Acqua ragia

Studio Pittore

Quando si diventa vecchi – o comunque la vecchiaia non sembra più solo una parola, una mano ipotetica che potrebbe bussare alla porta, ma è qualcuno che abbiamo già fatto entrare in casa, e ora fruga tra i nostri scaffali, in una stanza, e ci guarda – si ripensa all’infanzia come alla sorgente dei ricordi e dei rimpianti. Nell’infanzia cerchiamo il paesaggio fisico e mentale nel quale nascemmo a ciò che siamo (il momento in cui saremmo diventati ciò che siamo, nel quale ci specchiamo per riconoscerci). Talvolta, per farlo, usiamo delle fotografie, non necessariamente nostre, testimonianze del tempo. E da quei reperti ci muoviamo a ritroso, come seguendo le linee di un ritratto offuscato, che ci accingiamo a completare. La scena che mi è tornata in mente è questa. Sono con mio padre, è sabato, il giorno in cui lui non lavorava, e quindi poteva dedicarmi il suo tempo, rendendomi semplicemente parte del suo. Mio padre amava la pittura, frequentava lo studio di alcuni pittori emuli della tradizione macchiaiola toscana, e andava spesso a trovarli, portandomi con sé. Uno di loro si chiamava Giovannelli, un altro Biondi, un altro ancora Martini. Non erano pittori eccelsi, tutt’altro. Ognuno di loro era parte di un tutto indistinto, di una tradizione appunto, e su questa trama, su questo sfondo, si limitavano a distillare il loro accento personale. Traevano più forza dall’appartenenza comune che dalla propria voce inconfondibile (forse solo noi li potevamo ancora distinguere). I loro studi erano spesso solo una stanza d’appartamento, affollata di cose, di tele, di colori e di odori. Quello più pungente (a me carissimo) era l’odore dell’acqua ragia, un solvente utilizzato per pulire i pennelli. Perché quell’odore mi piaceva così tanto, qual era la sua promessa? L’interpretazione che ne posso dare oggi non riesce a risalire alla sensazione originaria, è costretta a mediarne il ricordo con tutto ciò che ho vissuto in seguito. Direi allora così: in quell’odore si annunciava la forma del futuro, la rifondazione di un mondo. Era come se, finito un dipinto, il pittore decidesse di ripartire da capo, liberandosi dal proprio passato, da ciò che era stato raffigurato, e si ponesse a dipingere l’opera che avrebbe potuto spezzare il tempo in due, in un prima e in un dopo. In realtà non accadeva mai, non accade quasi mai. Una volta puliti, i pennelli erano già mossi a rifare ciò che avevano sempre fatto, metodicamente replicando un quadro simile al precedente. L’acqua ragia non era così l’odore della rivoluzione, ma solo della sua promessa, come dicevo, che restava nell’aria – persistente – per alitare sulle cose che sono la possibilità di diventare altro da ciò che erano e sarebbero nuovamente state. Ecco dunque questo riandare all’infanzia, ai suoi odori, cosa nasconde: l’ultimo desiderio di poter avere avuto una vita diversa all’alba di quella che poi abbiamo effettivamente vissuto.

#maltrattamenti

Montanelli era un porco (e allora Pasolini?)

Pasolini monumento

Svolgerò una riflessione al margine della polemica che sta infiammando l’opinione pubblica in questi giorni (è anche un buon segno, fra l’altro, significa che il virus sta almeno abbandonando il centro dei nostri discorsi, sperando che non se ne risenta, e poi ritorni più incrudelito di prima).

