Tu conti, slogan ipocrita

Da qualche settimana si sta svolgendo nella nostra provincia il cosiddetto “censimento dei gruppi linguistici”. Si tratta, come noto, di una rilevazione periodica utile “a calcolare la composizione percentuale dei tre gruppi linguistici in Alto Adige” al fine di regolare “molti aspetti della convivenza e della tutela delle minoranze, come la distribuzione dei posti di lavoro nel pubblico impiego, dei fondi provinciali e la rappresentanza negli organi collegiali della Provincia”. A tale rilevazione, e con ciò terminano le principali notizie al riguardo, si può già partecipare online, oppure – dopo il 29 febbraio 2024 – anche venendo contattati direttamente per compilare la dichiarazione cartacea. Il 30 di giugno l’intero procedimento sarà concluso.

Assolto così il compito di fornire le indicazioni più neutre e sommarie, resta però da fare qualcosa che, a quanto pare, non va più tanto di moda: capire a fondo il senso di quello che ci viene richiesto. Lo spunto ce lo fornisce lo slogan, a giudizio di chi scrive abbastanza ipocrita, scelto per lanciare e sostenere il censimento del quale stiamo parlando: “Tu conti”. Vorrei che il termine “ipocrita” venisse qui compreso secondo l’etimo, che rimanda alla parola greca hypocrites, dal significato di “attore” o “dissimulatore”. Così lo spiega il vocabolario Treccani: “Chi parla o agisce con ipocrisia, fingendo virtù, buone qualità, buoni sentimenti che non ha, ostentando falsa devozione o amicizia, o dissimulando le proprie qualità negative, i propri sentimenti di avversione e di malanimo, sia abitualmente per carattere, sia in particolari circostanze, e sempre al fine di ingannare altri, o di guadagnarsene il favore”.

Perché lo slogan “Tu conti”, allora, sarebbe uno slogan ipocrita? Se qualcuno ci dice “Tu conti” potremmo intendere fondamentalmente due cose distinte. O ci riferiamo all’azione del mero contare (1, 2, 3…), della quale saremmo i non utilissimi protagonisti, oppure il “contare” significa essere considerati qualcosa di molto speciale, come se, insomma, si esprimesse un caldo apprezzamento delle nostre qualità peculiari. Ora, potremmo persino illuderci di essere davvero così benvoluti dall’amministrazione provinciale, ma a me sembra piuttosto palese che in quel “Tu conti” per prima cosa non siamo noi quelli che contano, dato che, per quanto concerne le nostre qualità peculiari, l’unica cosa che conta, al contrario, è solo la lingua che dobbiamo decidere di scegliere (e dichiarare) per avere in cambio tutte le belle cose previste del meccanismo proporziale. Un meccanismo cioè che, in cambio dei suoi doni, riduce la nostra personalità, il nostro stesso essere, a fornire maggiore o minore peso alla consistenza dei gruppi linguistici. Per questo, nell’occasione, noi contiamo, ma solo per essere contati, e garantire al sistema la sua sopravvivenza.

Come dicevo, oggi non va più tanto di moda esaminare in modo critico il sistema che ci contraddistingue. A proposito della proporzionale (un dispositivo che avrebbe dovuto essere dismesso due decenni fa) non sentiamo più levarsi grandi lamentele, e per quanto riguarda il censimento – al netto anche delle varie modifiche introdotte, bisogna riconoscerlo, che ne hanno smussato via via gli aspetti più urticanti – saremmo sorpresi di leggere come in passato (a partire da quello del 1981, che rischiò sul serio di schiantare la società sudtirolese mediante polemiche infuocate) la materia fornisse invece il destro per animare due visioni completamente diverse dell’autonomia: la prima, ormai quasi per intero sfumata, orientata da una lettura più territoriale, quindi non così focalizzata sulla frammentazione etnica dei suoi abitanti; la seconda, rivelatasi vincente e ormai data per scontata, in cui la predominanza delle logiche di gruppo, vale a dire la spartizione (o nel linguaggio ipocrita visto sopra all’opera: la distribuzione) delle rispettive sfere d’influenza, viene intesa come l’unica cornice possibile in cui vivere e prosperare. E per chi volesse approfondire storicamente la questione, si rimanda al bellissimo libro di Maurizio Ferrandi “I giorni delle gabbie” (Edizioni alphabeta Verlag 2021).

