Dripping Pasolini

Dripping Pasolini

Quaranta gocce per il 40° anniversario della morte

“Killed to keep the world turning” (Coil, Ostia – The death of Pasolini)

1 (La prima volta). La prima volta che ho visto Uccellacci e Uccellini, un pomeriggio alla televisione, ho intuito che si trattava di qualcosa d’importante per la mia vita. Qualcosa di decisivo, cioè responsabile di un taglio tra ciò che essa era stata e ciò che sarebbe diventata da quel momento in avanti. Quel film era straniante e l’effetto, in primo luogo, era causato da Totò, che ovviamente conoscevo già come attore “da ridere”. Lì però non faceva ridere. O meglio, faceva anche ridere, ma c’era qualcosa in più. Qualcosa che allora mi sfuggiva. E io sentivo chiaramente che sarebbe stato molto importante rendermi conto di cosa si trattasse.

2 (Via Crimea). Ultimamente mi capita spesso di cambiare il nome alle vie. È il mio modo di memorizzarle. Così, una notte, dopo aver cenato al Pigneto, siamo passati da via Formia, da me ribattezzata via Crimea, perché volevo vedere uno dei luoghi in cui è stato girato Accattone, e tu mi hai detto che era a pochi passi da casa tua, e che però non si chiamava via Crimea, ma via Formia. Il posto era poco illuminato, così i ricordi del film potevano sovrapporsi con maggiore libertà al paesaggio attuale, fino a restituirci qualcosa di quella desolazione poetica da me cercata. Abbiamo aspettato un po’ che Accattone e Stella spuntassero, in fondo alla via. Ma non sono arrivati. Poi siamo rientrati in macchina e tu mi hai fatto vedere la nuova fermata della terza linea della metropolitana, come un’oasi di luce nel buio di Sinferopoli.

Accattone3 (Una vita violenta). Adesso la scena è più remota e confusa. Sono a casa mia, a Livorno. Forse ho quindici anni. Provo a leggere Una vita violenta (un tascabile Garzanti che ho ancora). Ma faccio fatica: il romanesco mi respinge. Non trovo nessun appiglio tra ciò che leggo e la realtà che ho intorno (la mia periferia non assomiglia, per fortuna, a quella descritta nel libro). Lo lascio a metà.

4 (Radici friulane). Pasolini scrive le prime poesie nel dialetto di Casarsa: “Un idioma straniante pure per buona parte dei friulani”, mi racconta Stefano Barbacetto. “Eccentrico, arcaico, con sfumature di veneto. Nell’apprenderne le finezze fu guidato da Riccardo Castellani, un poeta raffinato e timido, più vecchio di lui. A modo suo bilingue (in carnico e in casarsese). La loro amicizia s’interruppe, ma Pasolini previde che il canzoniere friulano di Castellani sarebbe stato straordinario.

Guido Alberto Pasolini5 (Il suo dolcissimo tricolore). Non erano tutte belle le belle bandiere degli anni Quaranta. Non erano tutte belle perché, alla fine, ogni bandiera non può convivere con le altre. Ed è così che sul rosso si allarga una macchia di sangue ben visibile. Guidalberto Pasolini, nome di battaglia “Ermes”, fratello più giovane e amatissimo, scorda il suo nome, non torna indietro, anche se avrebbe potuto. Il resto si legge in uno scarno referto: “Il 7 febbraio 1945 viene catturato alle Malghe Topli Uork (poi dette di Porzûs) da alcuni partigiani garibaldini. Dopo l’esecuzione del suo comandante Francesco De Gregori (e di altre 3 persone), è condotto con i suoi compagni al Bosco Romagno, nel comune di Cividale del Friuli. Sottoposto a ripetuti interrogatori, nei giorni successivi (tra l’8 e il 20 febbraio 1945) verrà sommariamente processato e fucilato dagli stessi che lo hanno fatto prigioniero”.

Gasometro6 (Le borgate, la periferia). Per uno scrittore come Pasolini, che collocò il proprio punto di vista sul mondo nelle bassure dove vivono i miserabili, i reietti, i “sottoproletari”, è chiaro che la poesia doveva essere ricercata e doveva materializzarsi ai margini della città. Anche la famosa “mutazione antropologica degli italiani”, vista da qui, può essere letta nella forma di una corruzione ad un tempo spaziale e sociale: “Un po’ alla volta la città si è avvicinata a queste borgate che prima della guerra erano perdute nella campagna, le ha inghiottite, le sta inghiottendo” (I campi di concentramento, in Storie della città di Dio).

Pasolini corona di spine7 (Il sacro). Sulla peculiare religiosità di Pasolini è stato detto e scritto molto. La sua concezione della trascendenza – che lui traeva dalla realtà mediante le tecniche di riproduzione poetica delle quali si serviva (in particolare il cinema) – è di tipo “immanente”. Un’immanenza che dunque non spiana mai il reale a fronte delle sue ipotetiche sporgenze “sacre”, ma che al contrario attinge alla sacralità proprio mentre approfondisce la realtà in apparenza più riottosa a farsi formalmente annunciatrice del “sacro”.

8 (il basso coincide con l’alto). Se c’è un detto evangelico che si addice a Pasolini, questo è sicuramente “gli ultimi saranno i primi” (Matteo 20,1-16). Allo stesso modo, scegliendo i suoi attori, abbiamo personaggi presi dalla strada e figure staccate dall’empireo del cinema o di altre arti (Anna Magnani, Totò, Maria Callas).