Se qui alludo ad un “margine” significa però che intendo restringere l’osservazione di questa polemica, limitandone di molto il campo. Dirò perciò innanzitutto ciò che non prenderò in considerazione, ma dirò anche che ciò di cui non parlerò è invece più importante della riflessione alla quale mi dedicherò adesso: se lo faccio, ponendomi il quesito contenuto nella parentesi del titolo (“… e allora Pasolini?”), è perché si tratta di uno sviamento argomentativo proposto da chi, esplicitamente, vorrebbe proprio evitare di affrontare le questioni più stringenti (insomma, casco nella trappola, ma per capire bene come uscirci). Dunque: adesso non prenderò in considerazione il tema generale dell’ondata di contestazione che è partita dal famoso (e terribile) caso di George Floyd, di Minneapolis; non parlerò del revisionismo storico che si addensa sulla richiesta di rimuovere statue, nomi di vie o altre testimonianze che riguardano la celebrazione di personaggi o episodi riconducibili a un’ideologia razzista, colonialista, sessista; e neppure mi addentrerò nella questione concernente l’intangibilità dei monumenti considerati (con malcerta approssimazione) alla stregua di opere d’arte. Nemmeno parlerò dell’opportunità di segnalare una propria convinzione politica utilizzando metodi vandalici (anche questo è uno sviamento della discussione che viene adottato volentieri dai “benpensanti”, e che li fa emergere come il grasso nella pentola in cui cuoce il brodo).

Di cosa parlerò, quindi? Parlerò della distinzione tra pubblico e privato, o per meglio dire della questione se sia possibile (e quando, e dove) scindere questi due ambiti allorché ci occupiamo di figure che, proprio a causa della loro rilevanza pubblica, tenderebbero ad essere trattate cancellando tale discrimine. Non sono sicuro che sia possibile arrivare ad una teoria generale (del tipo: lo dobbiamo sempre fare, non è mai possibile farlo). Per questo opporre due scrittori come Pier Paolo Pasolini e Indro Montanelli – proprio mentre qualcuno sta chiedendo di compararli sotto il segno dell’abiezione morale – serve, se non a fare chiarezza, almeno a tenere fermo il punto.

Come ragiona, dunque, chi li compara? Si dice: è vero, Montanelli si è reso responsabile di un episodio (protratto) di pedofilia durante la campagna militare colonialista a cui prese parte. Ma in cosa sarebbe diverso il suo comportamento, continua l’argomento, da quello di uno scrittore come Pasolini, il quale, notoriamente, cercava con assiduità i favori sessuali di adolescenti? Non si tratta forse, in entrambi i casi, di atteggiamenti “immorali”, per di più oggi condannabili dalla legge, ma da confinare in una sfera privata che non tocca o comunque non toccherebbe la loro rispettiva grandezza pubblica (quella che fa risaltare il giornalista e lo scrittore)? La minore età delle “vittime” (poniamo la parola tra virgolette, ma solo per sospendere un ulteriore approfondimento qui eccedente lo spazio che mi sono concesso) sembra a prima vista l’unico tratto comune.

Le differenze, al contrario, sono molte. Montanelli ha abusato di una ragazzina di colore, povera, in un contesto bellico. Pasolini di ragazzini bianchi, poveri, che lambivano il terreno della prostituzione. Mentre scrivo, mentre ci penso, avverto però tutta la tensione di una differenza che minaccia costantemente di assottigliarsi, ma che pure non mi rassegno a lasciar sfumare alla luce di quella distinzione netta tra pubblico e privato che, di fatto, se lasciata sussistere senza sfumature, la dissolverebbe (dissolvendo anche la “morale”). La vera domanda da porre, perciò, diventa questa: i diversi contesti in cui si esplica una medesima, o comunque comparabile azione immorale, sono utili a divaricare nuovamente i termini dell’accostamento tra responsabilità pubblica (e quindi pubblicamente riprovevole) e responsabilità privata (e quindi non pubblicamente, ma eventualmente solo privatamente riprovevole)? E ancora: convocare il contesto, i contesti, deve servire solo a spiegare o anche a condannare?

Osserviamo intanto come i due scrittori hanno preso (o non preso) posizione sui loro singoli casi. Montanelli ha ammesso l’accaduto invocando attenuanti storiche e culturali: ero in guerra, si faceva così, lo facevano tutti (questo ovviamente non è vero), ma allora non mi sembrava di fare nulla di male e, anche ripensandoci dopo, a distanza, non credo di aver fatto nulla di male. Pasolini, al contrario, non ha mai sostenuto nulla del genere, o almeno io non ricordo nessun passaggio nella sua opera, nelle sue lettere, nelle sue interviste in cui l’adescamento di minori, da lui praticato, venisse giustificato in termini storici o culturali (ma posso sbagliarmi, e chiedo a chi ne sa più di me). Se ciò corrisponde (o corrispondesse) al vero, ecco che è Montanelli stesso a proporre un’identificazione tra la sfera pubblica e privata, non trovando nel suo comportamento privato niente di particolarmente sconveniente dal punto di vista pubblico (neppure il razzismo evidente, per dire). La reticenza di Pasolini, invece, mi pare neghi quell’identificazione, difendendo (ipocritamente o pudicamente, fate voi) la sua sfera privata.

