Aprire le finestre alle eccellenze

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Luca Caccioni

Talvolta, dal vasto mare di cattive notizie, i giornali sanno pescare anche sprazzi di positività. Segni che sembrano il provvidenziale mozzicone di legno per il naufrago alla deriva. È il caso di una storia, raccontata domenica dal Corriere dell’Alto Adige, che giunge proprio da Bolzano, anche se alla fine di un giro abbastanza lungo e, si spera, non privo di valore paradigmatico.

Alfredo De Massis, trentottenne e brillante professore di Pescara, è approdato alla LUB – dove creerà un centro di ricerca sull’imprenditoria familiare – dopo aver lavorato per un periodo all’estero (a Lancaster, in Inghilterra). Il suo, quindi, può essere letto come il rimpatrio di uno dei cosiddetti “cervelli in fuga”, brutta espressione con la quale si suole indicare il fenomeno – assai cospicuo e, secondo le più recenti statistiche, in crescita – dell’emigrazione intellettuale dal nostro agli altri paesi economicamente più “strutturati”.

Quello che occorre evidenziare, al margine di un successo altrimenti da ritenere come volatile eccezione, è la valutazione estremamente positiva offerta da De Massis del nostro territorio. Una valutazione che spezza il tono sempre un po’ lamentoso con il quale molte persone nate qui, specialmente di lingua italiana, sono solite descrivere una situazione di partenza che assume però tutt’altro profilo se guardata con occhi “esterni”, cioè quelli di chi vi arriva. Il refrain è noto. In Alto Adige esiste una stagnazione intellettuale nemica della libertà e dell’inventiva individuale. La gestione del potere, poi, ostacola quasi volutamente lo scambio con altri luoghi e dunque la crescita oltre i limiti della provincia. Di tutt’altro avviso De Massis, il quale ha invece speso parole estremamente positive proprio per la locale imprenditoria a carattere familiare, capace di far lievitare ottime prospettive future dalla consapevole esperienza del passato.

L’intera vicenda, perciò, potrebbe avere un significato anche politico. Ci siamo da tempo abituati a scorgere nell’Autonomia un meccanismo orientato in prevalenza alla difesa delle nostre peculiarità. Ma senza osmosi tra individui di provenienza diversa, senza circolazione di idee nello spazio e nel tempo, rischieremmo il soffocamento e la dispersione delle nostre migliori possibilità. Stavolta la dritta ci viene dall’università e dalla sua naturale inclinazione a rivelarsi una proficua scena per lo sviluppo di eccellenze in entrata e in uscita.

Corriere dell’Alto Adige, 29 settembre 2016

Gli universi paralleli

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foto salto.bz

Il consigliere provinciale Alessandro Urzì (Alto Adige nel Cuore) l’aveva anticipato qualche giorno fa con un grido accorato affidato alla piattaforma social: “Popolo di Facebook, in provincia di Bolzano stanno preparando l’operazione più imponente di pulizia linguistica cancellando i bei nomi di luogo conosciuti da generazioni con espressioni italiane che domani saranno vietate”. Un allarme per impedire che all’interno della Commissione dei sei, prima, e poi nell’ambito dello stesso Consiglio provinciale, si operi al fine di scongiurare la bocciatura, da parte della Corte costituzionale, della legge sulla toponomastica approvata nel 2012 e ritenuta lesiva del principio del bilinguismo.

Come ha successivamente spiegato lo stesso Urzì, a rischio sarebbe «il 57 per cento dei toponimi italiani di una lunga lista di 1.527 nomi». Voglio prescindere dall’esattezza di tale dato, cioè dall’effettiva consistenza di una lista di nomi che starebbero per essere cancellati con un atto d’imperio da parte di organismi — la Commissione dei sei, ma anche la specifica Commissione che dovrà essere poi nominata per formulare nel dettaglio la revisione della legge — composti in modo paritetico, quindi predisposti anche a tutela della «minoranza» italiana. Preferisco invece soffermarmi sul meccanismo psicologico che ogni volta s’innesca quando il motivo del contendere afferisce a temi di rilevanza simbolica in un contesto etnicamente frammentato: la possibilità che nell’opinione pubblica prevalgano argomentazioni di tipo razionale si riduce praticamente a zero.