Mamma Roma9 (Roma). Roma, mamma Roma, l’eternità di Roma. Cos’è Roma per Pasolini? Basterebbero poche immagini, per esempio quelle scattate al poeta da Henri-Cartier-Bresson al Mandrione, tra i regazzini, le baracche e laggiù il fronte della città che avanza. Ma, per l’appunto, anche solo il volto di Anna Magnani che conclude il suo straziante monologo sulle generazioni di pezzenti a stringere la catena dei destini umani, fino all’esalazione dell’ultima domanda: “Allora de chi è la colpa qua, de chi è la responsabilità?”. Ecco l’eternità di Roma.

10 (Longhi). Pasolini fu allievo all’Università di Bologna del grande critico d’arte Roberto Longhi. Longhi è stato uno dei massimi interpreti del Caravaggio. Tra Caravaggio e Pasolini, potrebbe dire Longhi, vi è la stessa “certezza di visione in unità di luce circolante”. Unità di luce vissuta come abbattimento della gerarchia tra i generi. E una cospicua porzione di “ombra portata”, vale a dire il loro tragico destino.

11 (Bach e la Grande Bellezza). Bach serve a Pasolini per trasfigurare l’epos degli umili, immergendolo nella dimensione sfolgorante del sacro. È un altro modo con il quale egli fa cortocircuitare il basso con l’alto, il Sacro Gra e la Grande Bellezza concepiti all’unisono.

Pasolini Susanna12 (Madre). Le fotografie che ritraggono Pasolini assieme alla madre mi hanno sempre fatto pensare al rapporto filiale intessuto da Roland Barthes con la propria. Anche in quel caso si trattava di un lutto inestinguibile (si legga il libro Dove lei non è, o le famose pagine de La camera chiara). Ma per Pasolini il lutto è anticipato e rivolto verso se stesso, come se, per la sola ragione di aver ricevuto da lei la vita, questa vita fosse divenuta di fatto impossibile: “Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”. Alcuni testimoni hanno raccontato che, mentre lo stavano massacrando, il poeta gridava “Aiutami, mamma”.

Pasolini Comizi13 (Omosessualità). Una delle domande poste nei Comizi d’amore è: “A che punto comincia l’anormalità e finisce la normalità nei rapporti sessuali?”. Pasolini strappa il sesso dai confessionali e lo rende protagonista di un’inchiesta en plein air. La sua stessa autocondanna (o meglio: ciò che gli verrà sempre rinfacciato come “colpa”) andrà così tatuandosi sul rovescio della condanna rivolta all’ipocrisia borghese. Non a caso Giulio Andreotti, che come incarnazione dell’uomo medio di quei condizionamenti era l’interprete e il guardiano, commentando le circostanze della sua morte dirà che “se l’è cercata”.

14 (Fotografie). Esistono moltissime fotografie di Pasolini, anche per la sua lunga frequentazione dei set cinematografici (pullulanti di fotografi). Si potrebbe credere che non disdegnasse cercare o donare la propria immagine riflessa. Ma il dono alla fine supera la ricerca, ed è per questo che la maggior parte delle immagini che lo ritraggono risultano così intense (per esempio le fotografie di Pino Prediali).

15 (Maestri). Agli inizi degli anni Novanta frequentai un corso mensile di tedesco a Überlingen, sul lago di Costanza. Abitavo insieme a un amico in una casa su una collina adiacente la città e per raggiungere la scuola, posta in riva al lago, dovevamo attraversare un piccolo parco. C’erano corvi ovunque e ci dicevamo: “Ecco, guarda quanti maestri”.

16 (Ragazzi di vita). Copio la definizione da una scheda scritta per gli studenti: “Il titolo indica che i protagonisti sono dei giovani che vivono di espedienti e piccoli furti per sopravvivere. La miseria e le dure condizioni di vita li hanno costretti a crescere prima del tempo, ma non gli hanno fatto perdere il loro vitalismo”. Si potrebbe anche dire che si tratta di ragazzi nati in un contesto abbruttente, ma che non si danno per vinti, che non rinunciano a cercare di scardinare i meccanismi della loro emarginazione, non potendo comunque mai sfuggire allo stigma sociale che conferma il loro abbruttimento.

al-biondo-tevere17 (Al Biondo Tevere). Una sera cenai per caso al Biondo Tevere, il ristorante sull’Ostiense in cui Pasolini e Pino Pelosi trascorsero la sera del primo novembre 1975, la sera fatale. Nella sala al piano inferiore, sul lato destro rispetto all’entrata, alcune fotografie segnalano il tavolo al quale i due mangiarono (in realtà mangiò solo Pelosi). Immagino che non sia facile pranzare o cenare lì. Il locale non mi dette l’impressione di essere uno di quelli che registrano spesso il “siamo al completo”. Ma posso anche pensare che, in certe situazioni di necessità, a qualcuno quel tavolo possa venire offerto. E dunque sarà anche possibile mangiarci senza pensare troppo a quello che è accaduto. Magari perché non sono in molti a ricordarlo, o a ritenerlo significativo (il che è decisamente più probabile).

18 (Capelli al vento). Grazie a YouTube oggi praticamente è possibile recuperare quasi ogni tipo di contributo filmato che è stato prodotto con e su Pasolini. Uno di questi ce lo mostra mentre parla a Sabaudia dell’omologazione creata dal potere contemporaneo, secondo lui più invasivo e distruttore dei costumi o del modo di vivere degli italiani di quanto lo sia mai stato il fascismo. È la famosa tesi del “mutamento antropologico”, della decomposizione della società sotto i colpi (morbidi, subdoli e quindi più letali) del livellamento culturale che rende il “popolo” “massa”. Una tesi che può essere anche “sfocata” nelle due direzioni verso le quali è protesa: dannazione del presente e idealizzazione del passato. Ma con la quale occorre confrontarsi. Intanto lì, a Sabaudia, il poeta dice quelle cose con i capelli al vento, sullo sfondo un mare in tempesta.

