Raccontare la “follia”

Questa breve nota (preludio dell’intervista che la conclude) è intesa come raccolta di un materiale utile a impostare il senso di una domanda: alla psichiatria serve la narrazione? La parola “narrazione” include anche la sua specificazione artistica, cioè la “narrativa” propriamente detta. Quindi anche racconti o romanzi che parlino di “follia” e di rapporti con la “follia”. Lo spunto mi è offerto da un libro molto bello (La sindrome di Ræbenson, Atlantide 2023) scritto da uno psichiatra assai dotato dal punto di vista letterario: Giuseppe Quaranta. Prima di passare all’intervista, ecco alcune dichiarazioni dell’autore trovate in rete:

“Ho riflettuto su cosa significhi avere una malattia psichiatrica, sulla difficoltà che c’è spesso di comunicazione tra chi ha un disturbo psichico e i suoi conoscenti, sul fatto che molto spesso le diagnosi siano insufficienti per esprimere i vissuti di ciascuno, e che la sindrome di Ræbenson, nella sua irrealtà, non sia meno reale di tante diagnosi codificate nei manuali diagnostici e che sono però lontane dal buio di solitudine e disperazione in cui sono molti”.

Forse la letteratura è un modo per accendere una luce in quel buio.

Intervista a Giuseppe Quaranta

Qual è stato il percorso che l’ha portata ad affrontare letterariamente un tema di natura psichiatrica?

Si consiglia sempre agli scrittori esordienti di occuparsi del proprio piccolo pezzo di terra, e io mi sono attenuto il più possibile a questo consiglio: ho cercato una storia tra le cose che conoscevo meglio, quelle inerenti la mia professione. Sicuramente, la rara libertà di parola concessa al paziente con disagio psichico ha fornito a moltissimi scrittori la cornice perfetta per una confessione di fantasia. Penso ad esempio a “La coscienza di Zeno”, ma anche a “Lamento di Portnoy”, a “Il giovane Holden” di Salinger. Quello che intravedevo in quei libri era una completa assenza di dialogo tra paziente e terapeuta. Nessun ponte. La figura dello psichiatra in questi romanzi rimaneva perlopiù fuori dalla storia. Lo psichiatra di Roth, ad esempio, non parla mai. Sono oggetti, non interlocutori. Lo strizzacervelli nei romanzi, generalmente, è quasi sprovvisto di vita interiore. L’idea dell’analista o psichiatra come figura neutrale mi ha sempre colpito per la sua fallacia, così come chiaramente qualsiasi nozione di oggettività in campo scientifico. Il narratore-psichiatra che segue le vicende di Deltito nel mio romanzo, La sindrome di Ræbenson, non rimane sullo sfondo, non mantiene le distanze come ci si aspetterebbe, ma si cala nella storia, partecipa ai vissuti, si lascia assorbire.

Quali nessi vede nel plesso letteratura salute/disagio mentale?

    Penso che il disagio mentale amplifichi le possibilità della letteratura, così come ogni forma di sguardo differente e non omologato sulla realtà. Lo scrittore, da questo punto di vista, è come un paziente; ha la stessa difficoltà. Come succede nell’anamorfosi, una tecnica pittorica che non ti consente di vedere l’oggetto all’interno di un quadro fino a che non ti sposti e non lo osservi da un’angolatura differente, anche lo scrittore, come i pazienti, ha bisogno di spostarsi per vedere come risolvere o mettere a fuoco il suo problema. Il luogo della trattativa, diceva Manganelli, si trova sempre altrove, ed è spesso un luogo periclitante, faticoso, ma è l’unico possibile. La terapia è solo di tipo psicoeducativo: la letteratura ha a che fare con un esercizio costante delle proprie facoltà intellettive, con una espansione della propria coscienza. Questo non può che essere una forza.

      Che autori o libri consiglierebbe per mettere ulteriormente a fuoco il tema?

      Gli autori o i libri che hanno trattato il disagio psichico sono tanti. In Italia, abbiamo Tobino, Berto, Morselli e tanti altri… Per quanto riguarda i contemporanei, penso a “L’uomo che trema” di Pomella, a “Svegliami a mezzanotte” di Fuani Marino… Consiglio, inoltre, un libro meraviglioso di Carmen Maria Machado, “Nella casa dei sogni”, la storia di una relazione tossica, borderline. Molto belli anche i libri di Siri Hustvedt.

      Il medico che chiese perdono

      100 anni fa nacque a Venezia lo psichiatra Franco Basaglia. Un’occasione per riflettere sulla sua eredità, anche in Sudtirolo.

      Al pari di Mauro Covacich nel libro “Storia di pazzi e normali” (Laterza 2007), possiamo partire anche noi dal “Posto delle fragole”, cioè sia dalla scena del bar-ristorante ubicato nel parco dell’ex Ospedale Psichiatrico San Giovanni, a Trieste, sia dal film che porta lo stesso nome. Riferimenti obbligati. Fu proprio infatti da quel luogo che, nel 1978, si diffuse l’annuncio della chiusura dei manicomi italiani (Trieste il primo, poi via via tutti gli altri). Come noto, la legge che permise un tale progresso porta due titoli. Quello scarno, relativo alla sua numerazione cronologica (180/78), e quello che la identifica con il nome del suo principale promotore, Franco Basaglia, lo psichiatra che riuscì “a rendere possibile l’impossibile”. E poi il film, il capolavoro di Ingmar Bergman uscito nel 1957. Proprio una sequenza di quella pellicola illumina il senso di un approccio alla salute mentale (ma anche alla salute sociale, ché con Basaglia le cose si implicano) ineludibile in tempi, come questi, di rinnovate chiusure o rigidità istituzionali.

      Ecco il vecchio medico Isak Borg, dunque, che sogna di ripetere un esame universitario, una prova intesa non solo a sondare le sue conoscenze, ma anche la sua vita, al momento trattenuta in un cono di profonda oscurità esistenziale. L’esaminatore ha impresso sulla lavagna una frase misteriosa, scritta in una lingua indecifrabile come quella dei pazzi (“Inke tan magrov stak farsin los kret fajne kaserte mjotron presete”), nella quale si celerebbe la definizione del “primo dovere di un medico”. Borg non sa rispondere, è frastornato, come se tutte le sue presunte certezze si sfaldassero a contatto con una realtà diventata sfuggente e ostile. È allora l’esaminatore a rivelare il senso di quella frase, cioè quale sia il dovere essenziale di un medico: chiedere perdono! Ma chiedere perdono a chi, per cosa? E soprattutto: cosa c’entra questo sogno, questo apologo, con Basaglia, la sua riforma e la sua eredità?

      In un volume dedicato al tema della “diagnosi”, anche Vittorio Lingiardi si è servito della citazione bergmaniana per parlare del rischio che fra il medico e il paziente possa emergere una relazione asimmetrica, in ultima istanza violenta: «Storie di condizionamento, manipolazione psicologica, abuso fisico e sessuale, sfruttamento economico, imperizia e negligenza sono ahimé frequenti nel mondo delle professioni di assistenza, cura, insegnamento e formazione. Più forte è la luce, più grande è l’ombra» (cfr. V. Lingiardi, “Diagnosi e destino”, Einaudi 2018). Ora, se ciò è vero in generale, ecco il punto decisivo individuato da Basaglia, nel caso della cosiddetta psichiatria asilare, dunque all’interno dei manicomi, era solo l’ombra a sussistere, perché i condizionamenti, le manipolazioni e gli abusi non si davano lì come eccezioni, bensì rappresentavano la regola. E neppure addolcire, rendere il più possibile “umana” l’istituzione preposta alla sorveglianza e al controllo di chi non veniva considerato “normale”, poteva offrire una soluzione. Ispirandosi alle acquisizioni della fenomenologia, si trattava perciò di mettere tra parentesi, azzerare le dinamiche operanti sia dentro che fuori le mura dei manicomi, che infatti possono sopravvivere al loro abbattimento e riprodursi in altri modi (per esempio lasciando sempre più campo alla contenzione farmacologica). Occorreva, insomma, deistituzionalizzare la stessa psichiatria: «Per far questo bisogna che noi stessi – gli appaltatori del potere e della violenza – prendiamo coscienza di essere a nostra volta esclusi, nel momento stesso in cui siamo oggettivati nel nostro ruolo di escludenti» (F. Basaglia, “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, Einaudi 1968).

      Dopo aver chiesto perdono, dopo aver abbattuto i muri dei manicomi, e dopo aver capito che l’unica misura terapeutica efficace è in primo luogo quella di ridare dignità ai malati, restituendo loro la libertà e la soggettività, cosa resta? Sono state effettivamente realizzate misure in grado di spezzare l’asimmetria della quale parlava Lingiardi e, conseguentemente, si è corrisposto al progetto basagliano consistente nel «rifiutare l’atto terapeutico qualora tenda solo a mitigare le reazioni dell’escluso nei confronti del suo escludente»? A rispondere è Antonio Luchetti, medico e psichiatra formatosi presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e attualmente operante a Merano, al quale chiedo di parlarmi del lascito basagliano, eventualmente focalizzando anche la nostra provincia: «Non ne farei una questione locale. Se il movimento ha portato ad una deprofessionalizzazione delle pratiche “psichiatriche”, e a una sua despecializzazione, sospendendo i propri saperi per agire in modo trasformativo e politico sul reale, purtroppo poi si è assistito un po’ ovunque all’emergere di nuove forme di istituzioni diffuse, abitate da una psichiatria che si è riorganizzata, ritecnicizzata e riaffermata come branca medica biologica e neuroscientifica in grado di sostenere pratiche anche e tutt’ora, in alcuni casi e in alcune forme, violente». Un consuntivo alquanto disilluso, che non vuole nascondere i problemi attuali dietro le celebrazioni suggerite dal calendario: «Credo che il ricordare Franco Basaglia a 100 anni dalla sua nascita, e il movimento collettivo che assieme a lui si è costituito, non debba promuovere la costruzione di un monumento ideologico ma proseguire nello smontaggio della tendenza a semplificare della psichiatria, del suo confondere potere (ed educare) con sapere (e cura), portando invece alla costante definizione di pratiche, alla creazione di alleanze tra diversi attori e all’invenzione di strategie che della sofferenza dell’uomo possano farsi carico anche fuori dai luoghi in cui riteniamo siano ancora confinati quelli che stanno male».