Com’è possibile dunque recuperare un briciolo di razionalità, avendo a che fare, come in questo caso, con la sua palese distruzione? Una saggezza molto disincantata, giacché sancirebbe a priori l’impossibilità di stabilire un accordo tra le parti, suggerisce che ogni gruppo linguistico rinunci per sempre ad imporre agli altri soluzioni univoche, cementificando in sostanza l’esistenza di universi paralleli in larga misura autoreferenziali. Sarebbe ovviamente la sconfitta definitiva del modello di convivenza al quale un po’ ingenuamente abbiamo fatto finta di guardare, pensando che il metodo della mediazione (e del compromesso) potesse estendersi a tutti gli ambiti della nostra giurisdizione. Una cosa resta certa: a più di quarant’anni dalla promulgazione del secondo statuto d’autonomia, doversi ancora occupare di simili questioni “emotive” è una sconfitta per tutti.

Corriere dell’Alto Adige, 22 settembre 2016

Un’accoglienza propositiva

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Il tema ha tenuto banco a lungo sui giornali ed è stato rilanciato più volte in rete, tra malintesi e correzioni. Alla domanda, secca e diretta, se il comune di Laives fosse disposto ad accogliere o meno la quota di profughi prevista dal piano di distribuzione provinciale, sono state date quindi risposte contrastanti, a seconda dei diversi punti di vista. Chi ha avuto però la prima e anche l’ultima parola, vale a dire il sindaco Christian Bianchi, ha poi sempre puntualizzato così: Laives intende accogliere una quota minima di profughi, desidera insomma fare la propria parte, purché sia reperito un luogo adatto e, soprattutto, vengano individuate attività in grado di occupare i migranti rendendoli almeno parzialmente autosufficienti.

Intervistato dal Corriede dell’Alto Adige, Bianchi ha affermato testualmente: “Nei giorni scorsi ho visitato la Caserma Mercanti di Appiano e ho osservato un modello valido: grazie anche alla presenza di molti volontari, vengono organizzate molte attività. I migranti collaborano ai lavori di pulizia e mensa, e partecipano anche a lavori esterni come la raccolta delle mele. Ciò fa bene all’integrazione, gli ospiti non sono lasciati alla deriva e la struttura non è un dormitorio. Se anche a Laives ci fosse la necessità di organizzarsi, penso a qualcosa del genere”. Si tratta di parole che formulano un impegno preciso e, almeno stavolta, di equivoci non potranno davvero essercene.

Nei prossimi giorni, dunque, Bianchi prenderà visione degli ex Magazzini militari di via Stazione pensando di ricalcare sull’esempio di Appiano anche la futura esperienza di Laives. Un lieto fine che, indipendentemente dalla sua auspicabile realizzazione, non può però farci sospendere la riflessione sul modo migliore di affrontare le problematiche inerenti il fenomeno generale.

Non aderendo al programma Sprar (il Sistema per la Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati che finora ha dato i risultati migliori), in Alto Adige permane infatti la tendenza ad affrontare le cose secondo una logica emergenziale, come se i comuni non dovessero costituire la parte attiva e propositiva del processo di accoglienza, ma fossero soltanto i ricettori periferici di ordini provenienti da centri decisionali distanti (il Ministero dell’interno, le prefetture o, nel nostro caso, addirittura la Provincia). Proprio Appiano, da Bianchi indicato come esempio virtuoso, dimostra che la via da perseguire è un’altra e si basa sulla normalizzazione delle pratiche di inclusione nei confronti di soggetti da considerare, finalmente, quali persone pienamente responsabili.

Corriere dell’Alto Adige, 15 settembre 2016

L’autonomia dissonante

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Settant’anni sono una buona misura di tempo per tracciare un consuntivo. Per farlo – parliamo ovviamente del consuntivo inerente lo stato di salute delle nostre autonomie provinciali, peraltro ancora inserite in una cornice regionale assai scricchiolante – bisogna comunque fare attenzione a scegliere con cura il punto di vista dal quale muovere. E qui il paesaggio appare dissonante, anche nel giorno di festa. Vediamo brevemente perché.

Se badiamo alle celebrazioni, ai discorsi di circostanza espressi in forma rituale, specialmente nei luoghi che hanno fatto “la storia”, e dunque in un certo senso cercano di trattenerne lo spirito, non ci sono problemi. Al solito ricade il discorso del “modello”. “L’accordo di Parigi – ha affermato il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni – ha evitato che vi fosse un conflitto congelato nel cuore dell’Europa ed è precursore di scelte che hanno ispirato la crescita dell’integrazione europea”. Sorrisi, applausi, brindisi. Ma come sempre tra la mozione e l’atto si distende una discreta porzione d’ombra.

