L’elefante e la formica

Più o meno tutti avranno sentito questa barzelletta. Nella sua versione standard: un elefante sta camminando nella foresta quando inavvertitamente passa sopra a un formicaio uccidendo migliaia di formiche. Le formiche sopravvissute, per vendicarsi, gli saltano addosso. L’elefante, avvertendo un brulichio fastidioso, si scrolla e le fa cadere, tutte tranne una, che gli rimane attaccata sul collo. Allora le formiche cadute, vedendo l’intrepida formica rimasta, le urlano in coro: “Strozzalo!”. La barzelletta finisce così e non è dato sapere in che modo abbia poi reagito l’elefante (si sarà messo a ridere pure lui?).

Una barzelletta, forse un apologo

Non è pacifico se una barzelletta, come quella appena letta, possa anche funzionare da apologo. In questo caso forse sì, occorre tuttavia fornire una spiegazione, circostanziare, come si suol dire, o comunque esplicitare che cosa dovrebbero rappresentare l’elefante e le formiche (anzi: la formica, unica, che gli si è aggrappata al collo) in un contesto “reale”. Se poi la spiegazione avrà l’effetto di dissolvere l’ilarità che accompagna perlopiù le barzellette, magari ne avremo ricavato un chiaro insegnamento “morale”. Ad ogni modo, al fine di volgere la barzelletta in apologo è necessario rivelare subito la fine mancante della barzelletta, è indispensabile cioè capire come ha reagito l’elefante. E l’elefante non ha riso per niente, anzi, si è mostrato piuttosto piccato, intentando una causa civile contro la formica, accusata non di tentato omicidio (sarebbe stato un po’ troppo), ma solo di diffamazione. Per questo motivo avrebbe chiesto un risarcimento di 150.000 euro da devolvere in beneficienza (il nostro elefante è parecchio permaloso, ammettiamolo, ma anche filantropo).

Attacco alla libertà di stampa?

Scopriamo tutte le carte. L’elefante della barzelletta è la più potente azienda mediatica dell’Alto Adige-Südtirol (il suo nome “Athesia”), mentre la formica è un piccolo quotidiano online, anch’esso con sede fisica da quelle parti, gestito da una cooperativa (si chiama “Salto”). Aggiungiamo poi che “Salto”, essendo redatto in due lingue, rappresenta esattamente da dieci anni – fu varato nel marzo del 2013 – una voce alternativa a quella espressa dall’establishment provinciale, disciplinata dalla rigorosa dicotomia italiano/tedesco. Ma in che modo “Salto” avrebbe tentato di strangolare – pardon, nuocere alla fama – di Athesia? Secondo l’accusa si tratterebbe di questo: in uno spazio di quattro anni (dal 2018 al 2022) il piccolo “Salto” ha pubblicato una sessantina di articoli nei quali si attaccherebbe il gigante “Athesia” sottoponendolo ad una “continua e pressante campagna diffamatoria”, quindi mediante una vera e propria azione di “stalking mediatico” condita da “calunniose insinuazioni di collusione con partiti politici e con la pubblica amministrazione”. Anche se l’obiettivo della denuncia è esteso all’intero portale, è in particolare Christoph Franceschini, il giornalista di punta di “Salto”, ad essere considerato il motore di una simile campagna. Franceschini, fra l’altro, è anche uno degli autori del libro (“Freunde im Edelweiss. Ein Sittenbild der Südtiroler Politik”) che ha turbato di recente il sonno a parecchi rappresentanti del partito egemone in quelle terre (la Südtiroler Volkspartei) e portato nuova legna da ardere al tema della “collusione con partiti politici e con la pubblica amministrazione” della quale si sarebbe resa protagonista e colpevole “Athesia”. Ma a questo punto è utile forse chiarire un po’ meglio che cosa sia l’elefante, cioè “Athesia”, e per quale motivo la sua consueta e consolidata strategia – ignorare sdegnosamente avversari e competitors facendo loro il vuoto attorno: in tedesco si dice “Totschweigen”, soffocare nel silenzio – si sia adesso mutata in una reazione che in qualche modo ha fornito a “Salto” il luminoso palcoscenico della vittima, ossia di chi si trova a difendere a mani nude nientemeno che la “libertà di stampa”.

