Non leggete Bruno Vespa

Una persona che entra in libreria per comprare Bruno Vespa si comporta allo stesso modo di un acquirente che, in pescheria, anziché scegliere del pesce fresco chieda due kg di teste marce, squame putride e cozze avariate per intossicare i suoi ospiti. Bruno Vespa rappresenta la pattumiera del giornalismo italiano. Una pattumiera che viene sparsa con abbondanza in televisione, per radio, in rete, ovunque sia possibile massimizzare il tanfo insopportabile e ineliminabile che si leva dalle pagine dei suoi libri. Una persona che esce da una libreria con in mano la sua bella copia di Bruno Vespa è un pericolo pubblico, un nemico della verità, un potenziale avvelenatore del discorso pubblico, uno jihādista che sta per far saltare in aria l’intelligenza di chiunque abbia la sventura di incrociarlo. Nessuno può salvarsi, al cospetto di un libro di Bruno Vespa. Anche se in realtà nessuno legge poi un libro di Bruno Vespa – quelli che cominciano non vanno mai oltre le prime dieci righe, o si fermano addirittura alle note di copertina -, già il possedere un libro di Bruno Vespa, già il deporlo su un tavolo del salotto, su una scrivania dello studio, su una mensola, su un comodino della propria abitazione, già questo semplice avere a che fare con un libro di Bruno Vespa squalifica il possessore del libro di Bruno Vespa e l’avente a che fare con questa traccia di Bruno Vespa come un personaggio dal quale è obbligatorio tenersi alla larga, un personaggio che deve essere considerato quindi definitivamente corrotto e completamente inservibile ai fini di qualsivoglia confronto, di qualsivoglia controversia, di qualsivoglia interlocuzione. I libri e il giornalismo di Bruno Vespa sono pattumiera di stato, pattumiera che fa status, e perimetrano la vergogna del Paese in cui qualcosa come Bruno Vespa può impunemente (anzi: con grande successo) scrivere e vendere le proprie deiezioni stampate.

Scomparsi nello schermo

Strade e baite piene, aule vuote. È con questo slogan – impressionistico quanto si vuole, ma basato su una osservazione innegabile dei fatti – che la prima parte del nuovo anno scolastico, finora disgraziato al pari del precedente, si avvia a sfumare davanti alle porte delle vacanze natalizie. I proclami di fine estate sono evaporati al cospetto della dura realtà epidemiologica. L’aumento del livello di contagio, peraltro lievitato senza che la scuola vi contribuisse in modo inequivocabilmente accertabile, ha fatto prevalere considerazioni intonate alla prudenza. Resta comunque una duplice sensazione di amaro in bocca. La prima dovuta al fatto che sia stato proprio il mondo dell’istruzione, e della trasmissione culturale in genere (pensiamo anche ai cinema, alle biblioteche, ai teatri), uno dei settori più colpiti da misure di prevenzione che altrimenti, cioè in altri ambiti, si sono dimostrate ben più ondivaghe, contraddittorie e persino lasche. La seconda sensazione spiacevole è legata alla spossatezza crescente provata sia dai docenti che dai discenti costretti a ricorrere alla didattica a distanza.

A quest’ultimo proposito è importante non dare per scontata un’acquisizione di fondo alla quale, si spera, nessuno vorrà più oppore argomentazioni ignare dei reali processi di insegnamento e apprendimento: le lezioni in presenza, specialmente in quelle fasce di età non caratterizzate da un atteggiamento autonomo nei confronti dell’assimilazione del sapere, sono sempre da preferire, e tutti vorremmo che venissero ripristinate il prima possibile. Costretti a sospenderle, o comunque a limitarne in modo cospicuo la fruizione, si evidenziano infatti aspetti di sofferenza sui quali sarebbe pericolosissimo sorvolare, ritenendo che possano essere semplicemente diluiti dalla retorica della necessità o, peggio, dai “vantaggi” offerti dalla mediazione tecnologica.