      Chi si è sempre dimostrato attento a non “monumentalizzare” Basaglia, recependone anzi lo stimolo a muoversi tra i margini, ad apprezzare le sfumature e gli scarti di ambiti che altri pretenderebbero di trattare in modo separato, è Aldo Mazza, il fondatore della scuola Alphabeta, e poi dell’omonima casa editrice meranese, che proprio all’eredità di Franco Basaglia dedicò nel 2011 la collana “180. Archivio Critico della Salute Mentale”. Oggi quel prezioso catalogo è stato acquisito dalla casa editrice Meltemi, che da poco ha ristampato la monografia sul grande veneziano scritta da Mario Colucci e Pietrangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori 2001, Edizioni alphabeta Verlag 2020, Meltemi 2024). A Mazza ho chiesto perché, nonostante il suo impegno e l’indubbio successo della collana (un film – “Il viaggio di Marco Cavallo” – sulla chiusura degli OPG, 26 titoli, 38.000 volumi venduti), in Sudtirolo il riscontro sia stato minimo: «Innanzitutto c’è da dire che l’impostazione basagliana non sia mai stata qui, in provincia di Bolzano, particolarmente apprezzata o comunque recepita. Altre le sfere d’influenza, e i pochi psichiatri che vi si riferivano non hanno potuto disporre di un ambiente propenso a cogliere appieno il messaggio della deistituzionalizzazione. Per quanto riguarda i nostri libri, poi, bisogna dire che il fatto di essere stati pubblicati in italiano non ha certo favorito la loro diffusione all’interno della Heimat. Del resto, è vero anche che la rete promozionale che abbiamo sfruttato era orientata in gran parte fuori dai nostri confini, quindi non potevamo aspettarci molto di più». Il passaggio della collana 180 a un editore a tutti gli effetti nazionale, questo l’auspicio di Mazza, potrà forse consentire alla figura di Basaglia di essere conosciuta e valorizzata come senza dubbio merita.

      ff – 11 aprile 2024

      Kaiser, Gott und Käse

      La notizia risale a tre anni fa, ma è esplosa soltanto adesso a causa di un rigurgito (il verbo non è scelto per caso) a rilascio lento. I fatti: con un comunicato stampa del 26 aprile del 2021, Massimiliano Rizzi, direttore generale dell’“agenzia di comunicazione integrata” Milk adv (con sede nel Veneto), annunciava di aver dato inizio a una “partnership” con il Centro Latte Bressanone (Brimi) basato – manco a dirlo – su “design distintivo, impatto cromatico, armonia d’insieme”. La collaborazione in questione si concentrava su un prodotto in particolare, una nuova “mozzarella”, che la ditta situata a Varna avrebbe di lì a poco lanciato sul mercato (italiano) utilizzando i seguenti contenuti: formaggio tradizionalmente italiano, toponimo monolingue italiano (Bressanone) e materia prima totalmente italiana (100% latte italiano, si legge, cioè “munto” da vacche fisicamente allevate in Italia). Non solo: sulla confezione sarebbe comparsa anche una scritta (“Antica Latteria Bressanone”) e una data (1929) che – trasponendo “in chiave moderna” una proposta dal “sapore vintage”, lasciamo in sospeso se storicamente fondata o inventata di sana pianta – avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei suoi realizzatori, solleticare maggiormente i possibili acquirenti.

      Ora, è probabile che di tutta questa operazione non ci saremmo neppure accorti se, qui da noi, non esistessero dei veri e propri professionisti del contrasto etnico, ultimamente un po’ abbacchiati dalle tendenze politiche prevalenti (abbiamo un governo in cui la Svp va a braccetto con gli ex nazionalisti italiani e un neo- vicepresidente della giunta provinciale che inneggia ad Andreas Hofer e si dichiara orgoglioso di rilasciare la sua dichiarazione di appartenenza linguistica), e perciò ridottisi a cercare occasioni di scandalo sui banchi dei supermercati. La filiera dello scontento, questa volta, ha funzionato così: una piattaforma online da anni dedita a battere il chiodo arrugginito dell’indipendentismo inclusivo (sic) è caduta dalla sedia improvvisamente notando l’esistenza di questa ominosa mozzarella “tolomeiana”, il comandante degli Schützen sudtirolesi ha interpretato il formaggio a pasta filata come l’ennesimo cavallo di Troia dell’italianizzazione forzata, nonché come una concreta minaccia portata alla nuova triade identitaria “Kaiser, Gott und Käse”, infine un quotidiano locale ha sintetizzato il tutto con un titolo che, se esistesse, potrebbe tranquillamente vincere il premio del cortocircuito sociologico dell’anno: “Die walsche Mozzarella”.

      Chissà come finirà, adesso, questa storia. Anzi, lo sappiamo: non accadrà nulla. Se la mozzarella targata “Bressanone” piacerà, verrà ancora prodotta e venduta senza preoccuparsi troppo di simili oziose polemiche. Ma poi, mi chiedo, stiamo parlando di una mozzarella buona o no? Io, non avendola assaggiata, non esprimo giudizi. Mi limito a rammentare un brano di Roberto Saviano che ci riporta all’essenziale: «Mio padre – scriveva lo scrittore campano, autore di “Gomorra” – mi mandava a fare scorpacciate di mozzarelle mondragonesi, ma quale territorio aveva il primato della mozzarella più buona era impossibile stabilirlo. I sapori erano troppo diversi, quello dolciastro e leggero della mozzarella di Battipaglia, quello salato e corposo della mozzarella aversana e poi quello puro della mozzarella di Mondragone. Una prova però della bontà della mozzarella i mastri caseari mondragonesi ce l’avevano. La mozzarella per essere buona deve lasciare in bocca un retrogusto, quello che i contadini chiamano “o ciato ‘e bbufala” ossia il fiato di bufala. Se dopo aver buttato giù il boccone non rimane in bocca quel sapore di bufala, allora la mozzarella non è buona». Dalle nostre parti, più che il fiato di bufala o quello di vacca, continua invece a interessare il fiato nauseabondo che esala dalla putredine di eventi occorsi cento anni fa. Solo quel fiato lì, chissà perché, risveglia l’appettito di certa gente.

      Corriere dell’Alto Adige, 16 marzo 2024, pubblicato con il titolo Mozzarella “piumata” indigesta


      Un atto di cordoglio

      Non ho ancora partecipato al Censimento linguistico. Per quanto la promessa di contare finalmente qualcosa sia molto allettante, non è riuscita a convincermi che, per contare sul serio, sia proprio necessario farsi contare. Così adesso mi toccherà aspettare che mi contino direttamente, che vengano cioè a bussare alla mia porta, per farmi davvero sentire che conto. Il governatore – si dice – ha inviato a te, il singolo, miserabile suddito, l’ombra minuscola fuggita dinanzi al sole provinciale, ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Io però generalmente non sono quasi mai a casa, la mattina esco presto per andare al lavoro, torno nel pomeriggio, quando i messaggeri, anche loro, hanno smesso di lavorare e di girare, ormai stanchi – c’è da crederlo – di aver già contato e fatto contare un bel mucchio di gente. E allora? Mi toccherà sedere alla finestra e sognare del messaggio quando viene la sera? C’è un tizio, da poco nominato vice-governatore, quindi deposto anche lui in un letto di morte, ancorché più piccolo di quello in cui giace il governatore, che di recente ha scritto: “Il Censimento linguistico è un atto di orgoglio dell’identità italiana”. Pensa un po’, addirittura un atto di orgoglio. Una volta, stavo in Germania, lessi una cartolina che recitava: “Ich bin stolz eine Postkarte zu sein”. Ma a una cartolina, si capisce, un po’ d’orgoglio non farebbe certo male, poveraccia. Soprattutto oggi, che di cartoline se ne spediscono così poche, annientate dal profluvio di fotografie postate sui social. Un vecchio proverbio, invece, recita: “Ad orgoglio non mancò mai cordoglio”. Quasi quasi prendo una cartolina, ci scrivo sopra questa frase, e la spedisco al vice-governatore, per dirgli che io posso fare a meno di contare o di farmi contare, e anche dell’identità italiana mi frega pochissimo, perché tanto sono già morto.

      ff – 7 marzo 2024

      Polifonia del silenzio

      Tra smarriti dolori e la ricerca di una terrestrità che possa aprirsi a un sorriso benaugurato. Le nuove poesie di Roberta Dapunt.

      Un verso, per cominciare: “Il tempo, questa voce d’incerta origine / tra principio e fine, eppure senza mai cessare. Che relazione ha il tempo con la sua scrittura, per esempio quello che ha portato alla maturazione di questa sua ultima raccolta?

      Probabilmente percepisco il tempo come una dimensione più breve di quello che è realmente. Sembra forse espandersi meno dei diversi intervalli tra una pubblicazione e l’altra. Il verbo tedesco “zeitigen” esprime molto bene il portare a maturazione qualcosa, in più non ha termine di tempo. Va detto che tra una raccolta einaudiana e l’altra ci sono state altre scritture date alle stampe, altre pubblicazioni. Ma il tempo ha la facoltà di rendere più chiari anche gli orizzonti, le loro linee apparenti e la loro misura. La percezione degli stati interiori della coscienza, così la percezione delle cose e dei fatti che ci sono esterni.

      Presentando il libro a Bolzano, Giovanni Tesio ne ha rilevato una “espansione versale, ossia versi di sorprendente lunghezza prosastica”. È d’accordo?

      È vero, in questa raccolta c’è un’espansione versale. Alcuni componimenti sviano l’a capo, tuttavia la poesia va oltre il segno grafico, lo spazio bianco che segue un verso a volte può essere riempito anch’esso. Ma è anche vero che può diventare lunghezza prosastica.

      La sua ricerca sembra scaturire da un mondo rurale, o comunque vi fa costante riferimento. Qual è il suo rapporto con le radici, con la terra natia?

      La poesia mi è diventata coesione di vita, è impensabile per me assegnarle anche una veste. Non mi sento radicata ai luoghi, alla realtà montana e contadina della Val Badia. In uno dei miei versi ho scritto che sono la zolla staccata dei campi coltivati. Continuo ad esserlo. Per ogni espressione, così per la poesia, ci vogliono una persona, un luogo, un tempo. Il mio è inesorabilmente il tempo presente, il primo luogo è quello che mi ospita, in questo la realtà di un maso alpino. Ciò detto, non credo nella poesia che si eleva solamente agli alti concetti e si presenta unicamente a una spinta verso l’alto.

      In che modo, allora, riesce a bilanciare tale spinta verso l’alto, che tipo di “terra” è quella alla quale tende?

