Modello che va ripensato

Si può obbligare qualcuno a «integrarsi» in una determinata società, vale a dire quella in cui vive, provenendo da un altro contesto? Ha senso parlare di integrazione ponendo condizioni escludenti? La domanda potrebbe acquistare un’altra luce, se il verbo che la inaugura (quello che rimanda a un «obbligo») non nascondesse di per sé una risposta a sua volta obbligata. E la risposta è no: non si può obbligare nessuno a integrarsi, perché l’integrazione è sempre un processo spontaneo, e qualora si configuri alla stregua di una imposizione (pena l’esclusione dal godimento di diritti arbitrariamente definiti «non essenziali») tale processo viene vanificato. Tutt’altro scenario si aprirebbe, se all’obbligo venisse sostituita una pratica o un complesso di pratiche che favorissero il dialogo interculturale, non dimenticando che nel caso di un «vero dialogo» non ci troviamo di fronte a uno che parla (sempre) e l’altro che ascolta (sempre), ma l’ascolto deve essere reciproco. In un dialogo, insomma, si parla e si ascolta, in un gioco che prevede uno scambio inclusivo: altrimenti avremo solo un monologo. Se tale è la premessa, non è difficile accorgersi come l’obiettivo che la Provincia di Bolzano intende realizzare al fine di integrare i cittadini extraeuropei — legando i sussidi del welfare a determinate conoscenze obbligate, sia dal punto di vista linguistico che culturale — si conformi pienamente a una imposizione monologante.

Per di più molto simile a un ricatto (il motto è «Fordern un Fördern», vale a dire «Ti concediamo le nostre prestazioni sociali a patto che tu faccia quello che noi vogliamo»). Ed ecco infatti cosa intende Philipp Achammer, che della nuova legge sull’integrazione è uno dei massimi sponsor, allorché interrogato sul significato del termine «integrazione» risponde: «Per me integrazione significa poter diventare parte integrante di una società, possibilmente con pari diritti. Integrazione non significa rinunciare alla propria cultura o alla propria confessione, ma per diventare parte di una società devo muovermi all’interno di una determinata cornice. Se non parlo la lingua non ho la capacità di muovermi agevolmente in questa cornice, perché non verrei capito». Il sottotesto implica che quanto più sarà stringente e cogente la «cornice» tanto più facilmente otterremo l’integrazione di chi vuole vivere al suo interno.

Intendiamoci: si trattasse di un auspicio, secondo il quale l’integrazione non può avvenire se chi arriva da fuori non riesce a comunicare con la popolazione locale e non ne condivide i presupposti culturali, nessuno avrebbe qualcosa da obiettare. Ma sono i mezzi attraverso i quali dall’auspicio si cerca di passare alla sua realizzazione, ossia quando questi si configurano come strategia obbligante, che possono inibire la possibilità di avere successo, che di fatto trasformano la «cornice» in un ambiente ostile, anche perché si è già dimostrato che le costrizioni generano piuttosto repulsione e chiusura. Non bisogna del resto convocare sempre il caso degli «stranieri» per farne esperienza. In Alto Adige/Südtirol viviamo da decenni in un contesto politico-amministrativo che con grande fatica è pervenuto a istituire l’obbligo del bilinguismo nella sfera pubblica. Nulla da eccepire, apparentemente funziona, ma è un funzionamento che ha prodotto anche società di fatto separate, contesti e attitudini addirittura reciprocamente impermeabili, e non è certo spacciando un’accettabile condizione di pacifica coesistenza (quella che abbiamo) per una entusiasmante convivenza (dalla quale siamo tuttora lontani) che riusciremmo a nascondere le mancanze del nostro modello integrativo.

