Noia

Non è che mi manchi la voglia di festeggiare. Il punto è che è difficile sapere esattamente “cosa” (si fa un gran parlare di “liberazione”, per esempio, ma intanto quello è ancora lì, sicuramente indebolito, sicuramente ferito, ma sempre ben piantato sul suo scranno, anzi deciso più che mai a leggere la lezione delle amministrative da par suo, cioè negando la realtà, sovvertendone i segni, illudendosi di poterla cancellare con un nuovo sondaggio o un nuovo lifting della propaganda). Problema minore, si dirà. Intanto godiamoci il momento e speriamo davvero che il vento sia cambiato (una volta tanto uno slogan che ci ha detto bene). Comunque, in attesa della festa (quella “vera”), io sento di formulare una domanda preventiva: ma se davvero davvero questa lunga notte stesse per finire, se davvero questi bui diciasette anni si sciogliessero in una nuova alba, cosa rimarrebbe ESATTAMENTE di quello che abbiamo vissuto? È una domanda che rivolgerei anche ai suoi sostenitori. Perché diciasette anni sono davvero lunghi e qualcosa – qualsiasi cosa – dovrebbe pur rimanere al di sotto del cumolo di macerie che si sono andate via via raccogliendo ai nostri piedi. Invece –  e mi dispiace anche dirlo – io penso che questi diciasette anni (posto che rimangano solo diciasette) siano stati diciasette anni buttati semplicemente via. E non lasceranno ricordi, non lasceranno esperienze, non lasceranno emozioni per le quali si possa dire che ci siamo stati anche “noi”. Lasceranno ovviamente la sua “effige”: scalfita e riprodotta milioni di volte (dai discorsi dei suoi sostenitori e dei suoi detrattori). Ma per l’appunto solo quella. E poi:  un vago sentimento appena più corposo di una terribile e arida noia.

Vivere insieme

Il “Manifesto Südtirol – Alto Adige 2019”, presentato ieri a Bolzano dai principali firmatari, si prefigge di rispondere a una domanda: “come vogliamo che sia la qualità del con-vivere nella nostra terra allo scadere dei cento anni dal suo passaggio all’Italia?” Scorrendo il testo – pubblicato anche online al seguente indirizzo: http://manifesto2019.wordpress.com/ – si ricava una visione molto vicina ai principi generali già ampiamente affermati dallo Statuto d’autonomia, fatto che potrebbe suscitare un moto iniziale di perplessità: cosa possono aggiungere queste nuove parole a quanto abbiamo sempre sostenuto? In cosa consisterebbe insomma la sua novità?

Il motto prescelto fornisce in realtà una chiara indicazione critica riguardo alla qualità del modello di convivenza attuale e suggerisce l’immagine di un cambiamento necessario: “Dal viversi accanto al vivere insieme“ (“Vom Nebeneinander zum Miteinander”). Ma per rendere più evidente questo slittamento occorre a mio avviso esplicitare i riferimenti polemici che qui non vengono (per scelta) nominati. Quali sono questi riferimenti? Chi o che cosa ostacola il processo evolutivo della nostra autonomia non consentendo che dal viversi accanto si passi al vivere insieme?

Ecco dunque in cosa consiste la novità: per la prima volta i “colpevoli” non sono rintracciati in soggetti particolari, rigidamente definiti (alcune persone, alcuni partiti, questo o quel gruppo), quanto piuttosto in una tendenza, in un atteggiamento di fondo che attraversa ed è comune a ogni soggetto (e dunque a ogni persona, a ogni partito, a ogni gruppo) allorché l’interpretazione delle questioni locali si cristallizza in una versione statica e discontinua degli elementi disponibili, senza considerare cioè il movimento complessivo e l’intreccio delle loro possibili relazioni.