Ma è sufficiente? L’ammissione di Montanelli non ci esime già da ogni ulteriore attribuzione di colpa? Ecco, io non credo sia sufficiente, ritengo che forse l’argomentazione dovrebbe essere spinta ulteriormente a fondo, anche se (magari in modo pregiudizievole) continuo a sentire che il traguardo sia questo: il comportamento di Montanelli, nonostante l’ammissione e, anzi, proprio per il modo, la leggerezza con la quale è stata fornita, intacca nel vivo la sua reputazione, getta un’ombra pesantissima sul suo status di giornalista al quale si dedicano statue; Pasolini, al contrario, non mi pare ne venga sminuito, la sua statura di poeta, di intellettuale, non s’incrina. Ma sto forse adottando due pesi e due misure solo perché il primo mi è meno simpatico del secondo? È davvero possibile condannare quello e salvare questo? O devono essere salvati (o condannati) entrambi? Una volta si diceva: è aperto il dibattito, posto – ripeto – che tale dibattito abbia senso, o sia solo un modo (e ho pochi dubbi sul fatto che lo sia) per sviare l’interesse dai temi più interessanti e urgenti dei quali ho accennato all’inizio, e sui quali quindi sarebbe ovviamente molto più importante insistere.

Uscire dalla gabbia del provincialismo (Arbasino per tutti e per nessuno)

alberto arbasino

Mi sono imbarcato in un’impresa che non porterò probabilmente a termine: leggermi tutto “Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino. Sono a pagina 70, il traguardo sarebbe a pagina 1371 dell’edizione economica Adelphi (che ha un meraviglioso color salmone e in copertina una foto dello scrittore giovane, nel 1963). Perché vale comunque la pena attendere a un’impresa del genere, rischiando lo scacco, anzi avendo la sicurezza dello scacco? Innanzitutto perché Arbasino è uno di quegli autori che sta tutto dentro una frase, e in effetti non ci sarebbe bisogno di leggere un intero libro o un mastodonte del genere. Eppure, è solo cercando almeno di comprenderne tutta l’opera, magari anche solo per abbracciarla con lo sguardo, che la rilevanza di una singola frase balza agli occhi per ciò che può davvero significare. E quale sarebbe, dunque, in cosa consisterebbe questo “significare”? Dirò una cosa banale ma non per questo meno vera: Arbasino è un salvifico antidoto a uno dei mali che segnano maggiormente la letteratura e in generale la cultura italiana: il provincialismo. Sul provincialismo bisogna però intendersi, considerandolo per ciò che esattamente è, ovvero un velleitarismo da rovesciare. Velleitario sarebbe credere che per capire il mondo occorra necessariamente abbandonare il piccolo luogo nel quale siamo più o meno tutti confinati, in modo da stabilire le giuste proporzioni tra ciò che è particolare e ciò che è universale. Ma si può restare benissimo provinciali anche trasferendoci in una grande città, supponendo cioè che tanto basti per ampliare il nostro sguardo. A chi sa coltivare lo sguardo, in realtà, anche la provincia fornisce gli strumenti per attingere l’universale. Ma velleitario è allora esattamente questo: il credere che tanto basti. Provinciale è chi si accontenta, chi ritiene che il punto di partenza sia già un arrivo (o meglio ancora, chi ritiene che si possa arrivare da qualche parte). Arbasino, al contrario, non ha mai creduto che si potesse arrivare. Infatti anche con un libro come “Fratelli d’Italia” non si arriva mai, e l’autore avrebbe potuto riscriverlo all’infinito (cercando di ampliarne la mole o aggiungendo e sottraendone frammenti a mano mano che la realtà descritta mutava forma), così come a noi tocca, in effetti, leggerlo all’infinito. Bisognerebbe davvero sempre scrivere o anche vivere così: in between, cercando e rifacendo da capo, puntando a una mobilità della frase che insegue la mobilità del mondo. In questo senso la prosa di Arbasino – sostanzialmente incomprensibile e impenetrabile a chi non dispone di tutti i riferimenti che egli riesce a comprimere nella pagina – diventa anche estremamente leggera, e invita a fluttuare. Insomma, mentre il provincialismo risulta subito comprensibile ma ci tira in basso, con Arbasino non capiamo quasi nulla ma riusciamo a volare, diventiamo atmosferici. Per chiunque si senta oppresso da una visione delle cose che induce a prendere una posizione netta, a illudersi di poter decidere su questo o su quello, lui ci fa capire che sarebbe potuta andare in mille modi diversi e che potrebbe ancora andare così. La giornata è afosa, non sapete cosa fare e vi sentite inchiodati? La sua scrittura è come salire su una cabriolet velocissima che vi porterà via, il vento sulla faccia. Per Arbasino vale quanto Nietzsche – autore che assomiglia ad Arbasino solo per pochi, ancorché decisivi, tratti – diceva del suo Zarathustra: ha scritto libri per tutti e per nessuno. Sentirsi tutti e nessuno è esattamente il primo segno che stiamo forzando la gabbia del nostro provincialismo. E Dio sa quanto ne avremmo bisogno.