Il danno maggiore causato dalla didattica a distanza si esprime in un elevato, e spesso intollerabile, aumento della solitudine di chi vede restringersi il campo dell’esperienza interattiva a un mero espediente di saturazione del tempo trascorso “in connessione”. Ed è la natura restrittiva del non luogo dal quale (e al quale) si parla a causare la distruzione stessa delle relazioni che si vorrebbero preservare. Preservazione illusoria, giacché basata su un effetto di alienazione e derealizzazione che ci porta a scomparire proprio là sullo schermo, dove crediamo di apparire. Non è un caso che alcuni istituti siano stati parzialmente riaperti per consentire ai ragazzi che ne avevano bisogno – incapaci di trovare “a casa” un minimo di concentrazione – di usare le aule, ancorché vuote, almeno come localizzazione di un’auto-percezione in dissolvimento. Non si può, insomma, apprendere qualcosa in astratto, ma soltanto trasferendoci in un ambiente fisico che ci consente di fare ciò che vorremmo davvero fare. Quando ciò sarà di nuovo possibile, priorità che dovrebbe essere avvertita da tutti, non fingiamo che le conseguenze di questo terribile periodo spariscano con un semplice colpo di spugna.

Corriere dell’Alto Adige, 17 dicembre 2020

Lo sguardo lungo di Lidia

Lidia Menapace

Tra i vari meriti ricordati dai commentatori a proposito di Lidia Menapace, scomparsa lunedì all’età di novantasei anni, non si è forse dato particolare rilievo al contributo, assai rilevante, da lei fornito alla soluzione pacifica della questione sudtirolese.

Ricordiamo brevemente i fatti. All’inizio degli anni Sessanta la situazione era tutt’altro che tranquilla. Nella notte tra l’11 e il 12 giugno del 1961 un gruppo di attentatori aderenti al BAS (Befreiungsausschuss Südtirol) sfruttò la celebrezione del Sacro Cuore per far saltare in aria numerosi tralicci dell’alta tensione. Uno di questi attentati costò la vita a un cantoniere dell’Anas, Giovanni Postal. Il dibattito politico era surriscaldato. Qualcuno, sulle pagine dei giornali della destra italiana, auspicava persino lo scioglimento della Svp, che in realtà svolgeva e avrebbe poi sempre più svolto un ruolo di arginamento rispetto agli impulsi provenienti dai settori intransigenti e secessionisti della comunità locale. Per fortuna il quadro istituzionale resse. Il governo italiano (da poco presieduto dal democristiano Amintore Fanfani) istituì a Settembre una commissione (detta “dei 19”) al fine di proporre un percorso di discussione, e individuare così delle misure di riforma dello statuto di autonomia. Per risolvere i problemi, però, occorreva che il dibattito coinvolgesse anche gli intellettuali e gli operatori culturali, coloro i quali, insomma, facendo prevalere lo spirito di mediazione e il ragionamento fondato, potessero rendere plausibile e soprattutto comprensibile quella svolta necessaria sul piano della sicurezza pubblica.

È in questo ambito che si colloca il convegno promosso a Bolzano nel mese di Novembre dalla rivista bolognese “Il Mulino”, proprio su iniziativa di Lidia Menapace e Giuseppe Farias. Rileggendo gli atti di quel convegno, ripercorrendo soprattutto il loro chiarissimo intervento, non può sfuggire la lungimiranza di quell’azione. Sono due le acquisizioni basilari: il riconoscimento del diritto alla compresenza di una popolazione mista sul territorio della provincia; la convinzione che “le diverse popolazioni potranno pacificamente convivere e svilupparsi” soltanto se verrà garantita un’automomia pienamente accettata dalla popolazione di lingua tedesca e ladina nel quadro di una completa uguaglianza “rispetto agli abitanti di lingua italiana qui residenti”. Ma c’è di più. In un passaggio centrale, il richiamo allo sviluppo dell’autonomia viene valutato come superiore anche alla sua interpretazione di meccanismo di mera tutela delle minoranze, poiché – e questa sì è una citazione davvero lungimirante – “il richiamarci continuamente all’esercizio dell’autonomia, piuttosto che a quello della salvaguardia, ci sembra doppiamente richiesto qui dalla caratteristica della zona mista, entro la quale interventi di tutela diverrebbero alla lunga forme di discriminazione”.

Già nel 1961, dunque, Lidia Menapace aveva visto con grande anticipo che l’autonomia non doveva arrestarsi alla sua legittimazione etnica, ma avrebbe potuto fiorire in senso autenticamente territoriale. Ecco il messaggio e il testimone che la sua passione politica hanno lasciato in eredità alla sua terra d’adozione. Messaggio e testimone che attendono ancora di essere raccolti.

