorrente di non riuscire più a tenere insieme ciò che non avrebbe mai dovuto essere diviso. C’è stato un tempo in cui “partito di raccolta” voleva dire che, in buona sostanza, i dissidi ideali o personali vanno comunque sfumati in nome di una missione avvertita come comune. Ma se tale missione si appanna, fino a smarrirsi, la consequenza non può che essere la fine del partito di raccolta.

Corriere dell’Alto Adige, 15 ottobre 2023

Raccontare Dante

È possibile gustare la Commedia di Dante traendone il succo più profondo e schivando la noia di alcuni suoi passaggi? Un libro di Claudio Giunta ci mostra come fare.

Rileggere Dante, oggi, e possibilmente capirlo. Questo il compito svolto da Claudio Giunta, professore di Letteratura italiana all’Università di Trento, in un volume (“Inferno. La Commedia di Dante raccontata da Claudio Giunta”, Feltrinelli 2023, p. 276, Euro 19) che segue passo passo il viaggio del poeta fiorentino nel mondo ultraterreno, riportando gran parte dei versi della prima cantica, provvisti di parafrasi, e inserendoli in un racconto ricco di dottrina ma tutt’altro che pedante, teso soprattutto ad evidenziarne lo sfondo storico e i nessi tematici: “Sette secoli fa un essere umano che parlava la nostra lingua ha visto, e ha saputo dire. Se farete lo sforzo di ascoltarlo, da questo sforzo uscirete cambiati”. Notoriamente, Dante costituisce per la tradizione letteraria italiana quello che Goethe rappresenta per i tedeschi, ma con una sfumatura decisiva. Proprio rispondendo a una domanda rivolta a sondare il parallelismo tra i due “monumenti”, il docente di romanistica Bernhard Huß (dell’università di Berlino) ha detto: “Das italienische Schulsystem ist sehr traditionell ausgerichtet. Jedes Schulkind muss irgendwann einmal das Werk von Dante lesen. Hierzulande [cioè in Germania, ndr] ist das anders. Man kann im Deutschunterricht Goethes Faust lesen, aber man muss es nicht mehr. Solch eine distanzierte Haltung gegenüber einem Nationaldichter wäre in Italien unvorstellbar“. Del ruolo rappresentato da Dante nella nostra cultura, della difficoltà incontrata da molti docenti nel proporlo come lettura “obbligatoria” a scuola, in ossequio ai famosi “programmi”, e più in generale di quali strategie occorre invece munirsi per avvicinare, e possibilmente godere, un classico così imponente, Giunta parlerà oggi, 12 ottobre, anche a Bolzano, presso la Nuova Libreria Cappelli di Corso della Libertà.

Professor Giunta, il suo incontro con la poesia di Dante risale a un innamoramento di gioventù, poi alimentato nel corso della vita?

No, nessun incontro particolarmente ispirato. All’università mi sono specializzato in letteratura del Medioevo (poeti del Due-Trecento), e una ventina d’anni fa mi chiesero se volevo fare un commento alle Rime di Dante per i Meridiani Mondadori. Ho accettato, e quindi col tempo ho approfondito la conoscenza di Dante, non solo le Rime ma anche altre opere, e tra queste la Commedia. Ma per me è lavoro, non sono uno di quelli che leggeva o legge Dante nel tempo libero: troppo difficile.

Come è nata allora la decisione di accompagnare i lettori in questo nuovo viaggio nella Commedia dantesca?

Mah, da un lato ho constatato che la lettura integrale della Commedia è qualcosa che non si fa più, né a scuola né all’università né nella vita: ci sono troppe altre cose da leggere, guardare, fare. Il tempo è sempre troppo poco, e l’impegno è enorme (ci sono eccezioni, beninteso: ma rare). Da un lato sono convinto che il modo in cui si studia Dante a scuola non sia il modo buono: si legge una scelta di canti (tanti per l’Inferno, meno per il Purgatorio, pochi o pochissimi per il Paradiso), sempre gli stessi, e si perdono di vista i nessi interni, il disegno generale: raccontare il libro con prelievi da questo o quel canto mi pare invece un modo più sensato.

Ci sono esempi o precedenti ai quali si è orientato per stendere il suo racconto?

Qualcosa del genere (anche se non esattamente la stessa cosa) aveva fatto Calvino col Furioso: e uno deve darsi dei modelli… Però per la Commedia è molto più difficile.