#maltrattamenti

Cervello, cuore e confini

Brennero

Un confine è sempre una ferita, anche quando appare rimarginata, anche se la problematicità che la riguarda ha a che fare più col passato che col tempo presente. Non fa eccezione il confine del Brennero, per il quale la retorica dell’incontro e del passaggio sugli abissi della storia verrà sempre compensata, o per meglio dire ricalibrata, dalle esigenze mai sopite della logica nazionale. Chi volesse spiegarne la dinamica limitandosi agli ultimi cento anni dovrebbe dotarsi di molto tempo e spendere copiose parole.

Per commentare i fatti recenti – contrassegnati dalla ritrosia austriaca ad aprire il proprio confine con il vicino sudtirolese e italiano (i due termini qui siano intesi solo incidentalmente come sinonimi) – è sufficiente invece grattare lo smalto dell’espressione che, più e meglio di altre, ha imbastito la retorica unionista: Herzensangelegenheit (una faccenda di cuore). Lo sappiamo: l’Austria qualifica come faccenda di cuore la relazione col Tirolo meridionale allorché la sua funzione di tutela viene periodicamente evocata in caso di paventata minaccia da parte dei peraltro assai flebili (e in buona sostanza velleitari) rigurgiti centralisti italiani; oppure quando, altrettanto periodicamente, l’eterno sogno di un ricongiungimento territoriale partorisce stramberie di contrapposto significato, per esempio quella del doppio passaporto. Come per ogni cuore che si rispetti, però, alla fase diastolica della protezione è sempre pronta a succedere quella sistolica, e allora Vienna percepisce improvvisamente il Brennero non alla stregua di una sbarra da tenere sollevata, ma come un bastione da rinforzare, a scorno dei patrioti provvisti di schioppetto e propensi a lordare la vigente segnaletica stradale. Accade a proposito della crisi migratoria di qualche anno fa, sta accadendo adesso per colpa del virus: il cuore magari non smette di battere, ci mancherebbe, ogni tanto si evidenziano comunque problemi di ipertensione.

Se il cuore appare così un organo abbastanza inaffidabile, sarebbe auspicabile lasciar lavorare il cervello (posto di trovarne esemplari ancora in funzione). Qui i dubbi tendono già a diradarsi: una posizione d’intransigente chiusura può essere mantenuta per poco, e alla fine è sicuro che la questione si sgonfi rapidamente come si è sgonfiata quella che ha visto opporsi la provincia altoatesina e il governo di Roma in occasione del varo della cosiddetta fase 2. Altrettanto inverosimile è che venga proposta una soluzione parziale, provando cioè a considerare la provincia di Bolzano un’oasi di salute miracolosamente immune dai malanni riscontrabili sotto la chiusa di Salorno (l’Euregio, si sa, non è mai stato abbastanza una Herzensangelegenheit). Tempo qualche giorno, al massimo un paio di settimane, la sbarra si rialzerà con calici levati e zuppa d’orzo per tutti. Ciò vuol forse dire che il problema sarà anche definitivamente risolto? Non scherziamo. Enrico De Zordo, il miglior scrittore di lingua italiana residente in Sudtirolo, ha scritto nei suoi Divertimenti tristi: “Qui da noi il confine non è lineare, non circonda un territorio. Esso è bensì un’atmosfera, una circonferenza allo stato gassoso sparpagliata dai venti d’Europa. È qualcosa di imponderabile: un pulviscolo di catene montagnose, caserme, tradizioni, accordi internazionali, ex dogane. È la turbolenza in cui viviamo, l’aria che respiriamo”. Il confine, rassegniamoci, non si comporta in modo troppo diverso da un virus insensibile ai più efficaci vaccini: bisogna conviverci.