19 (Intellettuale organico). Scrive Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere: “Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico)” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1550-1551). Significativo che Pasolini abbia compiuto il passaggio che l’ha reso un intellettuale organico staccandosi dall’organismo del Partito Comunista Italiano, quest’ultimo incapace di tollerare la sua omosessualità manifesta (nella motivazione dell’espulsione si parla di “indegnità morale”) e dunque la completezza della sua personalità.

20 (Il fiore rosso). Il fiore rosso, che compare in mano a un Ninetto Davoli felice e spensierato nel traffico di Roma, è il simbolo dell’innocenza, non della rivoluzione. In Pasolini la fine dell’innocenza è un tema chiave. E si congiunge a quello della fine della rivoluzione (o della speranza rivoluzionaria). La morte dell’innocente, giacché nel mondo contemporaneo l’innocenza non può più esistere, anticipa così quella del poeta (un tempo) rivoluzionario.

21 (Lampi sull’Eni). Il titolo di questo capitolo misterioso (misterioso perché mancante, forse mai scritto, forse trafugato) di Petrolio mi ha sempre affascinato. È un lampo che illumina una scena oscura, e che poi, subito dopo essere stata illuminata, cioè appena intravista, sprofonda definitivamente nell’oscurità. Il titolo del capitolo mancante di Petrolio funziona allo stesso modo del celebre “Io so”: ne è per così dire una variazione e una sintesi poetica.

mangano-teorema-in-evidenza22 (Un figlio solo). Provocatorio e profetico. La coppia di aggettivi è quella che viene associata più spesso a Pasolini. Si trova anche nelle note di presentazione di Teorema, il libro che scrisse durante la realizzazione dell’omonimo film. Si tratta, a mio avviso, del suo capolavoro più alto, quasi un tentativo di vedere tutto ciò che si è uscendo fuori da sé. E la visione ci parla dell’indifferenziato e del processo – la duplice perdita del Paradiso – che portò poi alla nascita di ogni differenza (a cominciare da quella tra maschile e femminile) e della violenza e del male: “Stretti per mano ai genitori prendemmo le strade del mondo. Lucifero si distinse da Abele, e seguì il suo destino finendo nell’oscurità più nera. Abele morì, ucciso da se stesso col nome di Caino. Insomma non restò che un figlio, un figlio solo”.

23 (Scuola di ballo al sole). La scena di Uccellacci e uccellini con i ragazzi che ballano fuori dal bar, lo scambio tra Totò e Ninetto, il cameriere che si aggiunge agli altri, l’arrivo della corriera e la checca che li chiama.

24 (Addio al calcio). L’immagine è famosa. Pasolini gioca a calcio con dei bambini in un campo – più propriamente una spianata – di periferia. È vestito in giacca e cravatta, è concentrato e felice. Ho letto che anche il due novembre 1975, mentre giaceva a terra esanime, a malapena coperto da un lenzuolo, e si erano già radunate diverse persone a intralciare gli agenti di polizia intenti nei loro (chiaramente impossibili) rilievi, un gruppo di ragazzetti si era messo a rincorrere un pallone proprio a due passi dal cadavere.

Maria Callas, American-born Greek dramatic coloratura soprano, and Italian film director Pier Paolo Pasolini, pictured in July 1969 in Nevshir, Turkey, during shooting Pasolini movie Medea. AFP PHOTO25 (Il poeta e la diva). Non ho mai visto la Medea, ma molte foto di Pasolini e la Callas sul set. Innamorati l’uno dell’altra.

26 (Una forza del passato). Stavolta il regista è Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani). Concede una breve intervista a un giornalista. Alla fine praticamente lo annienta, definendolo “un uomo medio”, cioè “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. Il giornalista ride. Poco prima aveva ascoltato, non capendoli, i versi che custodiscono il centro dell’ispirazione del poeta: “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore.Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più”.

Pasolini Pontormo27 (Pittore). Pasolini sapeva disegnare e dipingere. Famosi gli autoritratti, utilizzati dagli editori per la copertina di alcuni suoi libri (ricordo Le lettere luterane). I suoi film, inoltre, abbondano di citazioni tratte dalla storia dell’arte (Pontormo, Giotto, Mantegna). Alla fine del Decameron, travestito da maestro d’affreschi trecentesco, afferma: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto”.

28 (Una storia sbagliata). “Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale”. Fabrizio De Andrè ha dedicato a Pasolini una canzone (Una storia sbagliata) offrendone anche un’interpretazione: “…la morte di Pasolini ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto”. La storia della sua morte è sbagliata perché, banalmente, non sarebbe dovuta accadere. Poi aggiunge che la storia sbagliata è sbagliata anche perché è scaduta a merce banale, da “negozio di parrucchieri”. Il pettegolezzo fetido in margine a una vicenda che ha al suo centro (come sembrava anche a De Andrè, quando scrisse il suo pezzo) solo una relazione omosessuale, tipica di un paese incivile: “Purtroppo la cultura maschilista e intollerante di un passato ancora troppo recente, ed allora ancora più recente di quanto non lo sia adesso, e che definirei un passato ancora recidivo, ha fatto credere alla maggioranza che il termine normalità debba coincidere necessariamente con il termine intolleranza. Ecco, un altro aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare nella canzone per la morte di Pasolini è quello legato ad una moda purtroppo ancora adesso corrente, e che si ricollega anche lei al clima di ignoranza e di caccia al diverso”.