Chiudo con una domanda, rivolta soprattutto a me stesso. Ha ancora senso interrogarsi sulla bontà di questo sistema, vale la pena irritarsi per l’ipocrisia contenuta in quel “Tu conti”, magari immaginando, nella consapevolezza di contare in realtà pochissimo, di esercitare un moto di ribellione, il diritto a sottrarsi a questa ennesima conta? In assenza di un progetto di autonomia alternativo (e anzi: davanti alla concreta prospettiva di vederne cementificare prossimamente tutte le prerogative più caratterizzanti e isolazioniste), considerando che sul tema non si esercita ormai neppure un briciolo di apprezzabile riflessione, vedendo soprattutto come più o meno tutti si sono assuefatti a fingere di spacciarsi persino per quello che non sono (persone nate da famiglie mistilingue che scelgono l’identità che conviene di più, cinesi, albanesi e pachistani che si aggregano sorridendo al gruppo tedesco, italiano o ladino…), ergersi a contestatari delle magnifiche sorti etniche e progressive non ha il sapore di un sussulto, se non proprio sciocco, sicuramente velleitario?

Corriere dell’Alto Adige, 28 dicembre 2023

Calvino, scoiattolo umano

Leggerezza, comicità, capacità di mettere in dubbio le nostre certezze: le principali qualità di un autore ancora imprescindibile.

L’anno che si sta chiudendo ha fornito l’occasione per riflettere sulla figura di Italo Calvino (1923-1985), uno dei più significativi scrittori del Novecento, ben oltre i confini nazionali. Abbiamo chiesto allo scrittore e insegnante Giovanni Accardo di aiutarci a comprendere qual è il suo tratto caratteristico e perché, soprattutto oggi, sarebbe necessario mettere a frutto la sua lezione.

Basandosi solo sull’esame del primo romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947), Cesare Pavese qualificò in modo fulminante Calvino come “uno scoiattolo della penna”. Si tratta di una definizione in qualche modo adatta a sorvolare tutta la sua produzione, mobilissima e per molti versi spiazzante?

Effettivamente esistono tanti Calvino, legati ai diversi momenti storici e culturali della sua avventura letteraria. Quello della stagione partigiana, quello degli anni del boom economico e della critica alla società dei consumi, il Calvino che fonde insieme romanzo storico, avventura e fantastico e quello, auspice il soggiorno parigino e l’incontro con gli scrittori dell’Oulipo, che si diverte a smontare e ricombinare i testi. Esiste poi il Calvino che indaga le possibilità di conoscenza del reale e della lingua con cui esprimerlo, il Calvino editore, il reporter, il saggista, persino l’autore di canzoni.

È tuttavia possibile individuare una specificità calviniana, un suo tratto caratteristico, che arieggia in tutta questa prismatica attività?

Ad accomunare tutti questi momenti direi che c’è la leggerezza, sia ideologica sia linguistica, come d’altronde si legge all’inizio della prima delle sue Lezioni americane, libro uscito postumo nel 1988: «La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».

Il tema della leggerezza potrebbe farci immaginare l’esistenza di una ipotetica Ligne-Calvino, formata da antecedenti e successori?

Se per antecedenti intendiamo gli autori che l’hanno formato, l’elenco sarebbe davvero molto lungo. Il primo che mi viene in mente, comunque, è sicuramente Ariosto, oggetto anche di una sua monografia divulgativa: Orlando Furioso è un’opera fondamentale, sia per la presenza dell’ironia, sia per la molteplicità delle avventure e dei piani narrativi. Avvicinandoci ai nostri tempi, Carla Benedetti focalizzò per esempio in un brillante saggio lo “scontro” tra Pasolini e Calvino proprio cercando di capire chi, tra loro due, ha lasciato un segno maggiore nella storia letteraria, oltre che in quella civile, e sicuramente Pasolini vince, basti pensare a scrittori come Saviano e Murgia. Sono stati poi accostati a Calvino il primo Andrea De Carlo e Daniele Del Giudice, che in qualche modo tenne a battesimo, e forse si potrebbe aggiungere Gianni Celati, per l’importanza dello sguardo.

Sempre muovendo dal richiamo alla leggerezza, alla sottrazione di peso, sulla rivista Fillide lei hai scritto un saggio che esplicita il ruolo del “comico” nella scrittura calviniana.