In altre parole. Non è sufficiente che i diversi gruppi linguistici abbiano acquisito una relativa sicurezza riguardo alla propria sussistenza considerata di per sé. Occorre fare un passo in più, animare un reticolo di azioni che in modo molto concreto spingano le persone a frequentarsi, a scambiarsi esperienze, a progettare iniziative comuni. Ciò non significa pretendere o addirittura imporre lo scioglimento dei confini identitari entro i quali ognuno può sempre tornare (se lo vuole) per sentirsi al sicuro, bensì invitare (chi lo vuole) a riflettere sulla porosità e sulla sinuosità di questi stessi confini. L’autonomia non ha ancora esaurito tutte le sue facoltà propulsive. Siccome qualcuno talvolta sembra dimenticarsene, è bene ricordarglielo.

Corriere dell’Alto Adige, 27 maggio 2011

Il PDL locale

Mannaggia. In attesa dei grandi duelli elettorali di Milano e Napoli (più avvincenti della finale di Champions), avevo preparato un divertente articoletto sullo stadio di decomposizione a cui è arrivato il Pdl locale, con quella esilarante sua schiera di personaggi, di “berluschini” (per usare il termine coniato dallo psichedelico Formigoni), che per l’appunto soltanto in virtù di una straordinaria vena umoristica è possibile definire “politici”. L’avevo scritto, mancavano solo gli ultimi ritocchi, qualche limatura. Ma l’ho perso. Il pc se l’è mangiato. Evidentemente erano considerazioni che non interessavano neppure a lui.