29 (Un ladro). Bernardo Bertolucci racconta che la prima volta che vide Pasolini lo scambiò per un ladro. Il poeta aveva bussato alla porta dei Bertolucci perché cercava il padre di Bernardo. Chiarito l’equivoco, Bertolucci (allora giovanissimo) raccontò a Pasolini quello che aveva pensato. La cosa fece molto piacere a Pasolini: “Per uno che racconta storie di ladri, non c’è niente di più bello che essere scambiato per un ladro”.

Pasolini Dumas30 (32 57 C). La sigla, impressa con un pennarello su un cartone in pessimo stato, indica il codice d’archivio del Museo criminologico di Roma, in cui sono custoditi i reperti dell’omicidio Pasolini. Aprendola, ci si trova un bastone, un’assicella spezzata, la camicia impregnata di sangue, alcuni documenti, libri (uno di Marx). I suoi occhiali con l’inconfondibile montatura nera (ci si chiede com’è possibile che non si siano rotti). C’è anche il famoso maglione verde e il plantare di scarpa che non appartenevano né a Pasolini né a Pelosi.

31 (Epitaffio). Il poeta romano Elio Filippo Accrocca (1923-1996) ci ha lasciato un anagramma che è un epitaffio: “Pier Paolo Pasolini – Parlò ai Pino Pelosi”.

32 (Vagalumes). Nel memorabile attacco al suo L’affaire Moro, Leonardo Sciascia si rivolge a Pasolini – “fraterno e lontano” – come per rincuorarlo: “Le lucciole che credevi scomparse, cominciano a tornare. Ed è stato così anche con i grilli: per quattro o cinque anni non li ho sentiti, ora le notti sono sterminatamente gremite del loro frinire”. La scomparsa delle lucciole, mediante la quale il poeta data il passaggio tra una prima e una seconda fase del regime democristiano (“La prima fase di tale regime – come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali – è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi”), è una delle due immagini più forti con le quali egli ha influenzato il linguaggio politico. L’altra, come noto, è quella del “Palazzo”. In effetti, le lucciole non erano scomparse. Nell’estate del 1995 mi trovavo a Bologna, per svolgere il servizio civile. Abitavo fuori città, in una villa sui colli. Il Comune felsineo l’aveva adibita ad ostello. Perlopiù noi obiettori di coscienza eravamo da soli, ma di tanto in tanto venivano anche altri ospiti. Una settimana siamo stati piacevolmente invasi da un gruppo di bambini brasiliani (non ricordo il motivo del loro arrivo). Ovviamente abbiamo giocato a calcio con loro, nel grande prato antistante la villa. Una sera (mentre giocavamo) i bambini avvistarono dei puntini luminosi che danzavano sull’erba e si misero tutti a gridare di gioia: “Vagalumes! Vagalumes!”. “Darei l’intera Montedison per una lucciola”, scriveva Pasolini nel 1975. Il filosofo Georges Didi-Huberman (Come le lucciole, Bollati Boringhieri 2010) spiega bene il senso politico di questa predilezione. Si tratta della contrapposizione tra i “feroci riflettori del potere” e il lucore intermittente della resistenza o di qualsiasi altra attività che, seppur balbuziente ed oppressa, tenta di mettere in questione il fascismo di ieri e di oggi.

Uccellacci Uccellini33 (Omogeneizzazione). A parte la famosa indigestione di ricotta nel cortometraggio omonimo, la coprofagia illustrata in Salò, o i nidi di rondine bolliti di Uccellacci e uccellini, tutti esempi di gastronomia problematica, non mi risulta che Pasolini abbia dedicato particolare attenzione al tema del cibo quale privilegiata sonda etnografica. Strano, perché niente – più di un’analitica della tavola – si sarebbe prestato meglio a fotografare la fine dell’originalità individuale, dei caratteri regionali, del sapore locale. Alberto Arbasino (Ritratti italiani, Adelphi 2014) ha suggerito per questo di leggere l’omologazione come una più elementare forma di omogeneizzazione: “… perché forse dall’alimentazione con gli omogeneizzati infantili nasce la standardizzazione uniforme degli atteggiamenti e degli abbigliamenti e del lessico”.

34 (La solitudine). “Bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. È l’attacco di un celebre frammento che porta il titolo Versi del testamento, ed è incastonato nella raccolta Trasumanar e organizzar del 1971. Pasolini è stato inchiodato alla solitudine, come lui stesso aveva compreso benissimo, trovando le parole più affilate per dirlo, dal moralismo e dal qualunquismo della società italiana, ovvero dalla loro “abietta alleanza”. Per sfuggire a una tale, sterminata, solitudine, non gli restava che farla deflagrare creativamente in opere sempre più dure, oppure, e sono rari momenti, defilarsi preparandosi a morire: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”.