Sì, ritengo che dall’inizio alla fine il comico connoti la sua narrativa e possa costituire un’altra utilissima bussola per orientarci in una produzione che sembra quasi divertirsi a cancellare, dopo averli rapidamente accennati, i punti di riferimento. Non a caso, in un saggio del 1967, poi raccolto nel volume Una pietra sopra (1980), leggiamo: «Quel che cerco nella trasfigurazione comica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità di ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio».

Che tipo di comicità, allora, è quella prediletta da Calvino per rendere tale complessità e contradditorietà del mondo?

Evidentemente l’ironia e il grottesco sono i modi che hanno più rilievo nella sua scrittura, piuttosto che la ricerca di un effetto per così dire carnoso della risata. Forse si può indicare il comico di Calvino come un comico ridotto, perché prende avvio da una doppia elisione: da un lato quella della corporeità, dall’altro quella dell’aggressività polemica della satira, preferendo piuttosto la dissacrazione o la parodia. È una sorta di porta nascosta verso il tragico e il patetico, perché quello che gl’interessa non è tanto far ridere o sorridere, quanto favorire una migliore padronanza della tensione emotiva e intellettuale, insegnare a trattare il pensiero in maniera più critica.

Ironia, dissacrazione, parodia e criticità (per non dire autocriticità) non sembrano strumenti molto praticati o apprezzati, se ci guardiamo intorno…

In questi giorni, seguendo la vicenda dell’omicidio di Giulia Cecchettin e il dibattito sulla violenza di genere, mi è venuto in mente uno dei racconti di Palomar (1983), “Il seno nudo”, dove il tentativo di trovare il giusto punto di vista per osservare una bagnante che prende il sole senza costume, un punto di vista che non sembri moralistico ma neanche offensivo, capace di apprezzare la bellezza del corpo femminile senza risultare molesto, che «garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone», si conclude con il fallimento. Infatti, Palomar prova a fare in modo che il seno venga assorbito completamente dal paesaggio, ma subito teme che in questo modo trasformi il corpo femminile in oggetto, comportandosi da vero maschilista. In questo continuo andirivieni sulla spiaggia, anche la sua riflessione fa avanti e indietro da un proposito all’altro, da una possibilità all’altra, finché la ricerca di uno sguardo che sia distaccato ma al tempo stesso amorevole, finisce per irritare la bagnante, che, scocciata, si alza di scatto, si ricopre e va via. Calvino è così: abbina sempre comico e conoscenza, leggerezza e domande sulla realtà.

Un tempo Calvino era molto presente nelle letture, anche precoci, che si facevano a scuola (penso a Marcovaldo o alla cosiddetta Trilogia degli antenati). È ancora così?

Per fortuna Calvino è ancora molto vivo in ambito scolastico. Nella prima settimana di settembre, insieme ad alcune colleghe, sono stato a un corso di aggiornamento all’Università di Bologna, intitolato “Insegnare Calvino”, c’erano più di 200 insegnanti provenienti da tutto il Nord Italia, proprio perché Calvino si fa leggere sia alla scuola media che a quella superiore. Ad esempio una mia classe l’anno scorso ha fatto un progetto multidisciplinare, in collaborazione con l’Università di Bolzano, a partire da Le città invisibili. A febbraio verrà nel mio liceo [Liceo delle Scienze Umane e Artistico “Pascoli”, ndr] uno dei massimi studiosi di Calvino, Domenico Scarpa – quest’anno in libreria con il possente testo, pubblicato da Hoepli, “Calvino fa la conchiglia” – che incontrerà dodici classi, i cui studenti hanno letto diversi libri dello scrittore.

Dovesse invece pensare a un lettore adulto curioso – magari non di madrelingua italiana, comunque in suo possesso – quale opera di Calvino suggerirebbe?

Suggerirei La giornata di uno scrutatore (1963), intanto perché è abbastanza breve, poi perché è un romanzo di domande e a me piace la letteratura che instilla dubbi, che costringe a riflettere. Esattamente come accade al protagonista di questo libro, militante del PCI, chiamato a fare lo scrutatore al Cottolengo di Torino: esce di casa all’alba con le sue certezze ideologiche e torna a casa la sera carico di perplessità e domande, soprattutto su cos’è l’umano. In un’epoca di crescente disumanità, mi pare un atteggiamento necessario.

ff – 14 dicembre 2023