      Potremmo definirla una terra in discesa, e i versi che la raccontano una calata verso il basso a scopo di raggiungere la causa prima, per arrivare a riunirsi alla sostanza dell’essere umano. E qui la semplicità, perché solo attraverso la semplicità può succedere di essere ospitati dalla poesia, in un’immagine, nel succedersi delle cose quotidiane, nel venire al mondo, così come nell’esalare l’ultimo respiro. Nella potenza drammatica di una guerra, ma anche nel suono umile degli animali che ruminano in una stalla. La difficoltà sta nel riuscire ad accogliere questo sguardo e renderlo visibile nella scrittura di un verso.

      Nonostante lei scriva che i suoi versi “non cantano”, quando li legge essi assumono un contorno diverso. Come si configura il rapporto tra la dimensione scritta e quella orale nella sua poesia?

      Credo nel poter “dire” una poesia. Scrivo i versi mentre li dico, li dico pensando e affilando ogni parola e ogni pausa. Scrivo ad alta voce, è per me una disciplina che mi accompagna ogni volta che apro i miei quaderni. Ho bisogno di sentire, di ascoltare la voce del verbo che scelgo, la cadenza del primo è fondamentale per l’altro che seguirà. Nella mia officina le parole vanno ripetute con voce, succede così che mi rieduco in continuazione. La lettura in pubblico è una dimensione diversa, rimarrà sempre una dura prova dell’ascolto.

      Veniamo al motivo – centralissimo – dei “silenzi”. Perché questo insistere sulla polifonia di un’assenza?

      Prediligo l’assenza di rumori, posso rimanere in silenzio anche per giorni, non mi pesa l’assenza del dire e del parlare. Mi piace invece l’atto dell’ascoltare, prestare attenzione a ciò che mi si racconta e a quanto non ha suono e impressione. Celebro il silenzio e mi piace nominarlo nel suo plurale: i silenzi. Essi definiscono le frazioni, sono le parti staccate di un tutto, sono le corsie di emergenza quando non c’è parola che tiene. Ho imparato la straordinarietà del silenzio durante le transumanze, dove il ladino, mia lingua madre, si serve di frasi scarne ma sufficienti nella comprensione, perché quando si segue il gregge o la mandria qualsiasi espressione per mezzo della parola viene meno, talmente importante la muta sacra conversazione intorno. E poi il silenzio, quello che dimentichiamo spesso, perché facciamo troppo rumore anche noi poeti che scriviamo poesia rumorosa per essere di oggi. Di oggi a tutti i costi, come se non lo fossimo in verità del corpo e della nostra vita.

      Il silenzio serve forse a “nominare” il dolore, un altro dei temi ricorrenti della raccolta?

      “Il verbo di fronte” inizia con un atto di coscienza, dove dichiaro di sentirmi in diritto di dolore, il percorso dei versi lo racconterà fino alla conclusione del libro che chiede all’intelletto di poter scrivere di nuovo e nuovamente il mio prato. Si tratta di un augurio che faccio a me stessa. Tuttavia riuscire a scrivere il bene e la bellezza resta per me un’illusione sospesa, ma continuamente desiderata.

      Friedrich Hölderlin ha scritto che noi “siamo un colloquio”. Quali sono i “colloqui”, gli “interlocutori” della sua vita?

      È molto bella l’espressione di Hölderlin, noi siamo un colloquio. Ho la fortuna di avere intorno a me persone che mi vogliono bene, con le quali ho dialoghi duraturi, alcuni da molti anni. Curo la mia corrispondenza, custodisco i miei rapporti epistolari, sono per me una continua scuola di vita e qui desidero nominare un amico tra gli altri, lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna. E poi la musica e i suoi musicisti, ma questa è una dimensione altra, che riesce a portarmi al sorriso e al turbamento in uguale misura.

      ff – 7 marzo 2024

      Come si cambia

      Fonte: Facebook

      The Times They Are a-Changin’, cantava il vecchio Bob Dylan nel 1964. Una canzone famosa, un testo poderoso, che scandiva, anzi presagiva il tempo in cui tutto sarebbe mutato, perché i figli di allora erano pronti a rivoltarsi contro i loro stessi padri per ribaltare concetti e filosofie, aspettative e pregiudizi. Spostandoci verso epoche a noi più prossime – ancorché lontane da siffatti afflati rivoluzionari –, ecco la nostra Fiorella Mannoia sul palco del Festival di Sanremo, siamo nel 1984, a parlarci di quel “pomeriggio della vita” mentre aspettiamo “che qualcosa voli”, a “sentire in fondo al cuore un suono di cemento”, mentre lei, la protagonista della canzone, aveva “già cambiato un uomo un’altra volta” (e infatti: “come si cambia, per non morire..”).

      Dal mondo delle canzoni a quello della politica il passo è breve. Prendiamo per esempio Marco Galateo, neo-vicepresidente della Provincia di Bolzano, assessore alla cultura e alla scuola italiana. In teoria egli è (era?) il rappresentante di una tradizione che si rifà a ciò che non è morto del Ventennio, quindi anche al “non restaurare, non rinnegare” di almirantiana memoria. Sempre in teoria egli è (era?) anche l’erede del “disagio italiano”, di chi si è fatto le ossa oltre il Ponte Talvera, dove troneggia quel famoso-famigerato manufatto intitolato a una “vittoria” che, dall’altra parte dello stesso ponte, non solo non è mai stata riconosciuta, ma viene irrisa e si vorrebbe quasi dire vilipesa, e dove gli eroi non sono certo i Filzi e i Battisti pietrificati dalla mano di Adolfo Wildt, semmai un Andreas Hofer, l’oste-contadino della Val Passiria, quello insomma che rappresenta tutto ciò contro cui gente come Alessandro Urzì (e Galateo, almeno fino a pochi giorni fa) si è battuta per una vita.

      E non c’è neppure bisogno di scavare tanto, è sufficiente per esempio andarsi a leggere quel che proprio Urzì – in una seduta del Dreier Landtag del 2014 – affermava, dichiarando il suo poderoso “no” alla proposta di istituire il canto di Hofer (“Zu Mantua in Banden”) come inno del Tirolo transfrontaliero: “Non sono tirolese, non ho voglia di esserlo e non lo sarò mai. Sono qui non ad alzare bandiere, ma a costruire un futuro di collaborazione non fondato su nostalgie e su qualcosa che non c’è più e non ci sarà più”. Parole chiare, parole forti, intonate più al dettato remoto ma tutto d’un pezzo di Goffredo Mameli (“Son giunchi che piegano / Le spade vendute: / Già l’Aquila d’Austria / Le penne ha perdute”) che a quello liquido di Bob Dylan o della stessa Fiorella Mannoia.

      Del resto, è indubbio, i tempi cambiano. Ed è anche bene che cambino, per carità. Stupisce solo, magari, che lo facciano così in fretta. Presente alle recenti celebrazioni hoferiane di Innsbruck, Galateo ha infatti rilasciato dichiarazioni che hanno probabilmente stupito solo i pochi non lettori di Zygmunt Bauman, cioè coloro i quali ancora pensano che l’identità sia un concetto stabile: “Nel suo tempo Andreas Hofer difese con coraggio la sua terra dallo straniero di allora, che era Napoleone con le sue truppe. Giovanissimo, scelse di studiare la lingua italiana nel vicino Trentino, dimostrando un aperto interesse per la cultura e la diversità. È noto che, in seguito, la popolazione di Mantova cercò di salvargli la vita, riconoscendo in lui non solo un difensore della propria terra, ma anche un innovatore sociale, capace di ispirare cambiamenti positivi. È per questo che ho voluto essere a Innsbruck per celebrare questo anniversario, in segno di amicizia tra Italia e Austria”. Ma come? Incenso per Hofer e carbone per Napoleone, quello che, a guardar bene, anticipò persino Tolomei nella creazione del toponimo Alto Adige? Amicizia tra Italia e Austria quando, fino a poco tempo fa, ci si sarebbe fatti fucilare vicino al ceppo di confine pur di non cedere un centimetro di “sacro suolo” al “nemico ereditario”? E va bene che adesso, al Brennero, si trova un Outlet con tutte le grandi firme a prezzo scontato, ma non staremo esagerando?

      Stiano in campana i patrioti che ogni anno si riuniscono a San Paolo per commemorare Sepp Kerschbaumer, e con lui lo spirito indomito dei Freiheitskämpfer. Anche lì potrebbe spuntare a sopresa il liquidissimo Galateo per tracciare ricostruzioni ardite e convincerci che, allora, stendere i tralicci dell’alta tensione fu comunque un gesto per distendere gli animi.

      Corriere dell’Alto Adige, 22 febbraio 2024, pubblicato con il titolo: “Ecco come si cambia al governo

      Tutto il buio dell’estate

      Nel suo romanzo d’esordio, David Comincini ci rivela le crepe di una realtà che nasconde insidie inaspettate, e un destino ombreggiato dall’inquietudine.

      David Comincini è nato nel 1971 a Bolzano, dove vive e insegna Filosofia presso l’I.I.S.S. Gandhi di Merano. Ha studiato nelle Università di Innsbruck e Bologna specializzandosi in Filosofia della scienza. Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in Pedagogia generale e sociale presso la Libera Università di Bolzano, ha pubblicato il volume Epistemologia dell’intercultura. La costruzione culturale della realtà (Carocci, 2012). L’Estate (Manni, 2023) è il suo primo romanzo. Nelle note di copertina leggiamo: «È la storia di più delusioni che si sommano, dell’ostinata ricerca di un senso residuo e del rischio che questa ricerca si trasformi in ossessione».

      Può raccontarci la genesi del romanzo, per esempio quanto è durata?

      Il romanzo ha avuto una gestazione lunghissima. Potrei dire, scherzando ma non troppo, che a scriverlo ci ho messo trent’anni e due mesi. Sui due mesi sono sicuro: è il tempo che ha richiesto la stesura. Sui trent’anni sbaglio quasi certamente per difetto. Tanto mi ci è voluto, anno più anno meno, per autoconvincermi a provarmi nel campo della narrazione. In passato, infatti, mi è capitato più volte di ritrovarmi in quello stato di tensione, non so come esprimermi diversamente, che può preludere alla creazione. Se finora non aveva mai portato a questo, è perché ho sempre avuto un ambito molto probante in cui misurarmi come uomo e intellettuale e in cui poter essere creativo: l’insegnamento.

      Anche il protagonista del libro, Marco, è un insegnante. Un insegnante che, come lei, coltiva interessi filosofici. Si deve allora forse a una deviazione dal sentiero della filosofia, questo suo impulso narrativo?