Corriere dell’Alto Adige, 25 settembre 2021

L’inutilità di un nome unico

All’inizio dell’incompiuto testo-glossario intitolato “ABC Südtirol”, stendendo la voce “Alpen”, Alexander Langer scriveva: «Il Sudtirolo si trova in mezzo alle Alpi e condivide la maggior parte dei suoi problemi con le altre regioni alpine. Questa è una di quelle ovvietà delle quali non varrebbe neppure la pena parlare, se lo sguardo sugli aspetti fondamentali della vita e della sopravvivenza di questa terra non fosse stato così spesso offuscato e bloccato da decenni di contemplazione narcisistica attorno alle problematiche di carattere etnico». Come detto, il glossario dedicato alla comprensione delle specificità sudtirolesi è rimasto sostanzialmente un abbozzo, visto che delle previste 134 parole chiave, ordinate in ordine alfabetico, solo una piccola parte ha ricevuto l’elaborazione oggi disponibile.

Fra le parole mancanti spicca ad esempio proprio la voce “Sudtirolo”, anche se l’elenco provvisorio riporta “sudtirolesi”. Potremmo chiederci cosa ne avrebbe scritto, Langer, tuttavia dobbiamo accontentarci di congetture e interpretazioni inverificabili. Esiste comunque la voce “Italiani”, una delle ultime composte, e vale la pena citarne un passo per riflettere (in controluce) sui termini “Sudtirolo” e “sudtirolesi” assenti. Ecco cosa dice Langer degli “italiani”: «Quando ci si riferisce al “gruppo linguistico italiano” si adotta […] un termine artificiale: le uniche cose che accomunano gli italiani del Sudtirolo sono l’italiano scritto, la relazione con lo Stato e, bene o male, l’antagonismo nei confronti dei sudtirolesi di lingua tedesca [der Antagonismus gegenüber den Deutsch-Südtirolern]. Da qualche tempo ha cominciato però a diffondersi un nuovo senso di appartenenza a questa terra: non ci si sente soltanto “italiani”, ma anche “altoatesini”, qualche volta persino “sudtirolesi di lingua italiana”, sebbene ovviamente un inasprimento del conflitto etnico contribuisca a sottolineare l’elemento italiano».

Visto che in genere Langer ricorre ai termini “Sudtirolo” e “sudtirolesi” anche quando intende parlare di “Alto Adige” e di “altoatesini”, qualcuno di recente ha immaginato che tali parole potessero essere rese finalmente ufficiali in ossequio a un principio di inclusività che, si sostiene, dovrebbe disporre di un unico nome da dare a questa terra e ai suoi abitanti. A tal proposito possiamo perciò chiederci: abbiamo realmente bisogno di un unico nome, davvero l’inclusività si afferma così, ed era questa la finalità di Langer quando utilizzava “Sudtirolo” al posto di “Alto Adige” e “sudtirolesi di lingua italiana” al posto di “altoatesini”?

Se stiamo ai fatti (cioè a quello che di Langer possiamo leggere o alle sue dichiarazioni rilasciate nelle varie occasioni in cui si discuteva di questioni terminologiche), non esiste alcun riscontro che l’utilizzo langeriano di “Sudtirolo” e “sudtirolesi” ambisse ad essere sancito ufficialmente con un atto amministrativo. Possiamo anche ritenerlo plausibile ma, a rigore, sarebbe sbagliato fare di Langer un precursore di Sven Knoll (o di Sven Knoll un seguace di Langer). Quella che invece vorrei qui esporre è un’argomentazione contraria all’ufficializzazione del toponimo “Sudtirolo” (anzi: un’argomentazione a sfavore di qualsiasi eccessiva pratica ufficializzante), pur facendo anch’io parte di quelli che lo usano di frequente. Me ne rendo conto: ciò potrebbe sembrare sulle prime una contraddizione, ma si tratta di un dissidio apparente, perché passando dall’uso libero (che difendo) alla sua ufficializzazione (che contesto) avremmo in realtà un livellamento di sfumature terminologiche – espresse dalla varietà intrinseca al concetto storico-semantico di “Alto Adige/Südtirol/Sudtirolo/Autonome Provinz Bozen/Provincia autonoma di Bolzano” – più utili di un unico riferimento ritenuto (ingenuamente o ipocritamente) capace di risolvere i nostri problemi identitari.