35 (8 settembre a Livorno). Una domanda che potrebbe essere considerata oziosa, ma non lo è per me, soprattutto alla luce della risposta. Dove si trovava Pasolini l’8 settembre del 1943, cioè – per usare la formula di Salvatore Satta – il giorno in cui moriva la patria? Si trovava a Livorno, la mia città, prigioniero dei tedeschi. Approfittando della confusione seguita a un attacco aereo, riuscì poi a fuggire e a tornare in Friuli. Su Pasolini e Livorno ho recuperato un appunto che ricopiai qualche anno fa, traendolo da una rivista del 1959 intitolata Successo: “Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere. Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici. Si ha poco l’impressione di essere in Italia. Intorno, nelle fabbriche dei quartieri verso il Nord, ferve un lavoro che non ha un’aria familiare, e per questo è tanto più amica, rassicurante. Livorno è una città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante. I ragazzi e le giovinette stanno sempre insieme. Il problema del sesso non c’è, ma solo una gran voglia di fare l’amore. Le facce, intorno, sono modeste e allegre, birbanti e oneste. Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri”. C’è ovviamente molto del Pasolini idealizzante, in questa descrizione.

idroscalo36 (Il posto adatto). L’inizio del famoso “Appunto 55” di Petrolio – lungo frammento che descrive un’orgia o un lungo rituale di sottomissione consenziente – comincia con una descrizione che potrebbe essere la sceneggiatura di un delitto. Un delitto premeditato sia da chi l’ha eseguito che da chi l’ha subito: “Carlo, presi questi accordi, fece qualche passo avanti sul prato, senza guardare alle sue spalle chi aveva deciso di venire per primo. Si guardava attorno per scegliere il posto adatto”. Siamo a un passo dalla cava presso la quale fu pugnalato – “come un cane” – Josef K. Prima che il sangue cominci a fluire, ecco dunque la ricerca del posto adatto: “Ma qui c’erano troppe buche e piccoli ‘montarozzi scoscesi’, lì troppe pietre (mescolati a cocci e immondizia), più avanti c’era effettivamente un bello spiazzetto, di erba secca, piatto, ma era troppo alto ed esposto quindi alla vista di quelli che aspettavano; più avanti ancora c’era una buca, ma troppo profonda però, e per di più piena di cardi e ortiche. Solo oltre quella buca, c’era un piccolo spiazzo che poteva andar bene, a quanto pareva”.

37 (Ombre sul giallo). Pino Pelosi ci mette trent’anni a cambiare versione e lo fa durante una trasmissione televisiva intitolata Ombre sul giallo. In pratica dice che l’omicida non è lui e che quella notte, ad Ostia, c’era altra gente. Pelosi ricorda il nome solo di chi è già morto (“i fratelli Borsellino”, due fascisti). Degli altri dice di non sapere né chi fossero né perché agirono a quel modo.

Pasolini Poliziotto38 (Sorrisi sul luogo del delitto). Sul luogo del delitto è stata scattata una fotografia raccapricciante (o comunque più raccapricciante delle altre). Ma il punctum stavolta non è rappresentato dal corpo straziato del poeta. Come nella celebre immagine dell’esecuzione di Cesare Battisti – con le zampe del boia giulivo appoggiate alla forca –, c’è qui un poliziotto chino sul cadavere che sorride di scherno. Non si tratta di un poliziotto con il quale il poeta “avrebbe simpatizzato”: è molto difficile continuare ad alimentare l’equivoco di Valle Giulia e fingere che non sia stato Pasolini, già allora, a scrivere: “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della Polizia”. Secondo Wu Ming 1, davanti a questa immagine riudiamo piuttosto la frase pronunciata a Regina Coeli da un agente di custodia a proposito del giovane Marcello Elisei, la cui tragica figura verrà citata da Pasolini alla fine di Mamma Roma: “Quel bastardo è morto”.

pignon pasolini normale39 (Ecce Homo). Ernest Pignon-Ernest, straordinario artista di strada francese, ci regala l’ultima goccia di dolore e di splendore. Il poeta è in piedi, ha lo sguardo fiero, e tiene tra le braccia se stesso. Sembra un Cristo appena deposto dalla croce e tuttavia già risorto. (Sulla scena cala l’Erbarme dich, mein Gott della Matthäus-Passion di Bach: Abbi pietà, mio Dio, per l’amore delle mie lacrime / Guarda qui, il cuore e l’occhio che piange davanti a te amaramente / Abbi pietà, mio Dio).

40 (Fine a Casarsa della Delizia). Nel cimitero di Casarsa, davanti alla tomba di Pier Paolo Pasolini e della madre Susanna Colussi, adesso c’è un uomo vestito con un soprabito chiaro. Potrebbe essere una giornata di inizio novembre. La sua testa è leggermente abbassata, pare immerso in una profonda meditazione. Quando la rialza vediamo però che si tratta di un ragazzo. Le palpebre, ancora socchiuse, nascondono gli occhi malandrini di un riccetto. “Per quali strade il cuore / si trova pieno, perfetto anche in questa / mescolanza di beatitudine e dolore?”.

Tomba di Pasolini

Come trattare la memoria

Monumento CianoA pochissimi verrebbe in mente di paragonare Bolzano con Livorno. Eppure, due storie recenti ci consentono di accostare realtà tanto distanti alla luce di un tema sempre scottante: la pratica della memoria più scomoda, vale a dire quella pietrificata (letteralmente) nei monumenti risalenti all’epoca fascista. Vediamo perché.

Per quanto riguarda Bolzano parliamo ovviamente del Monumento alla Vittoria di Piacentini, che continua ad essere al centro di polemiche nonostante l’intervento museale ne abbia brillantemente “depotenziato” l’eredità ideologica. Da qualche giorno, come ha fatto notare in tono assai critico il blog brennerbasidemokratie, la società di promozione turistica Alto Adige Marketing (SMG) esibisce sul suo profilo Instagram una fotografia del Monumento che lo ritrae attraversato da un raggio di sole, e ne illustra i pregi di “porta aperta sulla Bolzano meno conosciuta”. Nessun accenno al significato storico e simbolico dell’opera, nessuna pubblicità per il percorso museale ipogeo: solo l’esibizione di un manufatto da ritenersi attraente in senso neutro.