Non si muove foglia che Athesia non voglia

Che cos’è, dunque, “Athesia”? Cliccando sul portale omonimo, la prima descrizione che ci viene incontro suona: “Il Gruppo Athesia vanta una storia di oltre 130 anni ed è legato fortemente alle tradizioni del Tirolo. Centinaia di donne e uomini hanno contribuito a questa storia con il loro lavoro ponendo in tal modo la base per il successo di Athesia come azienda dinamica, tecnologicamente all’avanguardia e sovranazionale nei settori dell’editoria e della stampa, servizi ed energia. Il Gruppo Athesia continua ad investire in nuove idee e progetti, per essere anche in futuro un’impresa che agisce con successo rispettando sempre la sostenibilità”. Al netto della retorica aziendale, il quadro che se ne ricava pone in fila i seguenti dati: nata ab antico per opporre alla stampa d’ispirazione liberale o socialdemocratica posizioni ispirate al cattolicesimo più intransigente, l’impresa si è via via ampliata fino a diventare determinante in una vastissima rete d’interessi (dalla fabbricazione dei cartoni per la pizza – il che stride un po’ con la mission intonata alle tradizioni tirolesi – fino alle attività che la coinvolgono nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del turismo). Non è insomma un mistero per nessuno che “gli Ebner”, la famiglia che si identifica con il marchio (e al cui vertice siedono la centenaria Martha, nipote di Michael Gamper, un monumento dell’antifascismo locale, moglie di Toni Ebner, storico direttore del quotidiano “Dolomiten”, con i figli Michl, ex politico SVP, attualmente presidente della Camera di Commercio, e Toni Ebner Junior, Chefredakteur del “Dolomiten” sulle orme del padre), esprimano e difendano con ogni mezzo un grumo di potere – mediatico, economico e non solo latamente politico – per il quale l’aggettivo “monopolistico” è pienamente giustificato. In Alto Adige/Südtirol (quasi) non si muove foglia che Athesia non voglia, e questo sia grazie a un’egemonia di mercato quantificabile con la cifra dell’80% della superficie informativa (relativamente, anche in termini di ricavato pubblicitario), sia sfruttando un finanziamento statale devoluto a sostegno delle minoranze linguistiche – anche se poi Athesia ha inglobato i due più rilevanti quotidiani regionali in lingua italiana –, che in sovrappiù le garantisce l’afflusso di circa sei milioni di euro all’anno (primato nazionale).

Anche gli elefanti…

«Quando un’azienda dice di controllare l’80% del mercato dei media – ha affermato una volta l’ex senatore Karl Zeller (SVP), di recente caduto fuori dalla grazia degli Ebner, e quindi trovatosi a non godere più degli abituali riguardi sulle colonne del “Dolomiten” –, questo non può essere salutare per la democrazia». Ma cadere fuori dalla grazia degli Ebner (venire quindi osteggiati, oscurati o cancellati) è un conto, un altro essere presi di mira con attacchi che tracimano in azioni legali rivolte contro un potenziale concorrente. Ed è per l’appunto questo il caso della querelle Athesia-Salto, alla quale ci stiamo riferendo. Le domande che restano da fare sono allora essenzialmente due: possibile che l’atteggiamento di Salto – che per tirare in ballo un equipollente nazionale, assomiglia magari un po’ allo stile aggressivo del “Fatto Quotidiano” – sia da ritenere così insostenibile per la reputazione di Athesia, e comuque non gestibile in termini che rientrano in una normale dialettica tra testate? E, dalla parte di Salto, possibile che per contrastare l’imperium di Athesia non sia sufficiente concentrarsi sulla pubblicazione di proprie notizie alternative (distinguendosi così per scelta, per stile o anche semplicemente per mission), finendo con l’incolpare a più riprese ed expressis verbis il monopolista di non poter essere diverso da ciò che è? In attesa di conoscere, se verrà, il responso di chi è chiamato a giudicare (ma spiace, a proposito, che non siano semplicemente i lettori ad avere qui la parola decisiva), all’osservatore imparziale sarà intanto già saltata agli occhi la clamorosa inversione di un titolo famoso: a volte, anche gli elefanti nel loro grande s’incazzano e, fingendo d’ignorare la loro stazza, si attaccano al collo delle formiche.

