Così si difende l’autonomia

Consiglio-Provinciale-di-Bolzano1

Per inquadrare in sede locale il taglio ai costi della politica previsto dal decreto Monti, una volta tanto è utile riferirsi al dettato secco e stringente di un comunicato stampa firmato da Sven Knoll (Süd-Tiroler Freihet), il quale, quando si tratta di mettere i paletti contro Roma, non ha mai peli sulla lingua: “Tutti gli ambiti finanziati dal Sudtirolo in modo autonomo rientrano nel novero delle nostre competenze decisionali, dunque l’Italia non deve immischiarsi”. In modo ancora più crudo, alcuni politici locali stanno in pratica affermando: giù le mani dai nostri stipendi, giacché qui non è in gioco solo ciò che finisce nelle nostre tasche, bensì anche “la sovranità del consiglio provinciale” e persino “il valore della nostra autonomia” (gli ultimi virgolettati sono da attribuire al capogruppo Volkspartei in consiglio provinciale, Dieter Steger).

Al di là dei dati tecnici e giuridici che possono essere fatti valere, qui il senso comune intuisce che il passaggio logico tra “difesa delle indennità” e “difesa dell’autonomia” si esercita su un terreno alquanto scivoloso. Senza agitare il vento dell’anti-politica, anche dall’interno del Palazzo giungono infatti voci in sintonia col sentire popolare. “Il taglio delle indennità – ha per esempio ricordato il presidente del consiglio provinciale di Bolzano, Roberto Bizzo – è opportuno in primo luogo dal punto di vista politico”. Esercitarlo non significherebbe, quindi, abbassare il capo davanti a un’imposizione “esterna”, ma potrebbe essere eseguito davvero in modo autonomo e con spirito pienamente “autonomistico”.

Riprendendo l’argomento di Sven Knoll, dal quale siamo partiti, suggeriamo allora una formula alternativa: se tutti gli ambiti finanziati dal Sudtirolo in modo autonomo rientrano nell’ambito di competenze provinciali, ci piacerebbe cogliere in modo altrettanto autonomo l’opportunità di ridurci le indennità senza aspettare che Roma si immischi in un modo o nell’altro. Esisterebbero forse ostacoli tangibili a un siffatto progetto? A quanto pare no, visto che a Trento, provincia gemella, i tagli sono stati effettuati già da due anni, e a quanto pare ciò non ha reso le istituzioni locali più vulnerabili di quanto lo fossero con le vecchie buste paga di presidenti e assessori. In ogni caso non è difficile azzardare una previsione: i cittadini, anche quelli più convintamente amanti e gelosi delle “nostre prerogative”, apprezzerebbero.

Corriere dell’Alto Adige, 26 agosto 2016

La cultura è ricchezza

Oetzi

L’idea di trasferire la mummia denominata familiarmente Ötzi negli spazi oggi occupati dalla biblioteca civica – illustrata sabato scorso al Corriere dell’Alto Adige da Renzo Caramaschi – ha alla base una motivazione interessante. “Questa città – ha detto il sindaco di Bolzano – ha bisogno di centri culturali, più che commerciali”. Il progetto di creare un grande polo museale, al contempo diviso e unito dal ponte Talvera, avrebbe come primo obiettivo proprio quello di far emergere un profilo attualmente troppo frammentato e squilibrato per risultare davvero visibile o attraente.

La vocazione culturale di Caramaschi è nota. In ogni colloquio con il sindaco spunta sempre la sua passione per la letteratura, in particolare quella a sfondo storico, che intreccia vicende individuali ed eventi di significato collettivo più vasto. Egli è inoltre giustamente convinto che, al contrario di quanto affermava Giulio Tremonti, con la cultura si possa, anzi si debba mangiare. Certo non nel senso triviale di sfruttarla per condurre affari monetizzabili all’istante, ma alludendo al circolo virtuoso che congiunge un sensibile aumento dell’attività conoscitiva ad una ricaduta sul piano economico. La stessa etimologia della parola economia, peraltro, ha a che fare con la buona amministrazione delle cose della famiglia e dello Stato, e solo mediante passaggi successivi ha ristretto la sua applicazione ad un settore in cui ne va meramente della produzione e dell’incremento della ricchezza dei beni materiali.

Sarà compito di chi possiede la necessaria competenza tecnica stabilire se l’accorpamento delle entità museali adesso separate, soprattutto per quel che concerne la ricostruzione in altro sito della costosa camera a temperatura costante che ospita l’uomo del Similaun, implichi un percorso troppo lungo e dispendioso in rapporto a ciò che ci si prefigge di ottenere. La cosa più importante, però, sarà riuscire a creare il consenso indispensabile a profondere investimenti in ambito culturale, in modo da non farli apparire come uno spreco di soldi, bensì il modo migliore di spenderli. Per convincere gli scettici, infatti, non basta continuare a puntare i riflettori sulle zone e i soggetti già privilegiati, ma è indispensabile allargare lo spettro dei benefici che si otterranno anche ai quartieri periferici, finora coinvolti solo in parte nel complessivo piano di rilancio e non a caso sciaguratamente risucchiati in un’orbita d’influenza politica tutt’altro che lungimirante.