Corriere dell’Alto Adige, 11 dicembre 2020 (pubblicato col titolo: Oltre il recinto etnico)

Tutti gli scandali di Dante

Disegno di Roberto Abbiati

Nel 2021 saranno settecento anni a separarci dalla morte di Dante Alighieri. Per l’occasione l’editore Keller ha affidato a Simone Marchesi – docente di letteratura italiana e medievale a Princeton – e all’illustratore Roberto Abbiati la cura di un libro che ci regala un viaggio d’immagini e parole nell’opera principale del grande poeta fiorentino.

Professor Marchesi, per oltre vent’anni lei ha insegnato Dante agli studenti americani. Potrebbe sintetizzare in cosa è consistito questo suo lavoro di avvicinamento rispetto all’approccio che avrebbe adottato in Italia?

Innanzitutto direi che insegnare Dante negli Stati Uniti è stato liberatorio. Mi ha liberato dall’idea che quando insegniamo stiamo riproducendo noi stessi nei nostri studenti. Mi spiego: da studente, in Italia, sono stato formato da persone che mi stavano insegnando a diventare come loro, ma negli Stati Uniti questa funzione mimetica non funzionerebbe. Così ho imparato a vedere il mio compito di docente di letteratura italiana medievale come un servizio di rimozione degli ostacoli, quegli ostacoli che derivano dalla distanza temporale e culturale che esiste certamente tra il mondo di Dante, nel quale e per il quale il suo testo è stato concepito, e il mondo di oggi, ostacoli che rendono difficile l’avvicinarsi al testo da parte dei lettori. Insegnare in America, insomma, mi ha portato a vedere i testi di Dante (ma non solo i suoi) non tanto come un oggetto rivolto a futuri esperti di letteratura, ma come qualcosa che ci induce a guardare a noi stessi, al mondo e al linguaggio in maniera critica e approfondita.

L’anniversario della morte del poeta sarà celebrato anche cercando in questo “monumento” delle nuove chiavi di accesso al significato che la sua opera può avere per noi. Quali sono stati gli elementi del testo da lei prescelti per stendere il suo commento?

Ho puntato sugli elementi di scandalo. E ce ne sono molti. La Commedia è considerata a torto un’opera che riflette passivamente il tempo in cui è stata scritta: un tempo che immaginiamo compatto nei suoi presupposti culturali e pacifico nelle forme di elaborazione del sapere. Niente di più falso. La Commedia è scandalosa sia per chi la scrive (un laico che tratta senza complessi questioni di dottrina e spiritualità, un non-laureato che tratta di filosofia in maniera spregiudicata, un politico fallito, oggi si direbbe un pregiudicato, che tratta di giustizia) sia per come è scritta (un testo in volgare che affronta questioni di alta cultura, un poema che adotta un registro realistico nella rappresentazione dell’aldilà, una narrazione che contempera epica e profezia biblica come non si era mai fatto prima). Questi sono tutti scandali, per così dire “filologici”, cioè elementi che erano di disturbo per i primi lettori. Ma ci sono scandali nel testo che sono vivi anche per noi, facendoci quasi pensare che Dante li abbia congegnati proprio per provocare i suoi lettori futuri.

Ce ne ricorda alcuni?

Pensiamo per esempio al fatto che una delle tre guide di Dante, la più vicina ad essere il suo Cristo personale, sia una donna, e una donna loquace peraltro, che non ha paura di parlare nel tempio e di spiegare a un uomo come è fatto davvero il mondo; oppure al fatto che la cultura cristiana di Dante inglobi quella dell’Islam nel pacifico mondo internazionale e intergenerazionale rappresentato dal suo Limbo, non meno che nella raffigurazione del Profeta come un cristiano a pieno titolo nella bolgia degli scismatici; oppure, ancora, al fatto che la poesia di Dante è animata da un francescanesimo radicale, che va dalla polemica riformista con la mondanità della Chiesa del suo tempo all’esaltazione mistica dell’abolizione della proprietà privata. Se ne potrebbero trovare altri, e le mie note sono state concepite anche allo scopo di evidenziarli. Ai lettori il compito di interpretare in maniera eretica il suo testo. In fondo, il libro vorrebbe essere questo: un invito a riprendere il capolavoro dantesco e leggerlo, se possibile contro corrente.