Filippo Tuena ha scritto di recente: “Tornando a leggere Dante fa impressione che quasi a ogni pagina ci s’imbatta in frasi che ormai fanno parte del comune parlare come se davvero la lingua italiana trovasse qui la sua scaturigine”. Ma è davvero così, possiamo cioè dire che la nostra lingua sia ancora “la lingua di Dante”?

Sì sì, certo, è vero, la gran parte dell’italiano che adoperiamo si trova già nella Commedia; e molte prime attestazioni di parole che usiamo ancor oggi si trovano appunto in Dante: e non solo le parole, anche modi di dire, sintagmi memorabili – “la diritta via”, “il gran rifiuto”, perfino l’insopportabile “mi taccio”, con cui adesso tanti chiudono i loro interventi – vengono da lì.

Nel suo racconto assume un rilievo marcato la relazione del poeta fiorentino con la sua guida, Virgilio. Perché il modello dell’Eneide è così essenziale per comprendere la Commedia?

Non credo di essere stato particolarmente largo di confronti virgiliani, anzi… Perché per fare un confronto sensato con l’Eneide, argomentandolo, occorre spazio, e una delle cose che mi ero imposto era, ed è, quella di non scrivere più di trecento pagine per cantica, altrimenti cessa lo scopo, e si fa prima a leggere il testo per intero. Comunque, Virgilio è un modello in due sensi: a livello macrotestuale, per l’idea della discesa agli inferi (il sesto libro dell’Eneide), e a livello microtestuale, per la miriade di versi, metafore, parole virgiliane che Dante conservava nella memoria e riusa nella Commedia, per esempio la metafora delle foglie che cadono in autunno nel terzo dell’Inferno.

Torniamo sull’argomento scolastico. Questa istituzione è ancora in grado di schiudere agli studenti il significato di un’opera così complessa? Oppure rappresenta una specie di pietra tombale sulla curiosità plasmabile di lettori inesperti?

Come le dicevo, ho scritto questo libro proprio perché credo che la Commedia, letta come la si legge a scuola, non vada bene, soprattutto nelle scuole che non sono il liceo classico (cioè il 94% della popolazione scolastica). Per come stanno le cose ora (o stavano al mio liceo), direi purtroppo più una pietra tombale che un’occasione per imparare.

Qui da noi, in Sudtirolo, la Commedia è anche proposta in alcune scuole di lingua tedesca, cioè a studenti che conoscono poco l’italiano. Ha senso?

Io francamente farei leggere autori moderni e contemporanei e lascerei Dante agli avanzati, o a chi studia Letteratura italiana all’università. Se l’interesse primario è la lingua dell’uso, perché torturare gli studenti di altra madrelingua con l’italiano antico?

A proposito di torture: nel suo racconto spiccano passaggi nei quali lei definisce alcune parti del poema dantesco persino come “noiose”, non teme di aver peccato un po’ di irriverenza?

Ma guardi che noiosa è gran parte della letteratura, specie quella antica: solo che a scuola ci hanno insegnato a non dirlo, chissà perché. Di imprescindibile, nella letteratura, non credo ci sia niente. Se uno ha letto Cechov tutta la vita e neanche una riga di Dante, probabilmente avrà un rapporto con la letteratura migliore di chi ha letto Dante tutta la vita e neanche una riga di Cechov. Del resto, il culto di Dante si arresta alle Alpi, e non è che al di là delle Alpi siano tutti illetterati…

Però nella Commedia esistono anche moltissimi passaggi sublimi…

Ovviamente. Penso che l’ultimo canto del Paradiso sia la cosa più bella mai scritta da un poeta italiano. E anche la fine del canto XXII; e Purgatorio V; e Purgatorio XXII; e…

Dopo il racconto dell’Inferno ha in mente di proseguire portandoci anche nelle altre due cantiche, le più ingiustamente trascurate dai lettori comuni?

Se vendo abbastanza faccio anche le altre due; se non vendo abbastanza chiedo all’editore di stracciare il contratto, perché è una faticata. Forse, non lo so. O forse le faccio lo stesso. Del resto, è vero, il Purgatorio e il Paradiso hanno versi e scene più belle dell’Inferno, quindi sono ottimista.

ff – 12 ottobre 2023