Suicidio, unica soluzione

Nel 2019, alla fine di luglio, il bolzanino Matteo Gazzini – europarlamentare della Lega – pubblicò sui social un post di questo tenore: «Sono stato in Questura di Bolzano per rinnovare il passaporto. Due cose ho notato: l’estrema professionalità e cortesia dei nostri operatori della polizia di Stato ed una puzza nauseabonda che proveniva dal piano dove si trovavano gli uffici immigrazione. Ma è possibile che le nostre forze dell’ordine debbano lavorare in ambienti poco salubri?». Un anno dopo, sempre per mezzo dei social, la disinibita riflessione di Gazzini subisce un ulteriore approfondimento: «Non ci può essere libertà se non si permette a una persona di essere razzista. Il problema non è il razzismo, ma la discriminazione che il razzismo crea e questo è inaccettabile in una società civile». Come dire: razzismo sì, basta non esagerare.

Arriviamo così ai nostri giorni, e alla luce del suo modo di vedere le cose l’europarlamentare giunge a sintetizzare il senso della tragedia calabrese (oltre settanta vittime del naufragio, con almeno 18 minori): «Naufragio di Crotone: questi non sono viaggi della speranza, sono suicidi di massa. Accertare le responsabilità dei clandestini che hanno portato i bambini a morire in mare. Che non succeda mai più!». L’elenco delle citazioni non è tanto interessante al fine di puntare il dito su una singola persona, ma per portare alla luce uno schema di pensiero purtroppo largamente condiviso. Persino l’aberrante richiamo al “suicidio”, in apparenza frutto di scarsa competenza linguistica o di eccessivo cinismo, trova così una possibile spiegazione non appena se ne comprenda il criterio che ne ha suscitato l’evocazione.

Qual è, dunque, ridotto ai suoi minimi termini, tale schema? Senza troppi giri di frase: se nel mondo c’è disagio, malessere, persino disperazione, ciò dipende – ancor prima che da situazioni contingenti o storiche, quindi rimediabili – da una strutturale incompatibilità ontologica (ché, altrimenti, non si potrebbe ricorrere a legittimare placidamente il razzismo, come fa Gazzini richiamandosi alla “libertà di pensiero”) tra i diversi tipi umani. E quando questi tipi umani hanno la sfortuna di entrare in contatto (per esempio nella sala d’aspetto di una Questura, o in prossimità di una spiaggia, all’arrivo di un’imbarcazione sfasciata carica di migranti) tale incompatibilità si manifesta, deflagra in modo insopportabile: con la puzza che non fa lavorare i poliziotti, quando va bene, con la morte, se va male.

Ora, per potersi affermare, lo schema di pensiero appena esposto non tollera obiezioni di natura pragmatica. Se ai migranti fossero consentite prospettive di vita più idonee, cioè assicurando loro un viaggio in condizioni non disumane, o anche di essere accolti in luoghi in cui farsi tranquillamente una doccia e tenere un guardaroba capiente per non offendere l’olfatto sensibile dei parlamentari europei, l’impatto tra i nostri mondi potrebbe essere più morbido? Neanche per idea, risponde qui il razzista ontologico e ideologico, perché alla fine le differenze si riaffermerebbero comunque in altro modo. L’incompatibilità, insomma, è un dato oggettivo che non può essere negato da strategie pragmatiche volte alla limitazione delle diseguaglianze, e a voler dirla tutta – la cruda conclusione, ancorché non espressa, sta però già dentro il perimetro delle parole di Gazzini – il confronto delle due parti non prevede altra soluzione del “suicidio” di una di esse: o si ammazzano “loro”, osando sperare di arrivare dove non possono arrivare, oppure ci ammazziamo “noi”, accogliendoli con i loro miasmi, i loro malesseri e tutte le altre strampalate ambizioni d’integrazione delle quali i difensori del decoro, dei crocifissi e dei presepi dicono di non potersi fare carico.

Corriere dell’Alto Adige, 12 marzo 2023 – Pubblicato con il titolo “Tornano i difensori del decoro”.

Guardiamo un film?