      Non so se sia corretto parlare di “deviazione”. Ho sempre avuto l’impressione che la mia formazione di filosofo della scienza, di filosofo analitico interessato al linguaggio, non mi allontanasse dalla scrittura creativa; anzi, che alimentasse una sensibilità nei confronti della realtà e all’uso della lingua che, in qualche modo, mi abilitasse ad essa.

      Quali sono gli autori nei quali si riconosce, e che in un certo senso hanno contribuito a portarla sulla strada delle creazione letteraria?

      Posso fare alcuni nomi che per me rappresentano molto e a cui la mia sensibilità senz’altro è debitrice. Ricordo l’emozione legata alla scoperta, moltissimi anni fa, dei romanzi di Conrad, alla potenza della sua visione del mondo. Emozione che si è rinnovata con la lettura de L’eroe virile, raccolta di saggi, l’ultima, che Alberto Asor Rosa gli ha dedicato nel 2021. E quello della virilità è uno dei temi che attraversano L’estate. Ragioni simili mi hanno fatto innamorare, più recentemente, di Cormac McCarthy, scrittore a cui, nel romanzo, tributo un omaggio esplicito mettendo in bocca all’alter ego del protagonista una frase tratta da Il buio fuori: «Tutto ciò di cui ho bisogno io è acqua d’estate e fuoco d’inverno». Penso che una frase così sia capace di caratterizzare potentemente un personaggio.

      E per quanto riguarda gli autori italiani?

      Ho sempre provato una fortissima attrazione per la scrittura di Vitaliano Trevisan, per la sua intelligenza disturbante, per la sua irregolarità. In ogni caso, per me, un grande scrittore.

      Quanto di autobiografico c’è in questo romanzo?

      Mi rendo conto che, ad una prima impressione, il romanzo possa far sorgere il sospetto che si abbia a che fare con una narrazione autobiografica. Ma L’estate non contiene le confessioni di un egotista, alla base dell’opera non c’è l’incoercibile bisogno dell’autore di raccontare di sé, di sbrodolarsi addosso, per così dire. D’altro canto, non ho neppure fatto nulla, consapevolmente, per stornare questo sospetto. Avrei potuto, ad esempio, fare di Marco un insegnante di matematica o qualsiasi altra cosa; avrei potuto ambientare altrove alcune delle vicende e non nei dintorni di Bolzano. Ma quando mi sono posto il problema, e il problema me lo sono effettivamente posto, ho rigettato questi come espedienti inutili e sostanzialmente infantili.

      Com’è riuscito a scansare questo rischio, se non voleva truccare in modo posticcio le carte?

      Mi sono detto: o Marco vive di vita propria o non serve assolutamente a nulla. Se all’origine del romanzo vi un’urgenza, questa non è di natura autobiografica, bensì conoscitiva. Marco è stato costruito come una sorta di “cavia letteraria” e poi collocato all’interno di contesti che massimizzano l’impatto delle sue azioni. Il protagonista fa continuo attrito contro la realtà e così, attraverso l’attrito, conosciamo sia Marco, la sua personalità, sia una fetta di realtà. È sicuramente vero che sono io ad aver sentito il bisogno di vedere il mondo attraverso di lui, di viverlo attraverso di lui, di indagare proprio quel tipo di personalità; altrimenti, banalmente, non avrei scritto quello che ho scritto oppure non avrei scritto proprio nulla. Può essere interessante vedere e vivere il mondo attraverso Marco? Interrogarsi sulla sua maniera particolare di esserci? Queste mi sembrano le vere domande, capaci di fare la differenza e di rendere conseguentemente irrilevante la questione del presunto autobiografismo.

      Quali sono i temi prevalenti attorno ai quali si sviluppa la storia?

      L’estate è anche, se non soprattutto, un romanzo sulle assenze e sugli abbandoni. Sul mondo, quello di Marco, che progressivamente si prosciuga. La tonalità di fondo della narrazione è l’inquietudine e questo perché Marco vive la vita da spaesato. In ciò risiede la sua cifra esistenziale che così, sin da subito, si proietta sul suo mondo. E poi c’è il mondo che, per parte sua, sembra accanirsi su di lui, gli presenta un volto minaccioso. Se l’inquietudine è una sorta di basso continuo, l’atmosfera del romanzo progressivamente si incupisce: trascolora in senso di minaccia indefinita e incombente che, alla fine, si concretizza in pericolo reale. Ho voluto creare un’opera che, per ragioni che attengono più alla sostanza che alla forma, vive di atmosfere.

      Ma allora la trama è in un certo senso solo un pretesto per manifestare un piano occulto, quasi mistico?

      Il riferimento al misticismo lo potrei accettare, almeno se ci rifacessimo a Wittgenstein, alla sua posizione anti-psicologica. Wittgenstein nel Tractatus scrive: «La filosofia significherà l’indicibile rappresentando chiaramente il dicibile». Ma si potrebbe altrettanto pertinentemente dire: «La scrittura significherà l’indicibile rappresentando chiaramente il dicibile». Tutto ciò non squalifica o sfuma il piano di ciò che è narrato. Anzi. Quello che ho cercato di fare è forzare le possibilità espressive del linguaggio alla ricerca dell’ipersignificatività, rimanendo però da questa parte del limite, cioè nel campo del dicibile, ed esprimendolo sempre con esattezza, con chiarezza.

      C’è un lettore ideale per il quale lei, programmaticamente, ha scritto il romanzo?

      Il mio lettore ideale è un lettore disponibile all’ascolto. Un lettore, cioè, che non pretenda che il detto esaurisca i significati possibili, che senta il fascino della reticenza sapendo distinguere quando essa ha alla base delle ragioni sostanziali da quando si risolve invece semplicemente in un diverso espediente retorico. Un lettore senza fretta. Dopodiché, è ovvio che scrivere un libro significa prenderne congedo: consegnarlo ai lettori, alla loro sensibilità e alla loro intelligenza. Anche la disseminazione ha il suo fascino, è infatti sinonimo di apertura ai possibili, che per definizione non sono programmabili.

      ff – 15 febbraio 2024

      Atmosfera che non esiste più

      Cominciamo dai numeri, quest’anno tutti in rialzo. Quasi ottocentomila visitatori per Trento, addirittura novecentomila per Bolzano. Il guadagno è multimilionario, il variegato indotto soddisfatto: acquisti, ristorazione, parcheggi, tutto ciò che va poi a lambire una simile massa di persone in movimento. Residenti meno entusiasti, ovvio, ma basta non starli a sentire.

      Non essendo un partecipante a questo tipo di manifestazioni – dalla fine di Novembre ai primi di Gennaio evito accuratamente di inoltrarmi nel tunnel straripante di turisti –, mi sono chiesto più volte perché, a cosa si deve un sucesso così impressionante e per me, lo confesso, non immediatamente comprensibile. Da modesto fenomenologo ho intrapreso così la prima azione possibile per scoprirlo: formulare in rete la domanda molto generica, e molto sfrontata, sulla loro utilità, e trovare un testo, poche righe, dal quale raccogliere alcuni elementi in grado di essere interpretati più a fondo. Ecco la risposta sull’unghia: “Una visita ai mercatini di Natale può essere l’occasione per trovare originali regali, per assaporare deliziosi prodotti del luogo e sicuramente per uscire dalla quotidianità immergendosi in una suggestiva atmosfera natalizia”.

      Osserviamo in dettaglio questi elementi, avendo ovviamente cura di sospendere il giudizio sulla loro eventuale veridicità o falsità (non è cioè rilevante che, poniamo, quei regali siano davvero “originali”, che i prodotti siano davvero “del luogo”, ma che siano ritenuti tali; oppure, cosa anche del tutto possibile, che non siano ritenuti davvero originali o del luogo, però vengano ugualmente ricercati, e comprati, per altre ragioni). La cosa che qui balza all’occhio è la parolina “atmosfera”, pronunciata in un contesto verbale che indica l’immergersi in un elemento diverso da quello in cui si è di solito a bagnomaria (ovvero la “quotidianità”). Bene, cosa vuol dire qui “atmosfera”, cos’è che la rende, nel contesto che stiamo esaminando, ciò che è? Dato che non può essere certo l’involucro gassoso che circonda un corpo celeste (“le cui molecole sono trattenute dalla forza di gravità del corpo stesso”, come recita la prima definizione venutami a tiro), dobbiamo attivarne il senso figurato. E in senso figurato “atmosfera” significa: “Condizione, modo d’essere di un determinato ambiente, in relazione ai sentimenti o alle reazioni che può suscitare, ai rapporti umani, o sociali, o culturali che vi si stabiliscono tra individuo e individuo” (Vocabolario Treccani). Se al posto del “determinato ambiente” sostituiamo adesso il termine “natalizio”, se quindi parliamo di “atmosfera natalizia”, abbiamo in mano la chiave per scoprire esattamente quello che tantissime persone cercano – e non essendo propriamente una “cosa”, trovano anche senza poterla effettivamente trovare – venendo da queste parti nel periodo di Natale.

      Sintetizzando: chi viene qui per cercare l’“atmosfera natalizia” lo fa perché il senso di evasione dal quotidiano, in teoria percepibile nei giorni di festa, in altri luoghi è diventato invece più sfuggente, si è fatto via via impalpabile, e non rende così evidente lo scarto dalle abitudini che, solo, potrebbe schiudere un contesto davvero “festoso”. Ecco allora che, ormai, diventa desiderabile e persino necessario spostarsi. Ci siamo messi affannosamente a rincorrere quello scarto introvabile ipotizzando che esso, per manifestarsi appieno, abbia bisogno di un luogo dedicato, creato esattamente per quello scopo. Un po’ come se un bambino, aspettando la visita di Babbo Natale il 24 Dicembre, non potesse accontentarsi di attenderlo a Pavia, a Pistoia o a Pescara, ma dovesse trasportarsi fisicamente a Rovaniemi, in Finlandia, dove per l’appunto esiste il cosiddetto “Villaggio di Babbo Natale” (un altro mercatino natalizio posto ancora più a Nord).

      Tradizione inventata, operazione di marketing gestita con abilità da chi ne ricava i più succosi profitti, valanga mediatica condita da migliaia e migliaia d’immagini instagrammabili e localizzazione di ciò che non ha propriamente luogo (le fiabe dell’infanzia, la felicità perduta, la palla di vetro con la neve, il presepe per gli sfrattati da casa Cupiello, il senso di appartenere a una comunità altrimenti disintegrata): nessuna demistificazione critica tratterrà le masse annualmente incombenti. Il Kitsch dei mercatini esercita e continuerà ad esercitare il suo richiamo parassitando la perdita di ciò che riesce a farci credere di risarcire: l’atmosfera di un Natale che non esiste più.

