Terra nostra

Quando il fascismo apprezzava i contadini sudtirolesi. Una nuova ricerca chiarisce un grande equivoco a lungo operante nella percezione dei fatti storici.

Lo storico bolzanino Andrea Di Michele ha appena pubblicato un volume molto documentato (“Terra italiana. Possedere il suolo per assicurare i confini: 1915-1954”, edizioni Laterza, pagine 264, Euro 24) che ricostruisce non solo i propositi di conquista, ma anche le oscillazioni e le sfumature nel rapporto che il regime di Mussolini intrattenne con il mondo rurale locale.

Il libro focalizza un periodo che eccede i confini storici del fascismo (1922-1943), arretrando la trattazione fino al 1915 ed estendendola fino al 1954. Perché questa scelta?

Dal punto di vista cronologico, al centro dell’analisi vi è il Ventennio fascista, ma a me premeva sottolineare gli elementi di continuità con il discorso del nazionalismo e dell’irredentismo dei decenni precedenti, nonché la permanenza di quegli stessi temi e linguaggi almeno fino alla prima fase dell’Italia repubblicana.

In che modo il riferimento alla terra, intesa nel senso di “suolo” da possedere e coltivare, acquisisce in questo quadro spessore?

Il tema della terra, del possesso della terra, è centrale nel pensiero del nazionalismo, non solo italiano, ma europeo. Negli anni Venti, il fascismo consente inizialmente a questo nazionalismo di mettere in pratica parte della propria visione politica. La parabola di Tolomei, un tipico nazionalista appunto, è indicativa, con il suo ruolo centrale nell’elencare i provvedimenti da prendere per italianizzare l’Alto Adige all’inizio degli anni Venti. Il libro mostra poi come almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, la Presidenza del Consiglio e l’Ente nazionale per le Tre Venezie si preoccupino di utilizzare in chiave nazionale quel pacchetto di beni agricoli acquisiti a seguito delle opzioni. Si dice chiaramente che vanno mantenuti in mano italiana, che vanno ceduti solo a italiani ma anche – e questa è una precisazione assai interessante – ai “Dableiber”. Al possesso della terra si continua ad assegnare un ruolo essenziale per marcare il più generale possesso del territorio.

Se parliamo di terra, nel senso suddetto, evochiamo anche il concetto di “sangue”. La ricerca, però, tende a ridurre l’interpretazione “razzista” se applicata nel descrivere l’atteggiamento del regime nei confronti della popolazione sudtirolese.

Ho richiamato il ruolo svolto dai Dableiber proprio per differenziare. Una visione ideologica è razzista se produce un discorso che naturalizza alcune caratteristiche reali o presunte in base alle quali determinati soggetti sono distinti dal resto della popolazione e discriminati. Ciò significa che, essendo naturali, le caratteristiche negative saranno inevitabilmente trasmesse ai discendenti, e ciò può spingere a toccare gli abissi della pulizia etnica. Qui non avviene, perché i sudtirolesi, ovviamente a condizione che approvino il governo al quale sono sottoposti, possono e devono diventare italiani.

Come si esplica in concreto questo programma, chiamiamolo così, di “inclusione”?

Lo potrei illustrare con un esempio, un caso avvenuto in Valle Aurina e del quale parlo anche nel libro. In una famiglia, un fratello opta per la Germania e parte vendendo all’Ente Tre Venezie una quantità considerevole di beni; la sorella sceglie l’Italia e comprerà lei tutti i beni dal fratello acquistandoli dall’Ente con uno sconto importante. Alla fine i beni restano quindi nelle mani della stessa famiglia e lo Stato ci rimette parecchi soldi. Così come gli speciali provvedimenti adottati nel 1938 a favore di giovani sudtirolesi iscritti al partito, anche le misure a beneficio dei Dableiber a partire dal 1940 sembrano rivelatrici di una concezione nuova dell’italianità, dai confini mobili, capace di espandersi per inglobare soggetti prima considerati anche solo parzialmente estranei. E si tratta di rimescolamenti che durano: anche dopo il 1945 la Repubblica non si limita a vendere i beni terrieri in proprio possesso solo a italiani. In Alto Adige, insomma, non si concretizzarono mai neppure lontanamente pratiche di segregazione come quelle in uso nelle colonie africane, ma anche al confine orientale, nella Venezia Giulia, volte a mantenere rigorosamente separati gli italiani dagli “altri”.

Tali aperture hanno a che fare con un apprezzamento del mondo rurale sudtirolese e la valutazione chiaramente positiva della figura del “Bauertum”?

Sì, in effetti il mondo rurale sudtirolese viene costantemente apprezzato e lodato dal fascismo. Lo si apprezza perché conservatore, religiosissimo, attaccato alla terra, ai valori della tradizione e delle gerarchie sociali e anche rispettoso delle autorità. Si possono portare numerosi esempi di tali lodi, anche in una delle riviste più importanti del regime, “Gerarchia”, diretta (almeno ufficialmente) da Benito Mussolini.

Quindi non è vero, come spesso si afferma, che il fascismo puntasse a smantellare le istituzioni culturali di quel mondo?

Anche in questo caso bisogna differenziare, sfatare alcuni miti consolidati. Prendiamo per esempio un istituto come il maso chiuso, formalmente abrogato con l’estensione del codice civile italiano alle nuove province avvenuto solo nel 1928, ma di fatto ancora in vigore per la prassi ereditaria scelta dalle famiglie sudtirolesi. Esso viene reputato positivo sia perché aveva evitato lo spopolamento montano, piaga avvertita già allora in tutte le zone di montagna d’Italia, sia perché crea un’agricoltura produttiva, garantendo il sostentamento della popolazione, pure in condizioni ambientali difficili. Sono diversi i tecnici agricoli vicini al regime che propongono un suo ripristino formale, e addirittura la sua estensione alle altre zone montane italiane. Quell’ordinamento giuridico segnalava un elevato grado di solidarietà sociale e il superamento di visioni individualiste, secondo un’impostazione che non poteva che essere gradita alla visione organicista del fascismo, il cui obiettivo era dare vita a un organismo nazionale compatto e omogeneo, in cui l’individuo doveva mostrarsi completamente subordinato agli interessi dello Stato, unico interprete dei veri interessi della nazione.

Adottando tale prospettiva, è possibile scorgere elementi di continuità anche oltre il limite temporale tracciato dal libro?

Oggi la situazione è molto diversa e il peso del settore primario molto minore. Ma nella nostra realtà provinciale non è certo diventato irrilevante. Pensiamo alla forza politica dei contadini, al loro segno lasciato nel partito di raccolta sudtirolese. Anche il turismo, con la sua forza economica, fa leva sul mondo tradizionale della campagna. È proprio la moderna comunicazione del marketing territoriale a proporre il maso e l’integrità delle usanze da esso rappresentate come elementi di attrazione.

Gettiamo uno sguardo alle prossime elezioni provinciali: ciò può forse contribuire a spiegare perché anche la consolidata opinione sull’impossibilità di concepire un’alleanza tra il partito della Svp e la destra italiana, anche quella d’ascendenza più nazionalista, abbia un’origine più mitologica che effettiva?

Credo di sì. Parliamo di due universi conservatori, che hanno un orizzonte valoriale molto vicino, che si intendono, che mettono al centro gli stessi riferimenti: la tradizione, la conservazione delle gerarchie e degli equilibri sociali, l’ordine, con una forte sensibilità per gli interessi economici. In un momento in cui le divisioni etniche non sono troppo accese, due universi speculari che usano due lingue diverse per dire cose molto simili si possono avvicinare.

ff – 21 settembre 2023

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