Sei a scuola, fai l’insegnante, sai che prima o poi la domanda arriva. Sospesa nell’aria, anche se in certi momenti più che in altri, soprattutto quando un quadrimestre sta per finire, quindi piazzata, anzi condensata all’inizio di un’ora in cui anche tu, confessiamolo, desideri un po’ sentirla arrivare, ecco che sopraggiunge sostenuta da una voce che miscela il tono di un’invocazione, di una preghiera e di un invito a mettere tra parentesi il grigio dovere: “Prof, guardiamo un film?”. Ma se la domanda è sempre la stessa, quello che da qualche anno ha cominciato ad accadere, quando cioè il prof alla fine si convince, cede, e dice “va bene, guardiamo un film…”, quando la leggera euforia si è dispiegata fra i banchi e ora, rientrata, tutti sono lì con gli occhi puntati allo schermo, quello che adesso accade, dicevo, non ricalca l’esperienza del passato. Il film, indipendentemente da ciò che mostra, non riesce a catturare l’attenzione degli studenti, specialmente quelli giovanissimi. Che infatti dopo poco cominciano a distrarsi, a parlare tra loro, a sbirciare il telefonino o a rifarsi le unghie. Perché? Perché un momento di distrazione focalizzata non riesce più a generare curiosità come un tempo? Il punto è che l’abitudine a fruire di narrazioni prolungate si è drasticamente ridotta. Gli studenti, oggi, non riescono a restare concentrati per più di venti, trenta minuti. Devono costantemente cercare altro, fare altro, o fare contemporaneamente più cose. Persino quando si distraggono, vengono afferrati da un impulso a distrarsi dalla distrazione che li aveva appena distratti. Un film, insomma, si rivela noioso come la lezione più noiosa, e come ci si vorrebbe scrollare di dosso la noia di quella lezione, si finisce per volersi scrollare di dosso anche tutto ciò che impedisce lo scorrere di una continua insofferenza.

ff – 9 marzo 2023

Nello specchio della letteratura

Lo storico Carlo Romeo ha appena pubblicato l’aggiornamento della sua “mappa” letteraria (“Scorci di un confine. L’Alto Adige in un secolo di letteratura italiana“, Edizioni alphabeta Verlag, 2023), schizzando il percorso che ha mutato in profondità la percezione di una provincia a lungo vista come “straniera”.

Scorci di un confine” rielabora e aggiorna il precedente “Un limbo di frontiera”, uscito al tramonto del secolo scorso, per l’esattezza 25 anni fa. Perché questa continuazione?

Era da molti anni che ci pensavo. Con il “limbo” avevo affrontato la questione di come fosse stata raccontata in lingua italiana questa terra. Era una sintesi di lunga durata che partiva dalle origini, da quando l’Alto Adige era solo un progetto politico-culturale, e arrivava al “dopo Pacchetto”. Mentre lo scrivevo si intravedevano già nuove tendenze, ancora però solo accennate. Poi il panorama si è enormemente arricchito. Il tema meritava quindi un’approfondita rivisitazione.

Rivisitazione che si nota anche nel cambio del titolo.

Sì, l’immagine del “limbo” all’epoca voleva alludere da un lato alla distanza con cui per lungo tempo la produzione in lingua italiana aveva parlato dell’Alto Adige, dall’altro alla dimensione ovattata, autoreferenziale che nel discorso pubblico veniva associata alla cultura locale. Da allora molto è cambiato, non solo in termini quantitativi, nei titoli usciti e nella proliferazione dei generi, ma anche nelle coordinate culturali. Del resto è cambiata la provincia stessa e la sua immagine.

Il mutamento tecnologico nel frattempo intervenuto, e le nuove possibilità di ricerca che abbiamo adesso a disposizione, hanno determinato anche un cambiamento nel modo di comporre il testo?

Indubbiamente, se consideriamo la comodità di ricerca e di confronto dei dati che offre oggi la rete, rispetto a 25 anni fa. Dal punto di vista del concetto, invece, il lavoro è rimasto sostanzialmente uguale. Del resto è un libro consapevolmente tradizionale, se vogliamo un po’ controcorrente rispetto ai nostri tempi, sempre meno “storici” e sempre più appiattiti sul presente. Anche qui ho puntato alla connessione più stretta possibile tra fenomeno letterario e contesto storico. Per questo la trattazione coinvolge continuamente anche gli aspetti sociali, politici e del discorso pubblico.