Per sintetizzare: la soluzione dei nostri problemi identitari non risiede nella ricerca di una reductio ad unum di molteplici punti di vista, ma nella preservazione di tutte le oscillazioni e di tutte le varianti che possono costituire sempre un’alternativa all’ufficializzazione di cui disponiamo. In questo modo il mondo della vita fluente al di sotto delle denominazioni formali non sarà irrigidito e costretto in stampi solidi che, non è difficile dimostrarlo, genererebbero proprio la ripresa immediata di una “contemplazione narcisistica attorno alle problematiche di carattere etnico” della quale parlava Langer.

Corriere dell’Alto Adige, 19 settembre 2021

Cultura infetta

Sgombro il campo da un possibile equivoco: non scrivo per accusare, non mi sto lamentando, cerco solo di mettere a fuoco una sensazione. E spero tanto di sbagliarmi. Siccome parlo di una sensazione, ne circoscrivo l’origine empirica, come direbbero i filosofi. La settimana scorsa ho visitato due istituzioni culturali (una biblioteca, un cinema) nelle quali non mettevo piede da mesi. In biblioteca (non è così importante che riveli quale sia, si tratta comunque di una biblioteca bolzanina) non ho trovato anima viva, a parte chi ci stava lavorando: nessun lettore (o se c’era si era nascosto benissimo), nessuno a prendere libri in prestito, nessuno a restituirli. Segnalo che l’orario non era proibitivo, non stavo lì subito dopo l’apertura o subito prima della chiusura. Al cinema sono andato di sera, spettacolo della otto e mezza. Eravamo in sei. D’accordo, non era un film di quelli che smuovono le masse, ma era pur sempre un film di richiamo, proiettato al Festival del cinema di Venezia. Regista importante, attori importanti. Eppure eravamo in sei. Vengo al punto. Che cosa mi suggerisce questa sensazione? Questa sensazione mi suggerisce che al margine di tutto ciò che noi stiamo raccontando sull’efficacia o meno delle misure di contenimento della pandemia (al margine di tutto questo caotico dibattito), le persone intanto si tengono (o vengono tenute) soprattutto alla larga dagli spazi della cultura, come se la cultura avesse una capacità d’infettare superiore a tutto il resto. Ripeto, magari si tratta solo di una mia sensazione, del tutto privata, del tutto occasionale. Eppure ce l’ho, questa brutta sensazione, e mi piacerebbe tantissimo che qualcuno mi spiegasse, mi dimostrasse, mi convincesse che non è così, che in realtà presto sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, che ogni Cristo scenderà dalla croce e anche gli uccelli (cioè gli appassionati di cultura) faranno ritorno.

La colonnina – ff – 16 settembre 2021

Nel nome di Langer

Dal 3 settembre, a Livorno, una scuola di periferia appena inaugurata porta il nome del politico sudtirolese che rappresenta i valori della pace e della convivenza.

Non è scontato lo si faccia in provincia di Bolzano (dove la sua figura non è neppure presente tra quelle citate nel percorso esplicativo dedicato all’autonomia in Piazza Magnago), figuriamoci altrove. Di certo Alexander Langer non fu profeta in patria. Troppo “straniero”, troppo restio a celebrare radici (pur essendo radicatissimo nella sua terra), troppo curioso di genti diverse e di posti lontani. Così il suo ricordo fiorisce dove non te lo aspetteresti, perché è proprio dove non te lo aspetteresti che c’è invece chi lo conosce, lo legge, se ne innamora e trova il modo di farne viaggiare ancora il messaggio. In Toscana, per la precisione nella zona nord di Livorno, un’associazione (si chiama Nesi/Corea) è riuscita ad esempio a convincere l’amministrazione locale a dare il nome di Langer a una nuova scuola-volano, una struttura prefabbricata che ospiterà alcune classi di diversi istituti, in attesa di venir poi trasferite nelle loro sedi definitive. La struttura è stata inauguarata lo scorso 3 settembre dal sindaco Luca Salvetti e dalla sua vice, con delega all’istruzione, Libera Camici. Abbiamo chiesto a Stefano Romboli, tra i principali animatori dell’iniziativa, di raccontarci come si è arrivati a questa attribuzione.