      Corriere dell’Alto Adige, 19 gennaio 2024

      L’anno del signor K.

      Nuove iniziative editoriali, convegni, saggi interpretativi. Anche l’Italia celebra Franz Kafka e la sua abissale magia.

      Quello appena cominciato sarà l’anno di Franz Kafka, scomparso il 3 giugno del 1924. Solo qualche citazione, tra le migliaia che si potrebbero inanellare. Secondo Elias Canetti i suoi testi costituiscono «la più pura espressione del Novecento». Per Albert Camus egli ha predisposto una sorgente di significati di fatto inesauribili, sospesi tra angoscia e comicità: «I suoi scioglimenti o la mancanza di scioglimento suggeriscono spiegazioni che non vengono, però, chiaramente manifestate e che richiedono, per apparire fondate, che la storia sia riletta sotto un nuovo punto di vista». E il grande narratore americano Philip Roth ha tirato in ballo persino il soprannaturale: «Quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirci. C’è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario».

      Proprio utilizzando il filo conduttore della “magia” kafkiana, e notando la relativa povertà di mezzi linguistici con la quale è stata prodotta, onoriamo questo centenario così importante rispondendo, intanto, a una domanda preliminare: come e quando Kafka ha cominciato ad essere conosciuto in Italia, e in che modo i suoi traduttori e interpreti sono riusciti, trasportandolo in un’altra lingua, a metterne in luce le caratteristiche peculiari? Anche per quanto riguarda la traduzione, infatti, accade una sorta di miracolo, e non è un caso che lo stesso Sigmund Freud adoperi l’immagine della traduzione per allestire il “fragile ponte” tra i territori della coscienza e dell’incoscio, del visibile e dell’invisibile, proprio sul modello di una tecnica (anzi: una scommessa) in grado di schiudere un senso “sovrapposto” a molteplici configurazioni di segni. È stato Walter Benjamin a ribadirlo per noi lettori e viaggiatori tra le lingue: «Nelle traduzioni la vita dell’originale raggiunge, in un continuo rinnovamento, il suo ultimo ultimo e più pieno dispiegamento». Ma come cogliere tale possibilità e tradurre, insomma, l’apparentemente semplice, scarno tedesco di Kafka in lingua italiana, senza smarrirne lo splendore velato (per dirlo con Roberto Calasso) così simile al bagliore che emana dai recessi del Gesezt, la Legge davanti alla quale ci sentiamo come l’uomo venuto dalla campagna a spiarne l’interno?

      Se ripercorriamo provvisoriamente la lista dei nomi grazie ai quali abbiamo potuto scoprire Kafka “in italiano”, dobbiamo necessariamente muovere da Lavinia Mazzucchetti, docente di Letteratura tedesca all’università di Milano (venne allontanata dalla sua cattedra nel 1929, per antifascismo), dallo scrittore, giornalista e traduttore goriziano Enrico Rocca, e soprattutto da Alberto Spaini. La prima è autrice di un breve articolo intitolato Franz Kafka e il novecentismo, apparso nel 1927 sul mensile letterario “I libri del giorno” (Treves), in cui Kafka è avvistato con dei tratti che lo rendono già pienamente riconoscibile: «Mutato senso della realtà, sgomento di fronte alla realtà, misticismo senza isterismo, bontà senza tenerezza femminea, smarrimento nella morte senza negazione del trascendente: ecco un novecentismo sorto nel profondo di un’anima d’artista che ci fa rispettosi e pensosi». Rocca è l’estensore del contributo più influente, cioè la segnalazione che aprì le porte alla traduzione de Il Processo poi pubblicata dall’editore Frassinelli nel 1933. Il suo articolo (Uno che risuscita: Franz Kafka) è notevole proprio alla luce di quel verbo (“risuscitare”) da leggersi in modo transitivo. Secondo Rocca – sintetizza Michele Sisto nel saggio che chiude la riedizione, apparsa nel 2019 da Quodlibet, di quella traduzione seminale –, «Kafka è uno scrittore che ci risuscita, che ridesta lo spirito dal torpore in cui l’esistenza di ogni giorno lo affonda». Insieme a Giuseppe Menassé – anche lui non a caso giuliano, triestino, che sullo stimolo di Bobi Bazlen (il futuro creatore di Adelphi) aveva già pubblicato nel 1928, sulla rivista “Il Convegno”, quattro piccoli racconti –, ecco quindi finalmente Alberto Spaini, al quale Franco Antonicelli (direttore della prima collana Frassinelli, la “Biblioteca europea”) affidò proprio il Processo. Quella del 1933 – sottolinea ancora Sisto – è la «traduzione che hanno letto quasi tutti, da Landolfi a Buzzati, da Vittorini a Fortini, da Calvino a Pasolini, da Elio Petri a Federico Fellini».

      Da quel lontano terminus a quo, con maggiore frequenza dopo la fine della Seconda guerra mondiale, altri interpreti sono subentrati. Mentre Spaini proseguiva il suo lavoro volgendo in italiano America (1945), si uniscono e avvicendano i due forse più noti: Anita Rho si dedicò al Castello (1948) e con i Diari (1953) emerse un traduttore al quale molti devono oggi la conoscenza dell’autore della Metamorfosi: Ervino Pocar. Non vanno poi dimenticati Giorgio Zampa, Italo A. Chiusano, Primo Levi (che nel 1983, per la collana Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”, firmò la sua versione del Processo) e lo scrittore ed editore Roberto Calasso, che dopo il volgere del Millennio ha dedicato a Kafka densissimi saggi ermeneutici, tutti pubblicati da Adelphi (in primis “K”, del 2002, ma anche il già citato Lo splendore velato, a sigillare la sua traduzione degli Aforismi di Zürau, e un piccolo volume uscito postumo l’anno scorso, intitolato L’animale della foresta). Last but not least, sono da menzionare il colossale Tutti i romanzi, tutti i racconti e i testi pubblicati in vita (Bompiani 2023, pagine 2274 con testo tedesco a fronte), curata da Mauro Nervi, e l’altrettanto mastodontico progetto di riedizione dell’opera integrale nei Meridiani Mondadori in cinque volumi, a cura di Luca Crescenzi (ne è già uscita una anticipazione, Un medico di campagna, che riunisce la raccolta di racconti comparsa nel 1919).

      Torniamo, per concludere, alla questione posta in precedenza, condotta cioè sul filo della relazione tra lingue e paesaggi mentali diversi, o tra lingue comunicanti sullo sfondo di un territorio psichico abissale, che le comprende seppur rilucendo staccato da esse. L’abbiamo rivolta a Stefano Zangrando, traduttore bolzanino contemporaneo, il quale ci ha fornito una risposta che ha persino il merito di illuminare l’anno kafkiano dalla nostra zona di confine: «Sulla lingua di Kafka, sulla sua scelta del tedesco e sul suo proverbiale nitore, si è scritto molto e da prospettive anche molto diverse – la letteratura “minore” secondo Deleuze e Guattari versus la scelta di una lingua con maggior legittimazione e visibilità nel campo letterario europeo, per fare un esempio. Da altoatesini italofoni verrebbe da guardare ad essa come a una lingua solo apparentemente standard, come il nostro italiano, dove localismi e influenze diverse restano nascoste sotto un uso giovane e sradicato, o per lo meno disancorato da un rapporto secolare con la realtà. Personalmente, trovo più interessante il rapporto fra questa lingua e il mondo poetico di Kafka, che è ciò che a ogni lettura mi lascia stupefatto e mi convince sempre di più. In Kafka, infatti, è come se fosse caduta la barriera tra conscio e inconscio, ma senza che questo comporti psicosi, men che meno sotto l’aspetto linguistico: i due regimi simbolici convivono in un’unica dimensione che è reale ed onirica ad un tempo, sorretti e governati però da uno stile, come dire, diurno, dove tutto è perfettamente delineato e riconoscibile. La lingua di Kafka serve questo mondo, ne conduce con una lievità spesso ironica la logica intimamente magmatica e penosa. La sua precisione, il suo nitore, è forse quindi l’istanza coesiva, ciò che permette a questo mondo poetico di non sgretolarsi, di non disorganizzarsi. E forse per questo tiene anche in traduzione: perché, prima ancora che una scelta linguistica, stilistica o idiomatica, il tedesco di Kafka è un surrogato psichico».

      ff – 11 gennaio 2024

      Tu conti, slogan ipocrita

      Da qualche settimana si sta svolgendo nella nostra provincia il cosiddetto “censimento dei gruppi linguistici”. Si tratta, come noto, di una rilevazione periodica utile “a calcolare la composizione percentuale dei tre gruppi linguistici in Alto Adige” al fine di regolare “molti aspetti della convivenza e della tutela delle minoranze, come la distribuzione dei posti di lavoro nel pubblico impiego, dei fondi provinciali e la rappresentanza negli organi collegiali della Provincia”. A tale rilevazione, e con ciò terminano le principali notizie al riguardo, si può già partecipare online, oppure – dopo il 29 febbraio 2024 – anche venendo contattati direttamente per compilare la dichiarazione cartacea. Il 30 di giugno l’intero procedimento sarà concluso.

      Assolto così il compito di fornire le indicazioni più neutre e sommarie, resta però da fare qualcosa che, a quanto pare, non va più tanto di moda: capire a fondo il senso di quello che ci viene richiesto. Lo spunto ce lo fornisce lo slogan, a giudizio di chi scrive abbastanza ipocrita, scelto per lanciare e sostenere il censimento del quale stiamo parlando: “Tu conti”. Vorrei che il termine “ipocrita” venisse qui compreso secondo l’etimo, che rimanda alla parola greca hypocrites, dal significato di “attore” o “dissimulatore”. Così lo spiega il vocabolario Treccani: “Chi parla o agisce con ipocrisia, fingendo virtù, buone qualità, buoni sentimenti che non ha, ostentando falsa devozione o amicizia, o dissimulando le proprie qualità negative, i propri sentimenti di avversione e di malanimo, sia abitualmente per carattere, sia in particolari circostanze, e sempre al fine di ingannare altri, o di guadagnarsene il favore”.