Ma andiamo a Livorno. Anche laggiù esiste qualcosa di comparabile al Monumento alla Vittoria. Su una collina a pochi chilometri dal centro si erge, in stato di completo abbandono, il basamento di un mausoleo la cui ideazione risale al 1939. Sulla sua cima si sarebbe dovuta costruire una statua gigantesca, alta ben 12 metri, dedicata al politico fascista Costanzo Ciano (padre del più noto Galeazzo) e un faro, altrettanto abnorme, a forma, manco a dirlo, di fascio littorio. L’opera per fortuna non fu mai completata, e così è rimasta una rovina a cielo aperto, comunque visibile anche da molto lontano. Al disegnatore satirico Daniele Caluri (autore di Don Zauker e firma del Vernacoliere) è venuta quindi un’idea: perché non dipingere quell’inutile e ingombrante cimelio in modo da farlo assomigliare al forziere di Paperon de’ Paperoni? In città se ne sta discutendo vivacemente e l’assessore Nicola Perullo ha dichiarato che l’operazione potrebbe essere sfruttata per diffondere l’immagine sarcastica e irriverente dei livornesi nel mondo, a fini turistici.

La trattazione del passato fascista assume nei due casi accenti diversi, e ovviamente le differenze appaiono più cospicue dei tratti comuni. Non sarebbe però male se livornesi e bolzanini si scambiassero qualche considerazione al riguardo: i primi per riflettere sulla compromissione della città con un periodo poi completamente rimosso, fino agli attuali esiti scherzosi; i secondi per adottare un po’ di umorismo nei confronti di qualcosa che è sempre sul punto di trasformarsi in una nevrotica diaspora tra chi non vuole scordare niente e chi, invece, non vede l’ora di dimenticare tutto.

Corriere dell’Alto Adige, 30 ottobre 2015

Il re dell’arte resta nudo

Museion

Era un po’ che l’opinione pubblica e i social network non si occupavano del Museion di Bolzano. Lontani i fasti dell’inaugurazione, con le infuocate polemiche riguardanti la rana crocifissa di Martin Kippenberger, si sono dovute affacciare alla ribalta (peraltro in modo involontario) alcune addette alle pulizie dei locali espositivi per riavere una performance degna di questo nome e i riflettori puntati.

Rimuovendo l’installazione intitolata “Dove andiamo a ballare stasera?” – in pratica un mucchio di spazzatura accuratamente predisposta dal duo Goldi&Chiara –, ecco il re dell’arte contemporanea di nuovo messo a nudo, come piace a ogni emulo di Remo e Augusta Proietti, gli sgangherati popolani protagonisti delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi (film del 1978, ma sempre godibile per capire come si possa fraintendere il significato di un’arte poco intuitiva). E giù insomma con le risate e le pernacchie: in fondo quelle donne delle pulizie hanno semplicemente ristabilito la verità, perché non è possibile certo scambiare per arte un mucchio di spazzatura.

Purtroppo, invece, non solo è possibile scambiare un mucchio di spazzatura per arte, ma è persino inevitabile. Anche solo frequentando i più abbordabili manualetti sull’argomento, un simile scambio è culturalmente legittimato da almeno cento anni, vale a dire dal primo ready-made ideato da Marcel Duchamp nel 1914. Non esiste ricetta più facile. Si prenda dunque un oggetto comune (uno scolabottiglie, come fece Duchamp, o delle bottiglie, come nel nostro caso), lo si piazzi in una galleria o in un museo, dunque decontestualizzandolo e defunzionalizzandolo, e quello assumerà lo statuto di un simbolo polisemico. Voilà: l’arte diventa arte non in virtù della bellezza o della particolare esteticità di un manufatto, ma semplicemente perché a decretarla tale è un artista, un gallerista, un direttore di museo o un critico d’arte. E chi volesse essere colpito dalla sindrome di Stendhal si rivolga a un altro indirizzo.

Rimane da spiegare perché, allora, le persone continuano a stupirsi di tali “incidenti”, sentendosi poi in diritto di compitare quattro sporadici pensierini sul tema “che cos’è un’opera d’arte”? In attesa di una risposta, per adesso limitiamoci a stigmatizzare il fatto: non esistono sufficienti donne delle pulizie in grado di rimuovere le opinioni spazzatura profuse al riguardo.

Corriere dell’Alto Adige, 27 ottobre 2015

Liste civiche. Un vademecum

Picasso

Chi sarà, come sarà il prossimo sindaco di Bolzano? Chiederselo adesso, a ridosso del commissariamento che ha sancito l’impossibilità di avviare la terza legislatura capitanata da Luigi Spagnolli, potrebbe sembrare inopportuno. Un’impresa quasi disperata.

La città vive con sbigottita disillusione – quasi un ossimoro – la fine di un’epoca e non appare ancora capace di immaginarsi un futuro politico praticabile. Di più: proprio dal fallimento di una certa politica, generalmente intesa come la politica tout court, si è originata la situazione attuale. Ci troviamo a poggiare i piedi su un terreno visibilmente desertificato e quel che manca non sono solo le persone in grado di additarci l’ulteriore cammino, ma persino le idee per individuarle.

Almeno una cosa appare però già molto chiara. Il comune discredito della politica a denominazione partitica produrrà un profondo rimescolamento delle carte e, con ciò, l’adesione all’unica forma di partecipazione in grado di eludere, anche se magari solo in apparenza, i più usuali codici di riconoscimento. Se dunque finora abbiamo avuto il fenomeno della creazione di liste civiche – paradigmatica quella a sostegno del sindaco uscente – cresciute in buona sostanza all’ombra dei partiti, il meccanismo con ogni probabilità s’invertirà, e stavolta saranno i partiti a nascondersi e raggrupparsi dietro lo scudo di nuove liste civiche.