Breve dialogo tra l’italiano e il sorvegliante di rue Descartes

Dopo la registrazione del suo nominativo al bureau d’accueil l’italiano avrebbe varcato l’ingresso che lo avrebbe condotto nel giardino dell’edificio, in rue Descartes. Il giovane impiegato dal maglioncino di cachemire e dal taglio di capelli alla moda gli restituì la carta d’identità e gli consegnò un adesivo da esibire all’ingresso. “È solo per la prima volta, al momento della registrazione”, gli fu detto. Appiccicò l’adesivo all’esterno del portafoglio e si indirizzò verso la porta a vetri che dava sul giardino. La porta era custodita da due uomini in elegante divisa grigia bordata da sottili righe arancio. Pure la cravatta era arancio, e spiccava sulla camicia bianca. I due avevano il compito di verificare l’identità delle persone, controllare il lasciapassare e, in caso, ispezionare borse e zaini. Gentili, entrambi. L’italiano non aveva riposto il portafoglio nella tasca interna del soprabito, in previsione del controllo. Anzi, per facilitarlo e renderlo più veloce, così aveva pensato, tenne la carta d’identità in mano, per poterla mostrare rapidamente ai due sorveglianti. Si avvicinò a loro, mostrò il lato del portafoglio su cui aveva appiccicato l’adesivo e, assieme, la carta d’identità. “Bonjour, monsieur”, lui e uno dei due sorveglianti si scambiarono lo stesso saluto, con una frazione di secondo tra l’uno e l’altro. “Prego, si accomodi”, gli fu detto. Fece tre passi, varcando il breve corridoio che dall’uscita andava verso una grande porta a vetri, la quale dava accesso al giardino interno dell’edificio. Pochi scalini ancora e poi avrebbe cercato il luogo dell’appuntamento. Tuttavia, non appena giunse sul piccolo pianerottolo in pietra, all’esterno, dopo aver varcato la porta a vetri, sentì una voce che, credé, si stava indirizzando a lui. “Monsieur, mi scusi”. L’italiano trasalì, e si voltò. Uno dei due sorveglianti lo aveva in effetti chiamato, e dietro a lui lo seguiva, a un passo, il collega. “Scusi, monsieur, lei è italiano, vero?”. “Sì, certo”. “E da dove viene?”, gli fu chiesto in un ottimo italiano. “Da T…”. “Può aprire il portafoglio, per favore?”. “A che scopo, mi perdoni?”, domandò a sua volta l’italiano. “Non si preoccupi – sorrise il sorvegliante – non è per il controllo, volevo solo che lei mostrasse al mio collega la tessera del codice fiscale”, e sorrise. “Uh, va bene”, rispose di rimando, stupito, l’italiano, che così apri il portafoglio, al cui interno, sulla sinistra, erano ordinate, in tante piccole tasche, le tessere e le carte plastificate. Tra queste compariva la tessera bianca e verde con stampigliato in rilievo il suo codice fiscale. La dicitura “Ministero delle Finanze” e il simbolo della Repubblica Italiana facevano indiscutibilmente di quella tessera un documento ufficiale. “Ecco, vedi, è il codice fiscale”, disse il primo sorvegliante al collega. “È un codice che ti viene attribuito quando lavori in Italia, e ce l’avevo anch’io. È sufficiente inserirlo in un terminale di un computer ed esce tutta la tua situazione fiscale”, gli spiegò con soddisfazione, ma la sua voce lasciava pure intendere quella che l’italiano percepì come una nota di nostalgia. Il collega, un po’ stupito e un po’ divertito, annuì e rientrò. Il primo sorvegliante, invece, ne approfittò per scambiare due chiacchiere con l’italiano, dopo che questi gli domandò se aveva vissuto in Italia, visto che conosceva il codice fiscale e sosteneva di averne avuto uno, oltre a parlare perfettamente la lingua. “Oh, sì. Sono stato dieci anni a Pavia, dove ho lavorato e ho acquistato casa. Ho pure fatto un mutuo, perché l’Italia mi è sempre piaciuta, e un giorno voglio ritornare a casa mia. A Pavia, voglio dire”, specificò, sorridendo. “Come mai è a Parigi?”, chiese allora l’italiano. “Eh, che vuole, è la crisi, io mi occupavo di spedizioni e la ditta per la quale lavoravo è fallita. Si faceva fatica a trovare un altro lavoro buono come quello, sa, ne ho fatti diversi, anche due contemporaneamente, perché lavorare mi dà soddisfazioni, ma con la crisi ho deciso di andarmene, di trasferirmi in Francia. Qui a Parigi trovare lavoro è facile”, face una piccola pausa e sorrise di nuovo: “Sa, i francesi non hanno tanta voglia di lavorare, non sono abituati a lavorare come in Italia”. L’italiano non sapeva se, di fronte a una tale confessione gli venisse restituita con grande naturalezza un’evidenza indiscutibile o, semplicemente, un punto di vista del tutto soggettivo che, in quanto testimonianza vissuta, possedeva il valore di verità che si può attribuire alle esperienze individuali. O se, ancora, era un modo per corrispondere a un pregiudizio che, forse, il sorvegliante sapeva essere comune tra gli italiani del settentrione, una specie di immagine stereotipata nella quale amano rispecchiarsi. Quale che fosse il senso di quella frase, l’italiano trovò però l’ambiguità felice e, con essa, tutto il senso di una specie di appartenenza comune tra sé e il sorvegliante che mai avrebbe potuto immaginare quando, pochi istanti prima, aveva varcato la soglia dell’ingresso. Se non avesse dovuto cercare il luogo dell’appuntamento all’interno dell’edificio, varcare il giardino, e individuare la sala in cui si sarebbe dovuto trovare di lì a pochi minuti, forse sarebbe rimasto volentieri a parlare con il sorvegliante, tanto più che costui dava l’impressione di gradire molto la sua presenza. “Ah, e si trova bene a Parigi?”, rilanciò allora l’italiano, sapendo che di lì a poco avrebbe dovuto interrompere quella strana conversazione. “Ah sì, qui la vita è meno complicata”, confessò il sorvegliante. “Poi ho molti amici, i quali mi hanno invitato qui quando hanno saputo che avevo delle difficoltà con il lavoro in Italia”. “Ed è qui da molto?”, chiese l’italiano. “Quasi un anno, ed è poco rispetto ai dieci anni a Pavia. Però là ho il mutuo, la mia casa, e un giorno ci ritornerò. Anche se qui ho gli amici, faccio questo lavoro a tempo indeterminato e – lo sa? – ne ho trovato pure un altro a part-time per il weekend. No, non è difficile inserirsi a Parigi, a parte un po’ la burocrazia, e i prezzi degli affitti”, disse. “E poi”, aggiunse, “per noi ivoriani in Francia non c’è neppure il problema della lingua”, così disse il sorvegliante all’italiano. “Ma lei è venuto per la conferenza, vero? Non la voglio trattenere. E poi io devo tornare al mio posto di lavoro. È stato un piacere parlare con lei”. “Piacere mio”, disse l’italiano al sorvegliante. “Arrivederci”, lo salutò, e sorrise di nuovo. [rk]