Simone Marchesi

Una delle caratteristiche più evidenti della Commedia è la sua straordinaria capacità di evocare immagini che hanno sempre stimolato la fantasia e la creatività degli artisti figurativi. In questo caso come si è configurato il rapporto che lei ha avuto con Roberto Abbiati?

Questa domanda va al cuore del progetto – anzi, ai due cuori della nostra collaborazione. Il rapporto tra parola e immagine che abbiamo cercato di costruire vuole essere diverso da quello che si è tradizionalmente affermato: vale a dire, non mira alla riproposizione in forma visiva di oggetti, situazioni e personaggi narrati. Non è questa la modalità d’illustrazione che cercavamo. Non volevamo insomma rendere graficamente quello che la Commedia dice, come fanno quasi tutti gli illustratori del poema (Doré forse più di tutti gli altri). In fondo, Dante desidera che quelle immagini ce le costruiamo noi lettori a partire dal suo testo. Roberto e io volevamo, al contrario, provare a rendere ciò che la Commedia fa: coinvolgere, provocare i lettori ad appropriarsi del testo. Dal mio punto di vista, le mie illustrazioni verbali sono provocatorie in un senso tecnicissimo: le parole di commento alle terzine dell’Inferno sono scritte tutte in seconda persona singolare, il commento dà, cioè, del ‘tu’ ai lettori; quelle del Purgatorio sono in prima plurale, il pubblico della seconda cantica siamo ‘noi’; quelle del Paradiso (ad eccezione di una) sono tutte in terza singolare e ci invitano ad assumere il punto di vista altro di Dante.

Dante è uno di quegli autori che possono essere definiti “patrimonio universale dell’umanità”. Dal suo osservatorio privilegiato può dirci quali sono i Paesi nei quali l’interesse per il grande fiorentino è particolarmente acceso?

Nella cultura letteraria e scolastica anglosassone Dante è sempre stato una presenza vitale: dal Dante club di Harvard a T.S.Eliot, dai lettori afroamericani della Commedia alla scena artistica pop contemporanea. In Germania, allo stesso modo, la tradizione di leggere Dante e di studiarne l’opera è stata costantemente forte: la Deutsche Dante Gesellschaft è testimone vivo di questa continuità anche istituzionale, essendo la più antica delle società dantesche del mondo. L’America Latina ha, a sua volta, da molto tempo iniziative culturali che ruotano intorno a Dante: Borges non fu dantista per caso. Forse più nuovo e interessante è l’entusiasmo che si sta sviluppando in Asia per la Commedia, come parte del canone occidentale, ma non solo. Circola da un po’ la notizia che una delle biografie di Dante che stanno per uscire in Italia abbia un contratto già pronto per una traduzione in cinese. E una delle più interessanti realtà con cui sono venuto a contatto è stato il Dante Seminar all’Università di Yale-NUS di Singapore, guidato da Andrew Hui. E questi sono davvero solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero ancora fare. Un volume in uscita in questi giorni, quello di Franziska Meier presso il C.H. Beck-Verlag (Besuch in der Hölle. Dantes Göttliche Komödie. Biographie eines Jahrtausendbuchs), descrive con più cura e completezza modalità e cause del grande successo di Dante nel mondo.

Come ultimo “scandalo”, cioè al contrario di chi vorrebbe farne soltanto un “eroe nazionale”, è possibile individuare già nell’intento primitivo del poeta questa aspirazione alla transnazionalità?

Non è in fondo sorprendente, per chi legga Dante con cura, questa sua vitalità transnazionale. Chi conosce il De vulgari eloquentia ricorda, ad esempio, che Dante disse di se stesso, da vero intellettuale cosmopolita, che la sua patria è il mondo come per i pesci il mare. E questo, insieme a molto altro, è importante dirlo spesso e con determinazione a chi vuol leggere Dante con un’agenda per così dire limitante. Ad eterna confusione di ogni tentativo di “nazionalizzare” anche linguisticamente l’autore, si può e si deve dire che la Commedia non solo vuole essere letta nella patria di Dante, cioè nel mondo intero, ma è disposta a farsi «trasmutabile … per tutte guise», cioè ad essere tradotta in ognuna delle lingue che appartengono, vive, a questo mondo. E questa traducibilità è un’altra delle sue condizioni di attualità, non solo culturale, ma se vogliamo anche politica.