L’ombra, nella fattispecie, riguarda i lavori della Convenzione (Konvent) che avrebbe il compito di accordare la struttura esemplare dell’autonomia alle esigenze presenti e future. Nell’ultima seduta bolzanina del gruppo dei trentatre è emersa una frattura evidente tra le competenze di chi sta operando in quel contesto e l’azione politica – animata da un gruppo di senatori sudtirolesi e trentini – concretizzatasi in un disegno di legge costituzionale già depositato in Parlamento. Una mancanza di comunicazione che ha generato stupore, incertezza e malintesi, tanto da far affiorare un dubbio radicale: è utile tentare di stimolare dei cambiamenti dal basso, ossia favorendo la partecipazione dei cittadini, se poi le decisioni che contano vengono comunque prese in modalità top-down?

Il presidente Kompatscher e il senatore Palermo hanno cercato di gettare acqua sul fuoco, ribadendo che l’elaborazione a più livelli della riforma è perfettamente compatibile con l’istanza partecipativa della Convenzione, quindi hanno auspicato che, a partire dai prossimi incontri, i parlamentari possano palesare meglio la propria funzione di guida. A questo punto, però, si tratta di agire molto in fretta e con grande chiarezza, perché altrimenti la frattura indicata potrebbe allargarsi in una voragine fatta di sfiducia e disinteresse per le sorti dell’autonomia appena festeggiata.

Corriere dell’Alto Adige, 7 settembre 2016

Un fanatismo senza sbocchi

Fontana

Al pari di qualsiasi tema a forte valenza simbolica, anche per la toponomastica il rischio è quello di avvitarsi in argomentazioni frustranti. Si dirà: al bando inutili frustrazioni, abbiamo ben altre e più rilevanti questioni a cui pensare. Ben altre, sicuro. Eppure rieccoci qui, periodicamente, a spostare la pedina un po’ in giù e un po’ in su, nell’eterno gioco di posizionamento e riposizionamento nel quale nessuno, a quanto pare, vuole mai cedere qualcosa agli altri.

Al fine di rimuovere il tema della toponomastica dall’agenda della politica, la scorsa giunta provinciale aveva cercato di varare una legge intenzionata a mediare le posizioni più estreme, vale a dire quelle sostenute dalle destre tedesche – orientate a ristabilire ciò che per loro rappresenta il primato storico, e dunque monolingue, della gran parte dei toponimi di montagna – e quelle interpretate dai molti italiani paladini di un bilinguismo altrettanto integralista. L’esito fu però alquanto deludente, esponendo una forzatura in chiave maggioritaria distante dal principio del compromesso che si voleva affermare. Il testo venne così impugnato dall’allora governo nazionale guidato da Mario Monti, rinviato al giudizio della Corte costituzionale ed in pratica tenuto in sospeso fino adesso. Avvicinandosi il verdetto (previsto per Ottobre), le vie rimangono perciò due: o si prova ad aggiustare la legge, puntando ancora sul compresso prima che la Corte agisca, oppure celebreremo il suo funerale e torneremo a spaccarci la testa su “Berghof” e “Maso Montagna” (per inciso: la legge avrebbe trovato l’onorevole soluzione di “Berghof/Maso Berghof”).

Ora, per aggiustare la legge occorre che venga reso operativo un passaggio ulteriore, individuato da una norma di attuazione recentemente elaborata all’interno della Commissione dei sei, e scritta proprio per salvaguardare lo spirito del compromesso dal fanatico rispetto per il bilinguismo formale o “assoluto”, quello che tende a trovare una traduzione per ogni più piccola porzione di territorio (al limite per ogni filo d’erba). Ulteriori clausole di salvaguardia sono state previste in modo da non concedere al gruppo maggioritario l’ultima parola sui casi più controversi, a dir la verità non molti (e se poi non ci sarà accordo tutto resta come prima). In questa prospettiva il pericolo di avere la tanto paventata “pulizia linguistica” (così come, adottando il punto di vista tedesco, l’“italianizzazione definitiva”) è visto soltanto dagli incorreggibili amanti della polemica, cioè da chi, in questo preciso momento, si sta augurando che la Corte ci condanni tutti ad occuparci di toponomastica per altre venti legislature.

Corriere dell’Alto Adige, 2 settembre 2016