      Perché lo slogan “Tu conti”, allora, sarebbe uno slogan ipocrita? Se qualcuno ci dice “Tu conti” potremmo intendere fondamentalmente due cose distinte. O ci riferiamo all’azione del mero contare (1, 2, 3…), della quale saremmo i non utilissimi protagonisti, oppure il “contare” significa essere considerati qualcosa di molto speciale, come se, insomma, si esprimesse un caldo apprezzamento delle nostre qualità peculiari. Ora, potremmo persino illuderci di essere davvero così benvoluti dall’amministrazione provinciale, ma a me sembra piuttosto palese che in quel “Tu conti” per prima cosa non siamo noi quelli che contano, dato che, per quanto concerne le nostre qualità peculiari, l’unica cosa che conta, al contrario, è solo la lingua che dobbiamo decidere di scegliere (e dichiarare) per avere in cambio tutte le belle cose previste del meccanismo proporziale. Un meccanismo cioè che, in cambio dei suoi doni, riduce la nostra personalità, il nostro stesso essere, a fornire maggiore o minore peso alla consistenza dei gruppi linguistici. Per questo, nell’occasione, noi contiamo, ma solo per essere contati, e garantire al sistema la sua sopravvivenza.

      Come dicevo, oggi non va più tanto di moda esaminare in modo critico il sistema che ci contraddistingue. A proposito della proporzionale (un dispositivo che avrebbe dovuto essere dismesso due decenni fa) non sentiamo più levarsi grandi lamentele, e per quanto riguarda il censimento – al netto anche delle varie modifiche introdotte, bisogna riconoscerlo, che ne hanno smussato via via gli aspetti più urticanti – saremmo sorpresi di leggere come in passato (a partire da quello del 1981, che rischiò sul serio di schiantare la società sudtirolese mediante polemiche infuocate) la materia fornisse invece il destro per animare due visioni completamente diverse dell’autonomia: la prima, ormai quasi per intero sfumata, orientata da una lettura più territoriale, quindi non così focalizzata sulla frammentazione etnica dei suoi abitanti; la seconda, rivelatasi vincente e ormai data per scontata, in cui la predominanza delle logiche di gruppo, vale a dire la spartizione (o nel linguaggio ipocrita visto sopra all’opera: la distribuzione) delle rispettive sfere d’influenza, viene intesa come l’unica cornice possibile in cui vivere e prosperare. E per chi volesse approfondire storicamente la questione, si rimanda al bellissimo libro di Maurizio Ferrandi “I giorni delle gabbie” (Edizioni alphabeta Verlag 2021).

      Chiudo con una domanda, rivolta soprattutto a me stesso. Ha ancora senso interrogarsi sulla bontà di questo sistema, vale la pena irritarsi per l’ipocrisia contenuta in quel “Tu conti”, magari immaginando, nella consapevolezza di contare in realtà pochissimo, di esercitare un moto di ribellione, il diritto a sottrarsi a questa ennesima conta? In assenza di un progetto di autonomia alternativo (e anzi: davanti alla concreta prospettiva di vederne cementificare prossimamente tutte le prerogative più caratterizzanti e isolazioniste), considerando che sul tema non si esercita ormai neppure un briciolo di apprezzabile riflessione, vedendo soprattutto come più o meno tutti si sono assuefatti a fingere di spacciarsi persino per quello che non sono (persone nate da famiglie mistilingue che scelgono l’identità che conviene di più, cinesi, albanesi e pachistani che si aggregano sorridendo al gruppo tedesco, italiano o ladino…), ergersi a contestatari delle magnifiche sorti etniche e progressive non ha il sapore di un sussulto, se non proprio sciocco, sicuramente velleitario?

      Corriere dell’Alto Adige, 28 dicembre 2023

      Calvino, scoiattolo umano

      Leggerezza, comicità, capacità di mettere in dubbio le nostre certezze: le principali qualità di un autore ancora imprescindibile.

      L’anno che si sta chiudendo ha fornito l’occasione per riflettere sulla figura di Italo Calvino (1923-1985), uno dei più significativi scrittori del Novecento, ben oltre i confini nazionali. Abbiamo chiesto allo scrittore e insegnante Giovanni Accardo di aiutarci a comprendere qual è il suo tratto caratteristico e perché, soprattutto oggi, sarebbe necessario mettere a frutto la sua lezione.

      Basandosi solo sull’esame del primo romanzo (Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947), Cesare Pavese qualificò in modo fulminante Calvino come “uno scoiattolo della penna”. Si tratta di una definizione in qualche modo adatta a sorvolare tutta la sua produzione, mobilissima e per molti versi spiazzante?

      Effettivamente esistono tanti Calvino, legati ai diversi momenti storici e culturali della sua avventura letteraria. Quello della stagione partigiana, quello degli anni del boom economico e della critica alla società dei consumi, il Calvino che fonde insieme romanzo storico, avventura e fantastico e quello, auspice il soggiorno parigino e l’incontro con gli scrittori dell’Oulipo, che si diverte a smontare e ricombinare i testi. Esiste poi il Calvino che indaga le possibilità di conoscenza del reale e della lingua con cui esprimerlo, il Calvino editore, il reporter, il saggista, persino l’autore di canzoni.

      È tuttavia possibile individuare una specificità calviniana, un suo tratto caratteristico, che arieggia in tutta questa prismatica attività?

      Ad accomunare tutti questi momenti direi che c’è la leggerezza, sia ideologica sia linguistica, come d’altronde si legge all’inizio della prima delle sue Lezioni americane, libro uscito postumo nel 1988: «La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».

      Il tema della leggerezza potrebbe farci immaginare l’esistenza di una ipotetica Ligne-Calvino, formata da antecedenti e successori?

      Se per antecedenti intendiamo gli autori che l’hanno formato, l’elenco sarebbe davvero molto lungo. Il primo che mi viene in mente, comunque, è sicuramente Ariosto, oggetto anche di una sua monografia divulgativa: Orlando Furioso è un’opera fondamentale, sia per la presenza dell’ironia, sia per la molteplicità delle avventure e dei piani narrativi. Avvicinandoci ai nostri tempi, Carla Benedetti focalizzò per esempio in un brillante saggio lo “scontro” tra Pasolini e Calvino proprio cercando di capire chi, tra loro due, ha lasciato un segno maggiore nella storia letteraria, oltre che in quella civile, e sicuramente Pasolini vince, basti pensare a scrittori come Saviano e Murgia. Sono stati poi accostati a Calvino il primo Andrea De Carlo e Daniele Del Giudice, che in qualche modo tenne a battesimo, e forse si potrebbe aggiungere Gianni Celati, per l’importanza dello sguardo.

      Sempre muovendo dal richiamo alla leggerezza, alla sottrazione di peso, sulla rivista Fillide lei hai scritto un saggio che esplicita il ruolo del “comico” nella scrittura calviniana.

      Sì, ritengo che dall’inizio alla fine il comico connoti la sua narrativa e possa costituire un’altra utilissima bussola per orientarci in una produzione che sembra quasi divertirsi a cancellare, dopo averli rapidamente accennati, i punti di riferimento. Non a caso, in un saggio del 1967, poi raccolto nel volume Una pietra sopra (1980), leggiamo: «Quel che cerco nella trasfigurazione comica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità di ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio».

      Che tipo di comicità, allora, è quella prediletta da Calvino per rendere tale complessità e contradditorietà del mondo?

      Evidentemente l’ironia e il grottesco sono i modi che hanno più rilievo nella sua scrittura, piuttosto che la ricerca di un effetto per così dire carnoso della risata. Forse si può indicare il comico di Calvino come un comico ridotto, perché prende avvio da una doppia elisione: da un lato quella della corporeità, dall’altro quella dell’aggressività polemica della satira, preferendo piuttosto la dissacrazione o la parodia. È una sorta di porta nascosta verso il tragico e il patetico, perché quello che gl’interessa non è tanto far ridere o sorridere, quanto favorire una migliore padronanza della tensione emotiva e intellettuale, insegnare a trattare il pensiero in maniera più critica.

      Ironia, dissacrazione, parodia e criticità (per non dire autocriticità) non sembrano strumenti molto praticati o apprezzati, se ci guardiamo intorno…

      In questi giorni, seguendo la vicenda dell’omicidio di Giulia Cecchettin e il dibattito sulla violenza di genere, mi è venuto in mente uno dei racconti di Palomar (1983), “Il seno nudo”, dove il tentativo di trovare il giusto punto di vista per osservare una bagnante che prende il sole senza costume, un punto di vista che non sembri moralistico ma neanche offensivo, capace di apprezzare la bellezza del corpo femminile senza risultare molesto, che «garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone», si conclude con il fallimento. Infatti, Palomar prova a fare in modo che il seno venga assorbito completamente dal paesaggio, ma subito teme che in questo modo trasformi il corpo femminile in oggetto, comportandosi da vero maschilista. In questo continuo andirivieni sulla spiaggia, anche la sua riflessione fa avanti e indietro da un proposito all’altro, da una possibilità all’altra, finché la ricerca di uno sguardo che sia distaccato ma al tempo stesso amorevole, finisce per irritare la bagnante, che, scocciata, si alza di scatto, si ricopre e va via. Calvino è così: abbina sempre comico e conoscenza, leggerezza e domande sulla realtà.

      Un tempo Calvino era molto presente nelle letture, anche precoci, che si facevano a scuola (penso a Marcovaldo o alla cosiddetta Trilogia degli antenati). È ancora così?

      Per fortuna Calvino è ancora molto vivo in ambito scolastico. Nella prima settimana di settembre, insieme ad alcune colleghe, sono stato a un corso di aggiornamento all’Università di Bologna, intitolato “Insegnare Calvino”, c’erano più di 200 insegnanti provenienti da tutto il Nord Italia, proprio perché Calvino si fa leggere sia alla scuola media che a quella superiore. Ad esempio una mia classe l’anno scorso ha fatto un progetto multidisciplinare, in collaborazione con l’Università di Bolzano, a partire da Le città invisibili. A febbraio verrà nel mio liceo [Liceo delle Scienze Umane e Artistico “Pascoli”, ndr] uno dei massimi studiosi di Calvino, Domenico Scarpa – quest’anno in libreria con il possente testo, pubblicato da Hoepli, “Calvino fa la conchiglia” – che incontrerà dodici classi, i cui studenti hanno letto diversi libri dello scrittore.

      Dovesse invece pensare a un lettore adulto curioso – magari non di madrelingua italiana, comunque in suo possesso – quale opera di Calvino suggerirebbe?