Corriere dell’Alto Adige, 6 giugno 2020

Ne usciremo migliori

Gilet arancioni

Chissà perché avremmo dovuto “uscirne migliori”. Ma ogni volta è così. Ci abbindolano un paio di proverbi dettati dalla disperazione al senso comune – non tutti i mali vengono per nuocere, bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno, una crisi è sempre anche un’occasione –, e li ripetiamo a pappagallo. Nel suo intramontabile “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere”, Giacomo Leopardi enuncia una verità difficilmente confutabile: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». Così, da una disgrazia, da un colpo sfortunato, persino da una catastrofe, siamo già subito pronti a risollevarci, dicendo che l’esperienza ci è servita, e che la prossima volta andrà sicuramente meglio. Non sbaglieremo più. In realtà sono rarissimi i casi in cui un evento contribuisce davvero a cambiarci, a farci uscire migliori, appunto. La “palingenesi” è una favola che i genitori raccontano ai figli un minuto prima di farli addormentare. Per convincerli che tra poche ore, anche se magari turbati da sonni inquieti, non si risveglieranno trasformati in uno scarafaggio, o verranno arrestati senza che abbiano fatto nulla di male. Domani andrà tutto meglio, ripetono i genitori ai bambini, mentre rimboccano loro le coperte. Ma chi ci crede? «I miei dubbi – ha scritto E.M. Cioran in uno dei suoi fulminanti aforismi – non sono riusciti ad avere ragione dei miei automatismi. Continuo a fare gesti a cui mi è impossibile aderire. Superare il dramma di questa insincerità, sarebbe rinnegarmi e annullarmi». Il virus assomiglia a una lezione impartita per videoconferenza: erano tutti collegati, ma non ascoltava quasi nessuno. Sarebbe già abbastanza evitare di illudersi, dichiararsi subito incurabili, riconoscendo che l’unica vera e grande malattia di cui soffriamo è quella di desiderare di diventare qualcosa in più di ciò che non potremo mai cessare di essere.

ff – La colonnina – 04 Juni 2020

Per non essere più invisibili

Una casa sull'argine

Nuovamente disponibile in libreria “Una casa sull’argine”, piccolo classico altoatesino pubblicato dal giornalista bolzanino Gianni Bianco nel 1965.

Il gioco di parole è facile, anche se un po’ irrispettoso. Cosa accadde in Italia e in Sudtirolo tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta? Per sintetizzare: dal “boom” (economico) ai vari “bum!” (le detonazioni degli attentati indipendentisti) fino al congresso Svp di Merano (22 novembre 1969) e all’esplosione della bomba di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre, stesso anno)? Un decennio cruciale, con le ustioni della seconda guerra mondiale ancora visibili sull’anima, le sue macerie accatastate nella memoria, ma anche la voglia di vivere in un mondo diverso, più giusto e libero. E la letteratura? Come registrò la letteratura quel passaggio, permettendo alle sensazioni di restare impigliate in pagine da rileggere magari anni dopo, non solo per ricordare, ma anche per comprendere?