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Disegno di Roberto Abbiati

ff – 10 dicembre 2020

La casetta dell’essere

Il Natale si avvicina e senza mercatino (ribattezziamolo “mancatino”) gli addobbi, le luci, la nostalgia della festa splendono senza luce. L’impressione prevalente, nonostante gli sforzi di metterci una pezza, è comunque di tristezza (anche in questo caso vengono in mente giochi di parole: trost-essa, trotz-essa, ma la tristezza resta). A Bolzano, in piazza Municipio, hanno per esempio edificato una casetta che sembra di marzapane, invece è fatta di polisterolo. Qualcuno ha polemizzato: è brutta, è kitsch, sarebbe stato meglio che il vuoto fosse completo, almeno ci saremmo ricordati dei veri valori, avremmo recuperato un’intimità della quale c’è più bisogno di mediocri surrogati. Qualcun altro ribatte: bisognava pur fare qualcosa, almeno per i bambini. Ci dimentichiamo che, specialmente sotto le feste, i veri bambini siamo noi. Probabilmente hanno ragione e torto sia gli uni che gli altri. Tra il non fare e il fare comunque, l’ultima parola adesso ce l’ha il non poter fare. Sarà questo il messaggio più forte, la vera lezione che trarremo dall’anno declinante, passato ormai quasi tutto all’insegna del virus e della vita intermittente che ci ha concesso? Eppure sappiamo già che non si tratta di una lezione facile da apprendere, giacché per apprenderla davvero bisognerebbe acclimatarci all’idea di vivere confinati entro le proprie contraddizioni (vogliamo sempre ciò che non si può ottenere). «Il dramma dell’esistenza in genere – ha detto una volta il filosofo Emil Cioran – è che tutto ciò che si guadagna da un lato lo si perde dall’altro. L’umanità sarebbe potuta benissimo rimanere inerte. Andando al fondo delle cose, ci si rende conto che l’uomo avrebbe avuto tutto l’interesse a restare com’era». In realtà sono ben pochi gli uomini che hanno interesse ad andare al fondo delle cose, per non dire a lasciar tutto com’era. E dunque, chi lo sa, magari proprio una brutta casetta di polisterolo, trasfigurata in splendida fiaba dai nostri occhi bambini, è la migliore metafora possibile per esprimere la grigia inconsistenza di ciò che siamo.

La realtà è porosa

I viaggi che non abbiamo fatto, i libri che non abbiamo letto, una piccola teoria degli atti mancati per ricordare l’incontro tra la cultura tedesca e quella italiana avvenuto 95 anni fa all’ombra del Vesuvio.

Lo scorso 19 novembre è approdato nelle librerie un piccolo volume di Nicola Gardini intitolato Il libro è quella cosa (Garzanti, pagg. 112, € 4,90). Anticipandone alcuni temi sul supplemento domenicale del “Sole 24 ore”, l’autore ha scritto: «Certi libri rimangono sullo scaffale anni e anni prima che ci decidiamo ad aprirli. Perché li abbiamo comprati allora, se non avevamo tutto quel bisogno di leggerli? Li abbiamo comprati perché sentivamo di doverli leggere. Tuttavia, il pensiero di dover leggere una cosa – pensiero nobile e generoso – non si traduce immediatamente in lettura, neppure quando il libro è nostro. Intanto, comunque, il libro c’è. Il libro si legge per noi; il libro legge sé stesso». Se ne potrebbe dedurre una declinazione ad hoc della celebre teoria freudiana degli atti mancati (Fehlleistungen, descritti nel 1901 dal padre della Psicoanalisi nel volume Psicopatologia della vita quotidiana), e quindi tentare di recuperare, a un livello più ampio, una storia in grado di mostrarci tutto ciò che è accaduto in base ad altri fatti non accaduti, ma anche svolgere una considerazione su quante cose non sono accadute pur potendo poggiare su accadimenti che le avrebbero rese plausibili.

