Svolgerò una riflessione al margine della polemica che sta infiammando l’opinione pubblica in questi giorni (è anche un buon segno, fra l’altro, significa che il virus sta almeno abbandonando il centro dei nostri discorsi, sperando che non se ne risenta, e poi ritorni più incrudelito di prima).
Se qui alludo ad un “margine” significa però che intendo restringere l’osservazione di questa polemica, limitandone di molto il campo. Dirò perciò innanzitutto ciò che non prenderò in considerazione, ma dirò anche che ciò di cui non parlerò è invece più importante della riflessione alla quale mi dedicherò adesso: se lo faccio, ponendomi il quesito contenuto nella parentesi del titolo (“… e allora Pasolini?”), è perché si tratta di uno sviamento argomentativo proposto da chi, esplicitamente, vorrebbe proprio evitare di affrontare le questioni più stringenti (insomma, casco nella trappola, ma per capire bene come uscirci). Dunque: adesso non prenderò in considerazione il tema generale dell’ondata di contestazione che è partita dal famoso (e terribile) caso di George Floyd, di Minneapolis; non parlerò del revisionismo storico che si addensa sulla richiesta di rimuovere statue, nomi di vie o altre testimonianze che riguardano la celebrazione di personaggi o episodi riconducibili a un’ideologia razzista, colonialista, sessista; e neppure mi addentrerò nella questione concernente l’intangibilità dei monumenti considerati (con malcerta approssimazione) alla stregua di opere d’arte. Nemmeno parlerò dell’opportunità di segnalare una propria convinzione politica utilizzando metodi vandalici (anche questo è uno sviamento della discussione che viene adottato volentieri dai “benpensanti”, e che li fa emergere come il grasso nella pentola in cui cuoce il brodo).
Di cosa parlerò, quindi? Parlerò della distinzione tra pubblico e privato, o per meglio dire della questione se sia possibile (e quando, e dove) scindere questi due ambiti allorché ci occupiamo di figure che, proprio a causa della loro rilevanza pubblica, tenderebbero ad essere trattate cancellando tale discrimine. Non sono sicuro che sia possibile arrivare ad una teoria generale (del tipo: lo dobbiamo sempre fare, non è mai possibile farlo). Per questo opporre due scrittori come Pier Paolo Pasolini e Indro Montanelli – proprio mentre qualcuno sta chiedendo di compararli sotto il segno dell’abiezione morale – serve, se non a fare chiarezza, almeno a tenere fermo il punto.
Come ragiona, dunque, chi li compara? Si dice: è vero, Montanelli si è reso responsabile di un episodio (protratto) di pedofilia durante la campagna militare colonialista a cui prese parte. Ma in cosa sarebbe diverso il suo comportamento, continua l’argomento, da quello di uno scrittore come Pasolini, il quale, notoriamente, cercava con assiduità i favori sessuali di adolescenti? Non si tratta forse, in entrambi i casi, di atteggiamenti “immorali”, per di più oggi condannabili dalla legge, ma da confinare in una sfera privata che non tocca o comunque non toccherebbe la loro rispettiva grandezza pubblica (quella che fa risaltare il giornalista e lo scrittore)? La minore età delle “vittime” (poniamo la parola tra virgolette, ma solo per sospendere un ulteriore approfondimento qui eccedente lo spazio che mi sono concesso) sembra a prima vista l’unico tratto comune.
Le differenze, al contrario, sono molte. Montanelli ha abusato di una ragazzina di colore, povera, in un contesto bellico. Pasolini di ragazzini bianchi, poveri, che lambivano il terreno della prostituzione. Mentre scrivo, mentre ci penso, avverto però tutta la tensione di una differenza che minaccia costantemente di assottigliarsi, ma che pure non mi rassegno a lasciar sfumare alla luce di quella distinzione netta tra pubblico e privato che, di fatto, se lasciata sussistere senza sfumature, la dissolverebbe (dissolvendo anche la “morale”). La vera domanda da porre, perciò, diventa questa: i diversi contesti in cui si esplica una medesima, o comunque comparabile azione immorale, sono utili a divaricare nuovamente i termini dell’accostamento tra responsabilità pubblica (e quindi pubblicamente riprovevole) e responsabilità privata (e quindi non pubblicamente, ma eventualmente solo privatamente riprovevole)? E ancora: convocare il contesto, i contesti, deve servire solo a spiegare o anche a condannare?
Osserviamo intanto come i due scrittori hanno preso (o non preso) posizione sui loro singoli casi. Montanelli ha ammesso l’accaduto invocando attenuanti storiche e culturali: ero in guerra, si faceva così, lo facevano tutti (questo ovviamente non è vero), ma allora non mi sembrava di fare nulla di male e, anche ripensandoci dopo, a distanza, non credo di aver fatto nulla di male. Pasolini, al contrario, non ha mai sostenuto nulla del genere, o almeno io non ricordo nessun passaggio nella sua opera, nelle sue lettere, nelle sue interviste in cui l’adescamento di minori, da lui praticato, venisse giustificato in termini storici o culturali (ma posso sbagliarmi, e chiedo a chi ne sa più di me). Se ciò corrisponde (o corrispondesse) al vero, ecco che è Montanelli stesso a proporre un’identificazione tra la sfera pubblica e privata, non trovando nel suo comportamento privato niente di particolarmente sconveniente dal punto di vista pubblico (neppure il razzismo evidente, per dire). La reticenza di Pasolini, invece, mi pare neghi quell’identificazione, difendendo (ipocritamente o pudicamente, fate voi) la sua sfera privata.
Ma è sufficiente? L’ammissione di Montanelli non ci esime già da ogni ulteriore attribuzione di colpa? Ecco, io non credo sia sufficiente, ritengo che forse l’argomentazione dovrebbe essere spinta ulteriormente a fondo, anche se (magari in modo pregiudizievole) continuo a sentire che il traguardo sia questo: il comportamento di Montanelli, nonostante l’ammissione e, anzi, proprio per il modo, la leggerezza con la quale è stata fornita, intacca nel vivo la sua reputazione, getta un’ombra pesantissima sul suo status di giornalista al quale si dedicano statue; Pasolini, al contrario, non mi pare ne venga sminuito, la sua statura di poeta, di intellettuale, non s’incrina. Ma sto forse adottando due pesi e due misure solo perché il primo mi è meno simpatico del secondo? È davvero possibile condannare quello e salvare questo? O devono essere salvati (o condannati) entrambi? Una volta si diceva: è aperto il dibattito, posto – ripeto – che tale dibattito abbia senso, o sia solo un modo (e ho pochi dubbi sul fatto che lo sia) per sviare l’interesse dai temi più interessanti e urgenti dei quali ho accennato all’inizio, e sui quali quindi sarebbe ovviamente molto più importante insistere.