      Suggerirei La giornata di uno scrutatore (1963), intanto perché è abbastanza breve, poi perché è un romanzo di domande e a me piace la letteratura che instilla dubbi, che costringe a riflettere. Esattamente come accade al protagonista di questo libro, militante del PCI, chiamato a fare lo scrutatore al Cottolengo di Torino: esce di casa all’alba con le sue certezze ideologiche e torna a casa la sera carico di perplessità e domande, soprattutto su cos’è l’umano. In un’epoca di crescente disumanità, mi pare un atteggiamento necessario.

      ff – 14 dicembre 2023

      Calcoli e vecchie logiche

      Qualche giorno fa, sulla sua pagina Facebook, il consigliere provinciale Marco Galateo (FdI) ha scritto: «Lo abbiamo detto fin dall’inizio che avremmo avuto la schiena dritta. Chiedere due assessori italiani per garantire la rappresentanza del nostro gruppo linguistico è un atto di coraggio. Se qualcuno è pronto a svendersi pur di entrare nella giunta provinciale è libero di farlo, con la consapevolezza che ne risponderà ai propri elettori». Sembrano parole perentorie, volte di primo acchito a rompere con una tradizione a lungo mal sopportata. “Avere la schiena dritta”, infatti, è il contrario di avere la schiena piegata, cioè quella mostrata da chi sarebbe disponibile a tollerare il potere e la prepotenza altrui, finendo col manifestare un atteggiamento umile, sottomesso, remissivo e persino servile.

      Senza attivare una metafora anatomica, l’altro consigliere bramoso di accedere al secondo auspicato assessorato “italiano”, Christian Bianchi, ha voluto sottolineare che la richiesta è irrinunciabile davanti al fatto che gli italiani costituiscono il 26% della popolazione altoatesina, e quindi avrebbero diritto ad essere rappresentati in modo “adeguato” e “dignitoso” nell’organo legislativo più importante della provincia. Anche per lui, insomma, pare profilarsi un aut-aut: o due italiani siederanno in giunta, oppure ci si accomoderà – con la schiena ben dritta, ovviamente – sui banchi dell’opposizione, se non addirittura fuori dal Consiglio provinciale, visto che lo stesso Bianchi non ha ancora chiarito se si accontenterà di essere stato eletto, oppure saluterà tutti e tornerà a concludere il suo mandato di Sindaco a Laives. In quel caso il suo testimone passerebbe a uno che il ruolo di secondo assessore italiano l’ha già interpretato, ovvero Giuliano Vettorato.

      Ora, sono almeno tre i motivi di imbarazzo che ci angustiano al cospetto di una vicenda siffatta. Il primo riguarda ciò che tutti i calcoli messi in campo per sostenere la richiesta dei due assessorati, con perizie e contro-perizie provviste di bilancino a giustificarne la legittimità, non può alla fine celare il dato che resta disarmante: a causa di un’offerta politica modesta, e del corrispettivo disinteresse di chi avrebbe dovuto mettere le schede nell’urna, è la mancata elezione di un numero sufficiente di consiglieri appartenenti al gruppo linguistico italiano ad aver originato questo calo di rappresentatività che ora si vorrebbe riequilibrare in modo così raffazzonato e posticcio. C’è stata forse un’analisi seria di tale contingenza, un esame autocritico in grado di esporre perché ci si trovi in questa situazione? Se lo si facesse, è assai probabile, vedremmo che la scarsa rappresentanza è figlia di una ancor più scarsa rappresentatività. Il secondo motivo d’imbarazzo risiede poi negli argomenti spesi finora per rivendicare un assessore in più. Anche in questo caso si parla solo di numeri, in astratto, senza sfiorare i temi, le proposte o le competenze – vale a dire gli elementi qualitativi, e non solo quantitativi – che un tale aumento andrebbe a sostanziare. Difficilissimo, insomma, che qui sia in ballo qualcosa di diverso dalla mera ambizione a occupare “poltrone”, qualsiasi esse siano, con la foglia di fico della rappresentatività a nascondere una ben più evidente assenza di idee, diciamo così, appena più nobili.

      Infine, e per chi scrive è l’aspetto forse maggiormente deprimente, tutto il rinnovato parlare di rappresentatività “etnica” non fa che cementare la deludentissima acquisizione che in Alto Adige/Südtirol, ancora oggi, ogni ragionamento politico su come gestire le sorti di questo “Proporzland” escluda in linea di principio una leadership finalmente libera dai ceppi di un passato in cui il dividersi e contarsi (o il contarsi per dividersi) rappresentava l’unico presupposto e orizzonte della vita pubblica. Personalmente, io non mi sento meglio rappresentato da una persona che, per puro caso, parla la mia stessa lingua, prescindendo quindi da altre sue caratteristiche umane e culturali. Sarebbe desiderabile relegare cose come queste nel baule degli utensili vecchi, non più funzionali. Ma temo, come si può capire, che ci sarà ancora da aspettare parecchio.

      Corriere dell’Alto Adige, 29 novembre 2023

      Ferita primordiale

      Per una volta ci sia consentito capovolgere il naturale andamento di un articolo, anticipandone subito la conclusione. Della questione sulla doppia cittadinanza – risollevata in vario modo e da vari soggetti proprio nei giorni precedenti l’inaugurazione del nuovo Consiglio provinciale – se ne può discorrere solo a titolo accademico o polemico, perché comunque non se ne farà niente.

      Così si è espressa di recente anche la commissione del Parlamento austriaco, isolando l’ultradestra della FpÖ (Freiheitliche Partei Österreich), che sta fornendo attualmente una sponda ai patrioti della Südtiroler Freiheit e qualche imbarazzo ai cugini di partito al di qua del Brennero. Ciò dovrebbe bastare a tranquillizzare per il momento sia la nostra diplomazia, sia la piccola compagine di centrodestra locale, la quale comprensibilmente ha fatto già sapere alla Svp di non poter cedere su un fronte del genere in vista della formazione del nuovo governo provinciale.

      Nonostante l’esito scontato della vicenda, non è tuttavia completamente inutile tentare di spiegare perché, con estenuante cadenza periodica, la storia del doppio passaporto torni a fare capolino sulle pagine dei giornali. Limitiamoci a commentare quanto ha dichiarato il deputato della FpÖ Peter Wurm nel testo della mozione portato in Commissione esteri e, come detto, bocciato dal consesso in cui è stata proposta. Ecco le sue parole: “La funzione tutrice dell’Austria nei confronti dei sudtirolesi sarebbe garantita al meglio concedendo la cittadinanza a chi appartiene al gruppo linguistico tedesco e ladino”. Bene, ma allora cosa significano, in concreto, simili affermazioni?

      Senza bisogno di girarci troppo intorno, il senso è questo: la funzione tutrice dell’Austria non potrà mai fornire garanzie bastevoli, perché fin tanto che i cittadini di lingua tedesca e ladina non saranno considerati anche cittadini austriaci a pieno titolo, ogni statuto di autonomia, ogni norma di attuazione e ogni altro dispositivo legale non risarcirà mai la ferita primordiale inferta con l’annessione avvenuta più di 100 anni fa. In mancanza della possibilità di praticare la strategia dell’autodeterminazione, alla quale il diritto internazionale sbarra le porte stante l’esistenza dell’autonomia, ecco perciò il ricorso a surrogati altrettanto privi di prospettiva, proposti al solo e unico scopo “simbolico” di non rimarginare e anzi esporre in modo vittimistico la ferita suddetta, spremendone tutto il sangue (e il pus) residuo. E senza questo sangue (e questo pus) ogni idea alternativa di autonomia finisce sempre con l’apparire poco autonomistica.

      L’aveva scritto in modo assai brillante qualche anno fa un autore brissinese, in un libro putroppo troppo intelligente per essere non diciamo letto, ma anche solo notato: “Alimentandosi di un paradosso attivo che poggia sulla dicotomia non risolvibile tra efficacia e necessità, l’autonomia perfetta si dà soltanto nella forma di una imperfezione: dev’essere efficace ma non troppo, necessaria ma non indispensabile. Vista in quest’ottica, essa soggiace a una logica ostinata: essendo indispensabile, conferirebbe la propria scarsa efficacia; se invece funzionasse a dovere, non sarebbe più necessaria. Nel primo caso andrebbe modificata, nel secondo senz’altro eliminata” (Enrico De Zordo, “Divertimenti tristi”, Edizioni alphabeta Verlag 2018, pag. 127). Chiunque abbia seguito i “lavori” del defunto Convento per l’aggiornamento dell’autonomia non ha avuto difficoltà a rendersi conto di come qui stanno (e ancora staranno per decenni) le cose.

      Ribadite tali ovvietà, accontentiamoci di salutare l’avvio della nuova legislatura sperando davvero non si parli molto di antiche ferite e ci si concentri invece su quei famosi problemi “reali” che però, riguardati dalle finestre del Palazzo, sembrano al contrario stranamente acquisire una consistenza nebbiosa, come se attenessero a un distante mondo di fantasia.

      Corriere dell’Alto Adige, 16 novembre 2023 (pubblicato con il titolo Quelle antiche ferite)

      Bolzano senza dimora

      La notizia risale al giorno seguente l’accaduto, 7 novembre 2023, e la sua laconica stringatezza assomiglia già a un lugubre referto. Due migranti, che si trovavano nella zona industriale di Bolzano in prossimità dei binari, a ridosso del Centro emergenza freddo Ex Alimarket di via Gobetti, sono stati investiti e gravemente feriti da un Frecciarossa in transito. Ricoverati all’ospedale San Maurizio, uno di loro ha riportato ferite che speriamo risulteranno guaribili; l’altro – si chiamava Mohammed Amine – invece non ce l’ha fatta. Due giorni prima aveva compiuto 26 anni.

      La pagina Facebook dell’associazione “Bozen solidale”, associazione della quale non loderemo mai abbastanza l’impegno, ha riportato uno scambio di messaggi in cui la futura vittima raccontava di trovarsi costretta a dormire per strada, lamentava il freddo e chiedeva di poter avere almeno coperte e una tenda per ripararsi. Di lui, ancora, sappiamo che non si trattava semplicemente di uno sbandato, o per meglio dire: il 27 ottobre si era prodigato per ricevere un posto presso l’Ex Alimarket, senza successo. Nel frattempo era riuscito, assieme al compagno di sventura, a improvvisare un rifugio (ovviamente più una “tana” che un’abitazione) in una boscaglia antistante le rotaie dei treni. Attualmente a Bolzano ci sono tra le 100 e le 200 persone che vivono in condizioni simili. È un numero costante da anni, una cifra vergognosa che non si riesce ad abbassare, per quanti discorsi e appelli siano già stati fatti soprattutto quando le temperature diventano rigide e aumenta il rischio di vulnerabilità di chi non ha un tetto sulla testa. Intanto, il presidente della Provincia, Arno Kompatscher, ha firmato proprio qualche giorno fa l’ordinanza per l’allestimento straordinario di un’altra struttura, cioè dell’edificio ex Inpdap, di via Pacinotti, che potrebbe accogliere fino a 200 persone. È dubbio che potrà aprire prima della fine dell’inverno.