Un comprendere che è stato a lungo e in larga parte un fraintendere. All’inizio del capitolo intitolato “Gli anni Cinquanta e Sessanta” del suo “Un limbo di frontiera” (1998) – ampia ricognizione sulla produzione letteraria in lingua italiana in Alto Adige –, lo storico Carlo Romeo ha scritto: «Negli anni Cinquanta l’Alto Adige continua ad essere un “pianeta oscuro” per gli inviati nazionali, che nei loro reportage riproducono il topos del piccolo mondo montano, refrattario alle novità, semplificando spesso le tensioni etniche nella prospettiva di un semplice contrasto tra ruralità e modernità». Topos persistente anche oltre quel periodo, a ben vedere, tanto che se ne potrebbe tracciare una linea che raggiunge il famigerato libro di Sebastiano Vassalli “Sangue e suolo”, del 1985, e persino il contributo all’esegesi della (recente?) situazione locale offerto dal bolzanino Daniele Rielli (“Io che ho attraversato l’Alto Adige”) contenuto nella raccolta “Storie dal mondo nuovo” (2016). Da evidenziare, quindi, restano le eccezioni, vale a dire le narrazioni che non si arrendono al cliché evocato, ma intendono articolare un confronto più problematico, indispensabile per meditare sulla genesi di quella contrapposizione e mettere in pratica la convivenza sempre rinviata.

È in questa cornice che s’inquadra la riproposizione di un piccolo classico dimenticato (talvolta citato, ma quasi sempre non letto) della letteratura altoatesina degli anni Sessanta – “Una casa sull’argine”, scritto dal giornalista Gianni Bianco (1932-2015) nel 1965 –, che inaugura la nuova collana “TravenReprint” delle Edizioni alphabeta Verlag. Al di là del valore intrinseco del volume, che ha parti di notevole spessore letterario (si veda in particolare il modo con il vengono rievocati certi episodi del periodo tra il 1943 e il 1945, relativi dunque al tragico biennio bellico che seguì l’8 settembre), il libro di Bianco fotografa lo sforzo compiuto dai migliori esponenti del gruppo linguistico italiano di allora nel cercare un “radicamento” in una terra che continuava a rifiutarli, spingendoli dunque sciaguratamente dentro il paradigma dell’invisibilità codificato da Vassalli. Non è un caso, perciò, che il romanzo venisse lodato per tempo da alcuni tedeschi “dissidenti” (due nomi su tutti: Claus Gatterer e Norbert C. Kaser), ma poi sia sparito dalla circolazione, risultando di fatto sconosciuto anche alla gran parte degli “italiani”, i quali dovranno infatti aspettare decenni per ritrovare sul mercato editoriale storie in grado di raccontarli e di raccontare questa terra in un modo lontano dagli stereotipi (l’esempio più noto è quello di “Eva dorme”, di Francesca Melandri, che ha compiuto i suoi primi 10 anni dalla data di pubblicazione).

Che cosa potrebbero apprezzare, allora, nuovi lettori di un libro scritto 55 anni fa? Innanzitutto il sapore del tempo passato, certamente, che affiora nella descrizione dei paesaggi, dei costumi, o nelle pieghe dei dialoghi. Una Bolzano e un Alto Adige che parranno tratteggiati in bianco e nero, ma con toni tutt’altro che sbiaditi, perché è da quell’impasto a forti contrasti, come può esserlo una storia d’amore appesantita dal vizio d’origine della frattura etnica, che noi scorgiamo le nevrosi che ancora ci caratterizzano, e ci bloccano, nonostante adesso esse si siano alquanto diluite, o abbiano cambiato intensità, non essendo più attorno a noi, ma sepolte a una profondità che solo in rare occasioni, anch’esse ormai peraltro fossilizzate e anestetizzate, prendono nuovamente a increspare la superficie dell’indifferenza, ovvero la normalità del nostro modello di convivenza. Ed è proprio questo il motivo di maggior interesse. Nel decennio tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, l’abbiamo visto, il deficit di comprensione, il bisogno di spezzare l’incantamento dell’invisibilità reciproca tra i gruppi linguistici, allora declinatasi in ostilità, poteva essere giustificato dalla presenza di traumi ancora troppo recenti. Oggi tale giustificazione non dovrebbe però più esserci, dovrebbe essere relegata negli angoli più insensibili ed estremistici, eppure la non conoscenza in larga parte permane, forse si è addirittura estesa. Tornare a rileggere libri come “Una casa sull’argine”, quindi, può essere utile più alla cura del nostro futuro che alla manutenzione del passato. La letteratura resta uno strumento ancora insostituibile per farlo.

ff – 04 Juni 2020