Anche se sussiste il rischio che il tutto si risolva in un’operazione di sconsolante facciata, possiamo provare così a suggerire qualche criterio utile all’elaborazione di una proposta più incoraggiante.

Innanzitutto, sarebbe bene se le future liste civiche non annoverassero personaggi che sono stati in primo piano nel recente o remoto passato. I cittadini sono stanchi di veder passare e ripassare sotto le loro finestre le medesime facce, soprattutto quelle che in questi anni hanno cambiato sponda e colore. Parimenti disdicevole, poi, sarebbe verificare tangenze – se non addirittura appartenenze – a gruppi d’interesse consolidato. Utilissimo conoscere in anticipo l’opinione dei futuri candidati su questioni tuttora aperte (pensiamo alla vicenda Benko), molto meno spacciare per opinione ciò che magari è un’aperta (o peggio, occulta) militanza. Infine, ci piacerebbe che la vecchia sfaldatura etnica venisse superata non solo a parole, ma da un autentico profilo interculturale, in grado di liberare Bolzano (e in prospettiva la provincia) dal peggiore dei suoi automatismi.

Corriere dell’Alto Adige, 17 ottobre 2015

Gli arcobaleni

ArcobaleniPerché ci piacciono tanto gli arcobaleni? Perché non solo siamo felici, quando ne vediamo uno, ma subito ci viene voglia di fotografarlo, di condividerlo, di cercarne ancora un altro?

Si tratta di una metafora celeste, probabilmente uno dei primi fenomeni naturali che ha destato negli uomini un moto di meraviglia, anche se la contemplazione della natura, come la intendiamo oggi sulla scorta di una tradizione non più antica di qualche millennio, agli albori dell’umanità doveva essere una cosa completamente diversa. Si tratta comunque di una metafora celeste, dicevo, come un effetto di luce pentecostale che dirada o screzia il buio di una giornata cattiva. Irrompe dall’alto e ci invita a tirare su la testa. Gli occhi, il nostro organo più spirituale, avvertono il motivo per cui sono stati creati. E l’arco è un motivo istintivamente architettonico: scintillante riparo, capanna cromatica, finestra aperta sul mondo.

Dopo la pioggia, uomini e donne e bambini si affacciano verso l’aperto e li indicano. Rapiti. Sembra l’inizio di una nuova storia. Anche se dura solo un istante, tanto abbagliante quanto sfuggente.

Ero in classe, oggi pomeriggio, e quando qualcuno ha “sentito” l’arcobaleno (perché poi l’arcobaleno lo si può persino avvertire prima di vederlo), il discorso si è subito impigliato lassù. Tutti alla finestra. L’abbiamo chiamato nelle lingue che sapevamo: Regenbogen, rainbow, arcobaleno, arc-en-ciel. E poi non è stato facile distrarsi da quella distrazione.

La battaglia del maialino

Maiale

Quando affrontiamo il tema dell’immigrazione, dovremmo sempre aver cura di non ingigantire i cospicui problemi che già ci tocca risolvere. Quanto è accaduto recentemente a Rovereto non è però neppure da intendersi come “ingigantimento”: siamo davanti a un puro e semplice parossismo delirante.

Riassumo brevemente i fatti per far comprendere anche a chi non avesse registrato la notizia di cosa si tratta. All’interno di un asilo nido roveretano si trovava un voluminoso pupazzo a forma di maiale, uno di quelli adoperati di solito dai bambini per salirci sopra e dondolarsi. Giudicato pericoloso dalle operatrici, il maialino è stato recintato per poi essere trasferito in un’altra scuola. A questo punto sono intervenuti alcuni politici leghisti, in primis la presidente del Consiglio comunale Mara Dolzocchio, paventando un’operazione a sfondo religioso da parte dei genitori musulmani. A nulla sono valse le rassicurazioni dell’assessora all’istruzione, Cristina Azzolini: per i leghisti la rimozione del pupazzo va considerata come un grave attentato all’identità culturale dei trentini, e dunque il pupazzo – posto che sia realmente pericoloso – dev’essere sostituito, sì, ma con un altro maialino più innocuo.

L’assurdità della vicenda non deve farci sorridere più di tanto. La deriva ermeneutica alla quale è sottoposto un fenomeno religioso come l’Islam può realmente far assomigliare gli estremisti (e non si nega che esistano frange fondamentaliste ferocemente ostili a qualsiasi tipo di trastullo, non soltanto quelli a forma di maiale) a chi pensa di opporvisi recitando l’improbabile ruolo di crociato che, al posto della spada, brandisce il salame. Non esiste comunque alcun precetto coranico rivolto alla stigmatizzazione del pupazzo in questione e scatenare una battaglia identitaria è, nella circostanza, pura e semplice follia.

Commentando alcune pratiche punitive particolarmente sanguinarie in uso tra alcune comunità islamiche, il grande reporter Ryszard Kapuściński ha scritto: “C’è poco da idealizzare l’Islam: contiene delle caratteristiche per noi assolutamente inaccettabili”. Ma non idealizzare l’Islam significa anche rinunciare a demonizzarlo quando non è il caso di farlo. “Che ci piaccia o no – affermava ancora Kapuściński –, dobbiamo rassegnarci al fatto di vivere in un mondo pluriculturale e destinato a diventare sempre più differenziato”. Perciò è essenziale dotarsi degli strumenti adeguati per ridurre al minimo le incomprensioni e le tensioni che un simile processo comporta. Altrimenti sarà la catastrofe.