      Nelle stesse ore in cui Mohammed perdeva la vita cercando in realtà semplicemente di sopravvivere, qui la discussione prevalente è stata catalizzata da un altro luogo, anch’esso posto non lontano dai binari. Niente che abbia a che vedere con l’emergenza freddo o con la disperazione. Si tratta, come i lettori avranno già facilmente immaginato, dell’enorme cantiere del Waltherpark (quello che le traballanti vicende connesse al suo ideatore, René Benko, hanno posto più volte sotto la luce dei riflettori) e che – se il piano di finanziamento verrà confermato e portato a compimento – ci darà prima o poi 76 appartamenti ad uso residenziale, 34 appartamenti ad uso investimento, 90 nuovi negozi e 805 parcheggi. Certo, all’apparenza l’accostamento sembra improprio. Cosa c’entra il progetto di edificare un complesso lussuoso e destinato essenzialmente a privati con il sistema di accoglienza rivolto a chi, di “privato”, ha poco più della sua mera esistenza? Eppure è impossibile non avvertire lo stridere di questi universi contrapposti, di queste diseguaglianze così laceranti.

      Ha scritto Girolamo Grammatico in un libro bellissimo che muove dalla sua lunga esperienza di operatore in un centro romano per persone senza dimora (“I sopravviventi”, Einaudi 2023): «Un luogo per essere accogliente deve avere dei requisiti che garantiscano la sicurezza necessaria a poter sviluppare le nostre potenzialità. La sicurezza ontologica è un sentimento sottotraccia, una bolla percettiva, una fiducia pregiudiziale nell’altro e nel futuro. Ingredienti irrinunciabili per vivere in un luogo sentendosi a casa». E ancora, spiegando perché ha deciso di scrivere il suo libro: «La gente doveva sapere quanta umanità distrutta era alla deriva tra le strade delle metropoli e le sponde dei servizi di inclusione sociale». La Bolzano in cui noi oggi abitiamo, la città che reputiamo essere la “nostra” casa, è fatta del sogno dei pochi che già possiedono o possono permettersi di comprare appartamenti scintillanti, dei molti che, nonostante il lavoro, faticano a trovare o mantenere alloggi alla portata dei loro guadagni, e di una manciata di esseri umani che, prima di essere seppelliti in una tomba, vanno a nascondersi in un buco circondato dal cemento.

      Corriere dell’Alto Adige, 11 novembre 2023

      Approssimazione all’altro

      La ristampa di un libro del sociologo Franco Cassano ci consente di riflettere criticamente sulla pretesa di rendere assoluto il nostro modo di concepire le cose.

      Due anni fa, per l’esattezza il 23 febbraio 2021, morì il sociologo anconetano Franco Cassano. Forse qualcuno ricorda almeno i suoi due libri più famosi: Il pensiero meridiano (Laterza 1996), scritto per accreditare al Sud, a tutti i Sud del mondo, il diritto di promuovere una visione alternativa e una ridefinizione dei modelli economici e politici dominanti; L’umiltà del male (Laterza 2011), un ammonimento per esortare la sinistra ad abbandonare il suo controproducente aristocratismo etico, cioè il pregiudizio di stare comunque sempre dalla parte della “verità”, del “bene”. Fuori commercio da alcuni anni, è una fortuna che di Cassano sia stato adesso ristampato un piccolo e preziosissimo volume – Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro (Il Mulino 2023) –, uscito originariamente nel lontano e cruciale 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino.

      Scandito in capitoli che esemplificano altrettante frontiere di possibile relazione con l’alterità (gli animali, le età, i sessi, le culture, i caratteri), “Approssimazione” propone una critica ancora indispensabile, visto che il tema al quale si applica non sembra aver smarrito la sua forza, ma al contrario fa mostra di rinascere e riprendere vigore accompagnandosi come un’ombra minacciosa al progresso della tecnica planetaria, ossia ai processi potenzialmente distruttivi della globalizzazione e dell’antropocene. «Gli esercizi che siamo venuti proponendo – scrive riassuntivamente il sociologo nel capitolo dedicato alle culture – sono ispirati dal rifiuto netto e costante dell’etnocentrismo, dalla nostra incredulità rispetto all’idea che ad altri popoli sia spettata in sorte una religione idolatrica e a noi quella giusta; tale rifiuto nasce così dalla indisponibilità a vivere in quella doppiezza epistemologica che spinge a relativizzare il punto di vista altrui e non il proprio». In queste parole, come richiamato più volte dall’autore, risuona la grande lezione del filosofo cinquecentesco Michel de Montaigne (“Je m’avance vers celui qui me contredit”) che mette a fuoco il modello di costruttiva autorelativizzazione (cioè una pratica ben più radicale e fruttuosa del generico relativismo scettico con il quale potrebbero essere confuso) al fine di conservare un accesso plurale al “nostro” (da sottolineare: e quindi sempre anche “altrui”) Mitwelt.

      Ma perché, dunque, è così importante autorelativizzarci? Se ci sporgiamo sull’abisso costituito dall’alterità, riducendo la pretesa di rendere assoluto il nostro modo di concepire le cose, non rischiamo piuttosto di farci inghiottire da quello stesso abisso e di smarrire ciò che ci caratterizza di più, vale a dire la nostra “identità”? A tali paure Cassano risponde con un’analisi che riportiamo per esteso: «La perdita di sicurezza, di patria e di un centro è il primo passo necessario di un movimento nel quale ci si approssima all’altro, togliendogli tutti quegli statuti che lo tenevano a distanza. Questo movimento che mira a produrre concavità non è solo un movimento in perdita nel quale tutto ciò che prima ci appariva solido inizia a vacillare, ma anche un tentativo di uscire dal solipsismo della nostra cultura, l’unico modo nel quale essa si può aprire. Non si tratta di convertirsi, rifacendo il più antico e famoso dei viaggi tra universi simbolici, lasciarne uno per abbracciarne un altro, ma di rimanere all’interno del proprio lavorando su quegli angoli dove è più facile produrre crepe e far entrare vibrazioni». È davvero irresistibile il contrasto che percepiamo confrontando una simile, auspicabile, impostazione al paesaggio intorno a noi. Possiamo prendere spunto, in scala minore, dall’affermazione delle destre identitarie registrata nelle ultime elezioni provinciali in Alto Adige/Südtirol, oppure guardare alla tragica recrudescenza del conflitto israeliano-palestinese: qualsiasi esaltazione e rivendicazione delle radici ha per effetto collaterale la riproposizione di un’aspirazione a raffigurarsi come il popolo “eletto”, che in casi estremi, per usare le parole di Simone Weil, consente di “abbassare Dio fino a renderlo partigiano di una guerra”.

      Evitare la partigianeria più ottusa, volgere ascolto e attenzione all’altro comprimendo la tendenza a considerare il “nostro” mondo come l’unico possibile, sono consigli che, purtroppo, non vengono ancora recepiti in modo programmatico, perché non servono a calamitare il “consenso”. Così diventa particolarmente doloroso constatare come, anche dove se ne dovrebbe trovare una maggiore affermazione, continuino al contrario ad agire e proliferare meccanismi di rinserramento e di esclusione. Ne abbiamo avuto un esempio recente con la scrittrice palestinese Adania Shibli, autrice di un libro (Un dettaglio minore, pubblicato in Italia da La nave di Teseo) che avrebbe dovuto ricevere il LiBeraturpreis 2023 alla Buchmesse di Francoforte, premiazione che invece – a causa di quanto accaduto mediante l’attacco di metà ottobre a Israele da parte di Hamas – è stata in un certo senso “congelata” e rimandata ad altra sede. Un eccesso di scrupolo, pur accettando parzialmente le preoccupazioni degli organizzatori, o volendo attribuire alla storia narrata una versione anch’essa di parte. E ciò ci fa capire quanto sia arduo affrontare i conflitti dando spazio e voce a tutti coloro che ne sono coinvolti, imponendo piuttosto una forma di silenzio che alla fine coincide con la cementificazione di un “teleologismo” fatto solo a misura del nostro sguardo a corto raggio (a tal proposito è ancora Cassano a metterci in guardia, ammettendo che opporvisi è comunque la cosa più difficile di tutte, perché “anche un discorso che mira a sgominare il teleologismo non può [completamente, ndr] sfuggirvi”).

      Concludo evocando il nome di un protagonista della storia sudtirolese quasi dimenticato (inutile cercarne traccia sullo stradario locale), ma che forse meriterebbe di essere riscoperto e apprezzato proprio alla luce di quella ricerca dell’approssimazione all’altro, per oltrepassare le barriere del solipsismo, così ben argomentata da Cassano. Si tratta di Luigi Credaro (1860-1939), al quale Maurizio Ferrandi e Hannes Obermair hanno dedicato un capitolo del loro volume Camicie nere in Alto Adige (appena uscito per le Edizioni alphabeta Verlag). Schiacciato tra due fazioni inconciliabili (i nazionalisti e i fascisti, da un lato, gli esponenti del Deutscher Verband, dall’altro), Credaro – nominato nell’estate del 1919 dal governo Nitti Commissario civile per la Venezia Tridentina – tentò inutilmente di aprire un varco al difficilissimo dialogo dei gruppi linguistici in quel breve frammento di tempo che va dalla fine della grande guerra all’avvento del fascismo. Di lui si ricorda in particolare l’iniziativa di far tradurre un libro che allora ebbe una larghissima diffusione nel mondo tedescofono: Südtirol: Land und Leute vom Brenner bis zur Salurner Klause, a cura di Karl von Grabmayr. Erano pagine certamente avverse all’annessione italiana, ma proprio per questo da leggere approfonditamente per farsi un quadro più esatto del punto di vista sostenuto dagli “avversari”. È sempre infatti necessario “conoscere e comprendere appieno le posizioni dei propri interlocutori, anche quando esse sono contrarie alle proprie idee”. Impostazione conforme al liberalismo più illuminato, ma che finì per scatenare una reazione virulenta da parte di tutti coloro (in primis, ovviamente, Ettore Tolomei) allergici a qualsiasi iniziativa di apertura. Allontanato in seguito in modo assai rude dalla carica di Commissario civile, Credaro, pur mantenendo il seggio di senatore, rifiutò poi di iscriversi al Partito fascista, e negli anni successivi si limitò a sopravvivere come un appartato oppositore al regime.

      ff – 9 novembre 2023 (pubblicato con il titolo: Noi e l’altro)