Vi sono giorni lievi

Vi sono giorni lievi: il tremolare

Della marina, il vaporante lido,

E l’aria stessa, il fulvo sole

Del mattino, ci illudono di sempre.

Sorge una pigra nuvola silente,

Il monte ripercuote il grido

D’ignoti uccelli o d’uomini silvestri,

Il pianto della tortora,

Il lamento piovorno del rigogolo,

Il suono d’alba dei campani

Dagli stazzi montani.

Dunque sarà per noi benigno il tempo?

Ci sarà, almeno, amico questo giorno?

– No: scolma appena il sole,

E già le presentite ombre ci tengono,

Ci persuadono del mai.

T. Landolfi

La memoria senza rancore

Quando Francesca Melandri — il successo del suo bellissimo libro «Eva dorme» è stato ricordato ieri da Toni Visentini su queste pagine — prova a sintetizzare con una formula il senso raccolto dalle testimonianze dei suoi lettori, generalmente parla di «assenza di rancore». Alla fine, lei dice, chi ha attraversato quelle pagine si dichiara colpito da questo: i personaggi che animano le vicende umane e storiche descritte riescono a testimoniare un processo di affrancamento dal dolore, a trasmettere una visione pacificata delle difficoltà e persino dei drammi accaduti. Se meglio compreso nella sua controversa dinamica, il passato può così allentare la sua presa ed emanare un odore nuovo, certo più gradevole del sentore di «rancido» (rancorem era l’odore disgustoso delle sostanze oleose vecchie andate a male) che talvolta ci toglie il gusto e il profumo del futuro.

Si potrebbe obiettare: facile liberarsi dal rancore se non si è direttamente sofferto in prima persona. Facile sorvolare il paesaggio accidentato del dolore attraverso una ricostruzione che può permettersi di immedesimarsi con ogni singolo protagonista perché non si è effettivamente provato sulla propria pelle che cosa significa aver subito un torto, aver perso un congiunto, non essere riusciti a ottenere un risarcimento soddisfacente per le ferite che qualcun altro ci ha inferto. Si tratta di obiezioni comprensibili. Sarebbe però un errore gravissimo lasciare che esse consumino tutto lo spazio e il tempo di ogni nostra possibile reazione. Se forse non abbiamo il diritto di chiederlo agli individui (che pure possono riuscirci autonomamente come dimostrano le toccanti e nobili parole di Pietrina Falqui, sorella di un finanziere ucciso nel 1956, intervistata ieri dal nostro Matteo Pozzi), è invece «vitale» chiederlo al movimento e all’intelligenza complessivi della nostra società, in modo da frapporre un’accettabile distanza tra il «noi» implicato e dannato da quelle vicende lontane e il «noi» che dobbiamo salvare per poter guardare avanti con un po’ di fiducia.

Avvicinandoci alla data dell’11 giugno — quando ricorrerà il cinquantesimo anniversario della «Notte dei fuochi» — mi sembra giusto evidenziare il tema dell’assenza di rancore auspicando che ciò costituisca la tonalità affettiva, lo sfondo emotivo di ogni ricostruzione, intervento o discussione sull’argomento. Non si tratta di «dimenticare» assolutamente alcunché di quel che è accaduto. Non si tratta di smettere di ricercare responsabilità ed eventualmente di attribuire delle colpe (purché si sia disposti a non manifestare indulgenza nei confronti delle proprie). Ripetiamolo: si tratta soltanto di farlo senza più rancore.