Può spiegarci che tipo di associazione è quella per la quale lavora?

L’associazione Nesi/Corea è un’associazione di volontariato, aconfessionale, asindacale e apartitica, ispirata ai principi dell’antifascismo, dell’antirazzismo e della non violenza. Promuove e realizza attività socio educative e socio culturali seguendo i principi dell’educazione permanente e sostenendo finalità di crescita personale e collettiva, educazione e formazione, socializzazione e aggregazione.

L’occasione di dare il nome di Alexander Langer a questa nuova scuola scaturisce da un evento tragico, cioè da un rogo, originatosi in un campo rom alla periferia di Livorno, che il 10 agosto 2007 causò la morte di quattro bambini. Quale fu allora la reazione della città?

Nel 2007 la disgrazia colse la città di sorpresa. Sulle prime si registrò una diffusa indifferenza. Ai funerali, tenutisi nel Duomo di Livorno, a parte le istituzioni, le associazioni di volontariato, i parenti delle vittime e qualche “addetto ai lavori”, mancò proprio il popolo livornese. Qualche curioso, fuori dalla chiesa, si chiedeva se anche gli adulti rom avessero pianto i bambini morti come avrebbero fatto i livornesi. La narrazione era dominata da pregiudizi e stereotipi.

Sentiste l’esigenza di reagire a questa situazione?

Esatto. La nostra associazione – che prende il nome da Alfredo Nesi, un parroco fiorentino attivo nel quartiere Corea tra il 1962 e il 1982 – era appena nata, e noi volevamo intensificare l’impegno rivolto ai migranti, in particolare proprio verso il mondo del popolo rom e sinti. In realtà quella tragedia viene ricordata tutti gli anni, nella ricorrenza della disgrazia, con una piccola cerimonia presso il Cimitero Comunale di Livorno, dove è sepolta una delle 4 vittime (le altre 3 sono seppellite nella ex Jugoslavia). Nel 2009, anche su nostra iniziativa, abbiamo poi promosso la realizzazione di un murale dedicato ai quattro bambini rom, e fra il 2016 e il 2017 abbiamo dato vita a un intero progetto (“I rom protagonisti si raccontano”) per affrontare temi e azioni finalizzate alla conoscenza e all’incontro con i popoli rom e sinti.

Da queste iniziative come si è passati al progetto di dedicare la nuova scuola del quartiere proprio ad Alexander Langer?

Il murale realizzato nel parco in Corea purtroppo è stato demolito nel gennaio 2021 a causa di un errore compiuto dal responsabile che attendeva ai lavori per l’edificazione della nuova scuola, collocata nel parco stesso. Anche in conseguenza di ciò l’amministrazione comunale ci ha chiesto di proporre un nome per la nuova scuola. Ovviamente, l’idea iniziale era quella di intitolarla ai quattro bambini, ma sarebbe stato impossibile citare per esteso tutti i loro nomi. Da qui la proposta del nome di Alexander Langer, che ha trovato subito adesione da parte del Comune.

Che significato particolare ha la figura di Langer per la vostra associazione?

Langer è da sempre uno dei nostri riferimenti, grazie anche alla collaborazione che abbiamo avuto con il “Centro Studi Aldo Capitini/Movimento non violento” di Livorno, ospitato presso la nostra sede. Spesso abbiamo cercato di declinare uno dei suoi testi più rappresentativi, il “Tentativo di Decalogo per la convivenza inter-etnica”, mediante corsi e azioni nel territorio livornese e anche in qualche scuola cittadina. Se a Livorno riuscissimo davvero a praticare anche solo la metà dei punti elencati dal suo decalogo, penso che potremmo far rivivere in chiave moderna e aggiornata lo spirito delle “Leggi Livornine”, che alla fine del Cinquecento guidarono la costituzione della nostra città nel segno di una grande “apertura”.

Da questo punto di vista, avere adesso a Livorno una scuola che porta il suo nome che valenza assume?