La suddivisione in tre parti sottolinea non solo l’esistenza di altrettante cesure storiche, ma allude anche al senso di uno sviluppo. Riuscirebbe in estrema sintesi a tratteggiare tale evoluzione?

Ho scelto una periodizzazione che ricalcasse cesure nella percezione interna ed esterna della provincia. La prima parte (“Cantare la nuova frontiera”) tratta il periodo dall’annessione fino alla caduta del fascismo. Dominano forme di racconto del tutto esogene, standardizzate e finalizzate perlopiù a obiettivi nazionali, celebrativi o di promozione turistica. Del mondo tedesco non si parla, è l’implicita presenza che si indovina paradossalmente attraverso il “non detto”, la sua rimozione ufficiale. La seconda parte (“Il monte e la città”) affronta il dopoguerra fino agli anni ’80, cioè fino alla stabilizzazione dell’assetto della seconda autonomia. Ricorre il tema dell’estraneità tra due mondi separati che si avvertono lontani e diversi, mentre le tensioni e le bombe rendono più aspri gli stereotipi. Col tempo si registra da parte italiana un primo interrogarsi sulla propria storia, sul proprio radicamento in chiave esistenziale e generazionale.

E questo genera il passaggio alla nostra epoca, nella quale i fili da intrecciare diventano molti di più…

Diventano di più e sono anche, per così dire, fili più mobili (per questo ho dato alla terza parte il titolo di “Paesaggi in movimento”). Diciamo che negli ultimi decenni affiorano il sentimento di “minoranza nella minoranza”, la parodia surreale delle contraddizioni del sistema autonomistico, la critica della sua auto-referenzialità, il rapporto di amore e odio di almeno un paio di generazioni “centrifughe” e “centripete”. Ma vi è anche la strada della narrazione storica, più o meno finzionale, e persino della “ricostruzione” dello spazio in chiave rosa, fantasy, thriller e horror. Tutto ciò mostra il definitivo superamento di un limite preesistente, una confidenza (almeno presunta) col territorio tale da declinarne la rappresentazione in termini “glocali”.

Ritiene che l’attenzione dei due mondi culturali nei confronti dei testi letterari composti nella “lingua dell’altro” abbia subito una trasformazione nel corso degli anni?

Un precursore di questa attenzione è stato N.C. Kaser. Nel 1969, contestando la tesi di Eugen Thurnher sull’inesistenza di una “letteratura italiana” locale, criticava il tentativo di tagliare i Nabelschnüre del Sudtirolo a Sud e a Nord. Ma è sostanzialmente dagli anni ’90 che la situazione si evolve. Da un lato si manifesta curiosità verso la produzione italiana, dall’altro gli italiani cominciano a conoscere meglio, anche grazie alle traduzioni, la cosiddetta “nuova letteratura sudtirolese”. Ormai da tempo esistono autori e autrici, associazioni, iniziative editoriali, eventi plurilingui che hanno una pur piccola “comunità letteraria” di riferimento. Oggi si registrano persino i primi segni letterari provenienti dall’immigrazione extracomunitaria in provincia. Lo sguardo, che s’incarna nella lingua, include sempre più la prospettiva dell’“altro”, tendendo anzi a una dimensione globale.

Per concludere: riuscirebbe a suggerire alcuni titoli per riassumere “un secolo di letteratura italiana” in Alto Adige?

Mi sottraggo in parte alla domanda e propongo piuttosto scorci di paesaggio, il vero protagonista che compare nelle pagine, non importa se nel best-seller internazionale o nel libretto semisconosciuto. Il Passirio malinconico di Bartolini, le case INCIS della Pucci, la primavera dietro il reticolato del lager di Meneghetti, l’inquieto maso d’alta montagna alla Spielberg di D’Andrea, le movide giovanili in piazza Erbe di Montali, le passeggiate con panchine e pensionati nei “gialli” di Gandini. Ma sono solo alcuni scorci elencati alla rinfusa, tra decine di possibili altri.

ff – 9 marzo 2023