Corriere dell’Alto Adige, 19 maggio 2011

In questi tempi bui

Sì, in questi tempi bui – ce ne sono stati forse di più bui, dite? Può darsi, ma allora questi come li dovremmo definire? – andiamo alla ricerca di piccole luci come l’affamato che raccoglie perfino le briciole lasciate su un tavolo. C’è un blog, ho cominciato a seguirlo da un po’ di tempo, al quale vorrei davvero rimandare tutti coloro che magari hanno persino rinunciato a mangiare quelle briciole, tutti coloro che in questo buio pensano non sia più possibile aspettarsi tracce di luce. Beh, leggete questo post (> link) e fatelo brillare per un po’ dentro di voi.

I test non sono una terapia

In questi giorni anche le scuole della nostra regione sono raggiunte dallo sciame delle prove Invalsi, l’Istituto per la valutazione del sistema scolastico nazionale. Si tratta, come dovrebbe essere noto (ma davvero lo è?), di test standardizzati – qualcuno, sbagliando aggettivo e con ciò creando non poca confusione, li definisce “oggettivi” – introdotti per misurare conoscenze e competenze degli alunni. Il sistema tiene essenzialmente conto della variabile temporale, essendo infatti somministrati due volte,  all’inizio e alla fine dell’anno scolastico. Sono quindi concepiti al fine di valutare il progresso dei processi di apprendimento secondo una chiave tendenziale.

Siccome però in Italia tutto, o comunque moltissimo, diventa oggetto di polemiche tra “tifoserie” avverse, anche riguardo a questo argomento si è scatenata una rissa tra fautori e denigratori. Situazione aggravata dal fatto che molta veemenza argomentativa viene spesa in modo inversamente proporzionale al grado di conoscenza delle finalità concretamente raggiungibili da questo tipo di prove. In un ottimo articolo pubblicato qualche tempo fa sul sito “lavoce.info” (> link ), Alberto Martini ha scritto: “I test scolastici sono come quelli clinici, servono a identificare patologie, debolezze, carenze. Ancora di più assomigliano agli studi epidemiologici perché identificano problemi a livello collettivo, e non a livello del singolo paziente, pur richiedendo dati sui singoli pazienti”. Sarebbe dunque vano attendersi dai risultati un effetto risolutivo a proposito dell’annosa querelle “meritocratica” legata a individualità responsabilizzabili in modo puntuale e meccanico: se i test vanno bene allora si promettono finanziamenti e lodi, se vanno male si paventano tagli e rampogne. Purtroppo, però, quando se ne discute è di questo che si discute.

Sottolinea ancora Martini: “Test clinici e scolastici condividono un’altra caratteristica: hanno senso se c’è la volontà di curare il paziente una volta individuato un problema, non di colpevolizzarlo o peggio di punirlo”. Questa frase può essere completata da un corollario: anche qualora i test non evidenziassero particolari problemi – o magari facessero registrare miglioramenti sensibili rispetto ai risultati ottenuti in precedenza, non di rado conseguiti dopo che gli alunni sono stati “addestrati” a risolverli – un certificato di buona salute scolastica dipenderà sempre e comunque dall’esame di tutti gli altri fattori che il test non può contribuire a individuare (e non sono ovviamente pochi). L’importante sarebbe cominciare a mantenere la scuola all’interno di un cerchio di riflessione e monitoraggio non episodico e parziale, dotandola dei mezzi, in primo luogo economici e umani, dei quali essa ha realmente bisogno. In questo la nostra autonomia speciale può essere utilizzata con un’ottica illuminata.