L’intitolazione di una scuola ci sollecita e ci spinge a farlo conoscere di più e meglio, per esempio mediante alcuni laboratori didattici. Le amministrazioni comunali, a cominciare da quella che governa adesso la città, avranno un buon motivo in più per lavorare in questa direzione, cogliendo anche le nostre sollecitazioni e proposte.

ff – 16 settembre 2021

Riannodare quei fili spezzati

Inutile negarlo: neppure questo anno scolastico appena ripartito – con Bolzano a fare da avanguardia nazionale – si svolgerà sigillando fuori dalle aule le paure e le incertezze degli ultimi lunghissimi mesi. Ci troviamo ancora sotto il segno funesto del Covid e vari segnali esteriori (le mascherine, ovviamente, oppure i contenitori di sapone e disinfettante agli ingressi), ma anche quelli interiori (la preoccupazione che si legge negli occhi degli studenti, dei colleghi), lo testimoniano. Uno degli slogan più usati – “riapriamo in sicurezza” – viene così registrato col sopracciglio alzato, cercando di trasformare in una pallida certezza ciò che resta comunque solo una speranza. Eppure non manca la voglia di riannodare i fili che si sono spezzati, di riattivare quella corrente vitale che passa tra i corridoi, tra i banchi, dove alla fissità di comportamenti imbrigliati delle norme alle quali siamo stati sottoposti si andrà sicuramente sostituendo rapidamente più spontaneità e scioltezza di parole e di gesti. Anche se nessuno è magari in grado di dire quanto durerà, il desiderio di farcela per adesso rifiuta decisamente una data di scadenza.

Ascoltato il suono della prima campanella, restano comunque alcune cose da dire, preoccupazioni che non possono essere taciute. La scuola ha pagato un prezzo altissimo durante la pandemia, anche e soprattutto alla luce di un’incoerenza di fondo dei provvedimenti adottati per contenerne gli effetti. Se infatti altrove, negli spazi più difficilmente gestibili in senso restrittivo, abbiamo avuto una tolleranza assai ampia di eccezioni alle regole, su studenti e insegnanti è stato riversato il peso maggiore dei controlli, tanto da propagare una sensazione decisamente fuorviante, vale a dire quella di vedere proprio nelle scuole uno dei maggiori centri (se non addirittura il maggiore) di produzione del contagio. Per suffragare tale sensazione avremmo avuto bisogno di una verifica puntuale della correlazione tra l’attività scolastica e l’aumento di positivi nella popolazione, eppure, alla luce dei (peraltro non molti) studi effettuati, non si è mai riusciti formulare risposte univoche. Discorso analogo per una valutazione dell’impatto esercitato dalla massiccia introduzione della didattica a distanza sull’apprendimento e la socialità degli studenti. Il mondo della scuola ha insomma pagato non potendo però comprendere a pieno se il sacrificio richiesto sia stato strettamente necessario e, soprattutto, quali siano stati effettivamente i danni subiti.

L’anno appena cominciato servirà anche a rendere visibili le ferite finora nascoste dalla coperta dell’emergenza. Ci troviamo davanti infatti a una spaccatura provocata istituzionalmente dal ricorso alla campagna vaccinale e all’adozione della certificazione corrispondente. La situazione è delicata e crea divisioni, perché un conto è quello di vietare l’ingresso in un bar o in uno stadio a chi, per vari e sindacabili motivi, non vuole sottoporsi ai vaccini, un altro escluderlo anche dal lavoro, rinunciando a priori a soluzioni alternative già praticate in passato (come ad esempio quella di consentire tamponi antigenici o molecolari gratuiti). Questa lacerazione, avvertibile nel corpo sociale, si è quindi palesata proprio nel luogo preposto allo scambio e all’approfondimento delle idee, configurando una cieca lotta tra timori contrapposti, senza che a nessuna razionalità mediatrice venisse concesso di tenere aperto uno spiraglio di dialogo. L’augurio è che questo strappo si possa ricomporre, perché la scuola deve fornire un modello per l’arginamento delle paure, e per farlo ha bisogno di tutti i suoi studenti e di tutti i suoi insegnanti.