Corriere dell’Alto Adige, 17 agosto 2016

Il necessario passo avanti

Bianchi

In tema di accoglienza dei migranti faremmo tutti un grande passo in avanti se la discussione non si arenasse, come spesso invece purtroppo accade, tra favorevoli a priori e contrari per partito preso. Si tratterebbe insomma di adottare quel punto di vista utilitaristico (rivolto a massimizzare i benefici collettivi, senza distinzioni di sorta) che il sociologo Luigi Manconi ha di recente sintetizzato in un volume (“Corpo e anima”, Edizioni minimum fax) dal significativo sottotitolo “Se vi viene voglia di fare politica”: “La sottrazione allo stato di marginalità del maggior numero possibile di migranti (…) costituisce la garanzia essenziale per disinnescare il cortocircuito tra condizione di miseria sociale e reazione di quegli stessi soggetti a rischio”.

Sottrarre alla marginalità i “migranti” – termine in ogni caso generico, includente anche quello di “profughi” – significa però anche un’altra cosa, ossia impedire che si radicalizzi in senso comune la percezione di “usurpatori” di diritti (per giunta ai danni degli autoctoni), sciaguratamente sempre più attribuita ai soggetti che avanzano una legittima richiesta di accoglienza.

Forse occorre chiarire il punto teorico con un esempio. Qualche giorno fa il sindaco di Laives, Christian Bianchi, ha escluso che il comune da lui guidato possa offrire a breve scadenza ospitalità ad un numero anche minimo di profughi, e che in ogni caso ciò sarebbe vincolato alla precondizione di conferire loro un ruolo di utilità pubblica. La posizione di Bianchi non è priva di ambiguità. Da un lato il sindaco appare interpretare l’inaccettabile rifiuto a cooperare al fine di distribuire su tutto il territorio provinciale la quota di accoglienza prevista dagli accordi con lo Stato nazionale (si tratta, ricordiamolo, dello 0,9 per cento del totale). Dall’altro la spiegazione punta ad una condivisibile definizione delle clausole di post-accoglienza, in realtà l’aspetto più lacunoso del sistema italiano, visto che consente ancora la chiusura a riccio delle comunità che hanno gioco facile nel ritenere alquanto labile l’implementazione di programmi strutturati di sostegno all’integrazione sociale ed economica dei titolari di protezione.

Per uscire dall’ambiguità, allora, è necessario che anche Bianchi faccia un passo avanti e proponga di fornire il suo pieno appoggio al piano di distribuzione provinciale dei profughi corredandolo di qualche buona idea per il loro proficuo impiego. Siamo convinti che ci riuscirà.

Corriere dell’Alto Adige, 11 agosto 2016

Scambiarsi un segno di pace

Musulmani in chiesa

La presenza dei fedeli islamici nelle chiese cattoliche, registrata domenica anche in regione, è estremamente positiva. Non è la prima volta che le due comunità religiose si scambiano segnali di avvicinamento o esprimono volontà di dialogo. Senza scomodare il più eminente ricordo storico al riguardo — il viaggio di San Francesco in Egitto e Palestina nel 1219, durante la quinta crociata — basti qui accennare all’esistenza del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, istituito da Papa Paolo VI nel 1964, che prevede fra l’altro una speciale commissione per le relazioni tra cattolici e musulmani.

Quanto accaduto domenica, però, appare molto forte alla luce di una tendenza narrativa, affermatasi anche in alcuni ambienti che Papa Bergoglio ha definito afferenti al fondamentalismo cattolico, in margine ai ripetuti casi di violenza islamista. Secondo tale prospettiva, l’unico modo per ridurne l’impatto sarebbe osteggiare la presenza dell’islam, comunque sia declinato sui nostri territori, perché ormai ci troviamo in aperta guerra di religione. Ciò implicherebbe però anche concedere al presupposto nemico una porzione non piccola di vittoria, vale a dire quella generica e generalizzante data dall’assimilazione di ogni monoteismo alla sua vocazione assolutistica («Non avrai altro Dio al di fuori di me»). Prevenire la degenerazione assolutista di qualsiasi monoteismo sembra diventato dunque il compito principale del dialogo interreligioso. Ogni speranza di pace verrebbe infatti meno se si affermasse che il compito di qualsiasi fede consiste nel rinserrarsi entro i propri confini, forzando la logica del confronto nella dialettica distruttiva dell’assimilazione o dell’annientamento.

Come ha ben scritto Adriano Sofri: «Noi non crediamo né vogliamo far credere di stare combattendo una guerra di religione. Noi non siamo affatto disposti a riconoscere ai jihadisti dell’Isis alcun titolo a parlare e agire in nome di tutto l’islam. Dunque noi dobbiamo combatterli e sconfiggerli, prima di tutto nei territori di cui si sono impunemente impadroniti, perché sono nemici dell’umanità. Noi non combattiamo una guerra di religione, combattiamo per la libertà religiosa, di qualunque religione». In quel «noi» Sofri include esplicitamente i cittadini di tutto il mondo che stanno dalla parte «giusta», senza distinzione etnica o di fede. Ed è su tale piano che va costruita l’alleanza vincente contro l’oscurantismo.

Corriere dell’Alto Adige, 4 agosto 2016