Alla fine del 2019 ho acquistato un libro dal titolo curioso: Adorno a Napoli. Un capitolo sconosciuto della filosofia europea (Feltrinellli, pagg. 173, € 19.00). Le note di copertina presentavano la ricerca dell’autore, il tedesco Martin Mittelmeier, così: «Uno dei progetti filosofici più importanti del Ventesimo secolo ha la sua matrice nel paesaggio inquietante e rapinosamente bello del Golfo di Napoli, nei demoni della Costiera Amalfitana e nella vita brulicante della città, nella simpatia smagata dei suoi abitanti e nella pazzia dei suoi ospiti forestieri, nella promessa di una nuova dimensione comunitaria e nel riaffiorare, attraverso gli esseri umani, di un oscuro passato primordiale». Ho acquistato il libro, dicevo, ma non l’ho letto subito, l’ho lasciato sugli scaffali della mia libreria per un intero anno, affinché leggesse sé stesso. Intanto è avvenuto quel che è avvenuto: la pandemia, il lockdown, i vari impedimenti che ci hanno vietato di spostarci, e un riassestamento cospicuo delle nostre priorità (anche le nostre priorità di lettura). Quel libro, però, continuava a interrogarmi, era come se volesse farsi leggere a tutti i costi. Così l’ho ripreso in mano, ci sono entrato dentro, facendomi scoprire un pensiero del quale sentivo il bisogno per mettere a fuoco un’idea sulla quale ragionavo da tempo, non sapendo da dove venisse.

Intanto, dirò subito che questo pensiero ha più a che fare con Walter Benjamin (e con Asja Lacis, una giovane rivoluzionaria russa, una lettone di Riga che si occupava di regia teatrale) che con il futuro autore della Teoria estetica e della Dialettica dell’illuminismo. Devo quindi procedere necessariamente amputando il contesto dei nessi che il volume esplica e arrivare subito al punto. Benjamin e la Lacis passeggiano per il Golfo – siamo tra il 1924 e il 1925, cioè lo stesso periodo in cui anche Adorno si trova in quella zona assieme a Siegfried Kracauer – e definiscono un paradigma interpretativo che, alimentato proprio da ciò che vedono, assume il rilievo di una profonda intuizione filosofica. Cito Mittelmeir: «Le gite di Benjamin da Capri a Napoli sono numerose, almeno una ventina. Nel testo intitolato Napoli, scritto insieme ad Asja Lacis, Benjamin scopre la “porosità” come carattere essenziale di quella varietà caotica: non c’è nulla di solido e ben definito, tutto può mescolarsi in forme improvvisate e sorprendenti, l’interno e l’esterno, il giovane e il vecchio, la perversione e la santità». Con una formula: «La porosità è la legge di questa vita, inesauribile e tutta da scoprire».

Riassumiamo per concludere. Ci troviamo a Napoli, o per meglio dire all’interno del suo Golfo. Un gruppo di turisti eccellenti (quelli citati, ma anche altri, tutti accomunati nell’impresa di conoscere sé stessi – das Eigene – mediante il contatto con l’elemento estraneo – das Fremde) si muove per quei paraggi e, discutendone in uno spirito di platonica synousía, fa esperienza di qualcosa che propone un’immagine mobile della realtà, porosa, appunto, in grado di far affiorare una dialettica soggiacente tutte le ipostatizzazioni essenzialiste alle quali una concezione della cultura schiava del principio di non contraddizione non avrebbe mai consentito di accedere. Non c’è bisogno di troppa immaginazione per capire che questa forma di resistenza alla fissità del “dato” è un’acquisizione preziosissima, che tende un ponte tra la critica al capitalismo della teoria marxiana e quella esercitata dai francofortesi. Che ciò si sia potuto manifestare proprio a Napoli, materializzandosi per così dire a partire dai suoi anfratti tufacei bagnati dal mare Mediterreaneo, per poi rifluire verso Nord, è una testimonianza ulteriore, semmai ce ne fosse bisogno, di come solo allontandoci da casa, viaggiando per conoscere, mettendo dunque alla prova in contesti ignoti le nostre convinzioni, possiamo schiudere quelle prospettive di senso che l’isolamento e il permanere all’interno del già noto mortificano e rischiano di soffocare per sempre.