Corriere dell’Alto Adige, 7 settembre 2021

Faticare insieme

In una recente intervista al portale online salto.bz, l’ex primo ministro Romano Prodi ha dato una definizione inedita della nostra autonomia parlando di “faticosa esemplarità”. Prodi sarà a Bolzano oggi. Insieme all’ex Presidente austriaco Heinz Fischer presenzierà a quello che ormai da alcuni anni è un tentativo di rendere “festoso” il ricordo del giorno in cui Alcide De Gasperi e Karl Gruber fissarono lo schema di un’intesa internazionale a tutela della minoranza tedesca e ladina residente in provincia di Bolzano (ma anche del più vasto disegno istituzionale che, allargato al Trentino, avrebbe dovuto rendere meno urticanti i malesseri ancora percepibili tra le disiecta membra dell’antico Tirolo). «Credo che la faticosa esemplarità rappresentata dal sistema altoatesino – riportiamo per esteso la citazione di Prodi – sia una certezza anche per il futuro». Per poi aggiungere: «L’identità non è più l’unico modo di affrontare le questioni politiche. Nel quadro europeo questo atteggiamento è diventato sicuramente più facile da tenere. Finora ritengo davvero molto positivo l’esperimento istituzionale altoatesino. Anzi, non ha più nemmeno senso parlare di esperimento. Siete una realtà ormai consolidata».

Forse potrebbe apparire inopportuno sollevare qui elementi di critica all’indirizzo di dichiarazioni così ottimistiche. Tanto più in un giorno che, come visto, vorrebbe riuscire di “festa”. Il richiamo alla fatica, però, è un uno spunto da cogliere per non abbandonarci all’autocelebrazione, cioè per comprendere come la valutazione di una “realtà ormai consolidata” non sia affatto immune dal rischio di degenerare nuovamente, o da quello di sclerotizzarsi in uno stato di cose che poggiando su un presente giudicato soddisfacente (e lo è, ripetiamocelo pure) non riesce però più a immaginarsi ulteriori vie di sviluppo. Due prove in promptu: il recente tentativo di riforma dell’autonomia, condotto mediante i lavori di un “Convento” (sudtirolese) e di una “Consulta” (trentina), dal quale sono usciti documenti ornati di buoni propositi ma abbastanza sterili dal punto di vista politico; oppure le serie difficoltà incontrate nell’ambito della cooperazione transfrontaliera nel contesto pandemico, che non solo ha ridotto drasticamente la percezione di uno spazio comune, ma ne ha sigillato i confini come da tempo non accadeva.

Torniamo così ancora alla fatica, dalla quale molti volentieri si scordano, senza capire che invece si tratta di un ingrediente ineliminabile. Quando Prodi afferma che «l’identità non è più l’unico modo di affrontare le questioni politiche» sarà bene aggiungere che è solo mediante una definizione più precisa del concetto di “alterità”, vale a dire apprezzando davvero ciò che riteniamo “altro da noi”, che l’identità estende o contrae il suo perimetro in relazione all’attrito dal quale muove ogni azione autenticamente politica. Concretamente: solo se la nostra relazione con ciò che di volta in volta consideriamo “altro” si dimostrerà in grado di svilupparsi in un dialogo proficuo e approfondito, sarà anche possibile praticare modelli identitari di più ampio respiro. Per quanto ci riguarda, la sensazione è che oggi, al contrario, il profilo dell’altro sia diventato molto evanescente, quasi al limite dell’indifferenza, giacché sono atteggiamenti di segno esclusivo a prevalere ovunque. Puntiamo tutti alla sicurezza, lodiamo il valore dell’autosufficienza (e dell’autogoverno), ma in questo modo desideriamo anche ridurre al minimo il confronto con ciò che riteniamo diverso da noi e – per l’appunto – gli sforzi che un tale confronto necessariamente comporta.

Corriere dell’Alto Adige, 5 settembre 2021