Corriere dell’Alto Adige, 12 maggio 2011

D’esempio ai giovani

Nella sua ormai famosa interrogazione parlamentare contro il blogger GattoMur, Giorgio Holzmann aveva scritto: “ciascun cittadino è libero di esprimere le proprie valutazioni ed opinioni politiche in ciascun ambito della propria vita di relazione; per alcune categorie di dipendenti pubblici tale diritto dovrebbe [però: ndr] contemperarsi con la delicatezza di particolari funzioni svolte, ad esempio magistrati e insegnanti”. Evidentemente, per tutti gli altri la libertà d’espressione può essere garantita senza particolare riguardo alla delicatezza delle particolari funzioni svolte. Prendiamo per esempio il Presidente del Consiglio attualmente in carica. Si tratta di un magistrato? No. Si tratta di un insegnante? Neppure. Quindi ecco che egli può tranquillamente definire i pubblici magistrati di Milano un cancro, quelli di Napoli una discarica e può diffamare i parlamentari che non stanno con lui qualificandoli come alieni puzzolenti. “Davvero gli italiani meritano questo trattamento?” si chiedeva oggi con legittimo sgomento Michele Ainis sul Corriere. Evidentemente sì. Se lo meritano. Del resto il Presidente del Consiglio mica deve dare l’esempio ai giovani o alle giovanette….

Su Giorgio Holzmann (a freddo)

Ho voluto far passare un po’ di tempo, prima di esprimermi ancora una volta su una vicenda piuttosto incresciosa accaduta la scorsa settimana, protagonisti il parlamentare altoatesino Giorgio Holzmann e l’amico Gianluca Trotta, alias GattoMur. Molti ne hanno già scritto, sia in rete che sui quotidiani (in particolare vorrei citare qui l’ottimo lavoro svolto dai giornali per i quali mi pregio di collaborare, Il Corriere del Trentino e il Corriere dell’Alto Adige). Non riassumo i fatti (chi ne ha voglia può consultare il link in calce a questo articolo che contiene una esaustiva e puntuale documentazione). Aggiungo solo qualche mia brevissima considerazione personale.

Il tentativo di tappare la bocca a una voce libera mediante il ricorso a un’istanza così spropositatamente superiore (arrivando a scomodare l’istituto dell’interrogazione parlamentare, che davvero dovrebbe essere destinato a cause più nobili) ha messo in luce – se ce ne fosse ancora bisogno – quale sia il vero volto di chi  si nasconde dietro il vessillo di una parte politica intitolata al culto (ma in realtà si tratta solo di propaganda) della libertà. Credo di non sbagliarmi se la ricostruzione della genesi di un simile gesto sia questa: un attore politico d’infimo ordine, evidentemente mosso da antipatia o fastidio personale nei confronti di Gianluca, ha “attenzionato” (termine noto nel gergo di chi pratica il cosiddetto “metodo Boffo”) il parlamentare affinché egli agisse in modo censorio (e al più alto livello) contro una persona “rea” di esprimere – in modo acuto e brillante – un parere contrario all’indirizzo prevalente del governo nel quale tutte queste persone si riconoscono. Si tratta, né più né meno, di un tentativo d’intimidazione. La reazione di unanime condanna che questa azione ha causato in chi ha ancora a cuore il senso più profondo dell’indipendenza di giudizio e dell’autonomia della propria attività intellettuale ci lascia ancora sperare che operazioni del genere ottengano esattamente il contrario di quanto auspicato dai loro estensori (speranza già esaudita: in questi giorni il blog GattoMur è stato subissato di messaggi e attestati di solidarietà, totalizzando un elevatissimo numero di visite). In altre parole: noi non ci lasciamo intimidire. E con serena coscienza continueremo a raccontare le cose che vediamo (anche attinenti alla politica poco edificante della quale siamo purtroppo testimoni) senza occultare il nostro punto di vista e senza abdicare alle nostre idee.

http://lucamarcon.wordpress.com/2011/05/09/il-deputato-del-pdl-giorgio-holzmann-e-il-mondo-della-scuola-dal-professore-blogger-allimparzialita-dei-libri-di-testo-scolastici-passando-per-la-difesa-dellidentita-culturale-cristiana-nella-scu/