Corriere del Trentino, 6 ottobre 2015

Leghisti e maiali

La noia dell’insegnante

Classe

Ultimamente di scuola parlano un po’ tutti. E come spesso accade, quando a parlare di una cosa sono tutti, ciò che si perde – oppure volentieri si distorce – è la voce di chi a scuola ci lavora: gli insegnanti. Alessandro Banda – autore di La verità sul caso Caffa, Come imparare a essere nulla, L’ultima estate di Catullo, (questi alcuni dei suoi titoli precedenti) – insegna da molti anni al Liceo delle Scienze Umane di Merano e la sua cognizione è dunque assai fondata. Chi avrà la fortuna di accostarsi alla sua ultima fatica (Il lamento dell’insegnante, Guanda) è bene però che deponga in fretta aspettative modellate su scontate (e lamentose) rappresentazioni di maniera. Il “lamento” del titolo, infatti, non gli appartiene (egli afferma, invece, di amare il proprio lavoro), ma costituisce lo sterminato cahiers de doléances che lo scrittore si è deciso ad attraversare per dimostrare che non può essere superato, giacché è la scuola stessa – esistendo e perpetuandosi nella forma che conosciamo – a fornire l’occasione della sua incessante e mai terminabile stesura.

In un articolo comparso recentemente sul sito della rivista Internazionale, Christian Raimo ha riassunto così le due tendenze di pensiero principali inerenti l’istituzione scolastica: da un lato ci sarebbero i fautori “dell’innovazione come panacea di tutti mali, dei tablet in classe, dei prof 2.0, dei test Invalsi come unico metro di misura dell’esistente”; dall’altro quelli che invece rimpiangono lo “studio come si affrontava una volta” e quindi parlano “della missione salvifica degli insegnanti, degli studenti svogliati e distanti da riavvicinare alla conoscenza”. Due punti di vista opposti, come si vede, tendenti però entrambi a naufragare in una retorica comunemente inservibile per comprendere sul serio la realtà delle cose e, quindi, inadatti a farci intravvedere la strada per il miglioramento.

Ora, è proprio l’idea stessa del “miglioramento” – che le cose cioè non solo possano, ma anche debbano migliorare – il soggetto polemico del libro di Banda, che dunque si pone in una zona marginale rispetto al dibattito contemporaneo sulla scuola per affermare, al contrario, un punto di vista ironicamente aristocratico, posto cioè alla confluenza della concezione dell’eterno ritorno di Nietzsche e del sorridente scetticismo di Tomasi di Lampedusa: “A scuola il tempo non esiste. Ci sono sempre gli stessi rituali, gli stessi cerimoniali, gli stessi discorsi, le stesse riunioni, le stesse circolari (sarà un caso che si chiamano proprio così?), gli stessi scrutini, gli stessi esami, gli stessi orari. Le stagioni non si avvertono. Ci sia la luce al neon o vi penetri il forte sole di giugno, le aule sembrano pietrificate. Anche se tutto cambia, tutto è uguale. O meglio: tutto deve cambiare, perché tutto resti uguale”.

Così, anche se il libro punta all’enunciazione di una “tesi” nominalmente molto forte, recuperando e adattando il caustico disincanto che Hans Magnus Enszenberger rivolgeva alla televisione, il percorso che vi prelude – spaziando in una fitta foresta di riferimenti letterari che vanno da Orazio a Thomas Bernhard – è costruito mediante un intarsio di esempi che mostrano, più che dimostrare, quel che perciò continua a rimanere solo un tentativo (un essay, nel senso di Montaigne) di avvicinamento allo sfuggente segreto dell’insegnamento e dell’apprendimento (due facce della stessa medaglia).

Dichiarare, infatti, che le lamentazioni accumulate da millenni di frustranti vicende scolastiche (e a lamentarsi sono stati tutti: docenti, discenti, genitori e, da ultimo, anche i primi ministri illusi di poter varare riforme sulla “buona scuola”) risultano del tutto inutili, visto che saranno comunque destinate invariabilmente a ripetersi, significa anche lottare per circoscrivere in quelle vicende un nucleo miracolosamente intatto, entro il quale – pur nell’apparente fallimento universale – la trasmissione del sapere che si svolge a scuola (malgrado la scuola!) riattiva di tanto in tanto quegli “sparuti incostanti sprazzi di bellezza” (come recitava Jepp Gambardella ne La grande bellezza) che perforano la noia dei giorni passati tra i banchi.

Proprio una valutazione positiva del sentimento della noia è posta a suggello di quest’opera singolare – intelligente, colta, scritta benissimo – che purtroppo (proprio perché intelligente, colta e scritta benissimo) temiamo non andrà a intaccare la spessa coltre di chiacchiere sul mondo della scuola. La noia, scrive alla fine Banda, è “il più sublime dei sentimenti umani: non poter essere soddisfatti di nessuna cosa terrena, considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio e il numero e la mole meravigliosa dei mondi – e trovare che tutto è poco e piccolo rispetto alla capacità del proprio animo; considerare l’universo infinito e sentire che la nostra immaginazione è ancora più grande, più vasta, più estesa, di quell’infinito universo, che ci annoia – tutto ciò è reso possibile da questo eccelso sentimento, tipico delle menti più fini – e tipico delle scuole, anzi compagno fedelissimo di quasi ogni momento e aspetto delle scuole, di ogni ordine e grado”.

Corriere dell’Alto Adige, 4 ottobre 2015 (pubblicato in una versione leggermente abbreviata con il titolo “La noia dell’insegnante: Banda e la scuola che non cambia”)

#addioabolzano (3) Il vicolo dei panni pallidi

Via Muri

Talvolta la città assomiglia a un foglio ripiegato, ne percorriamo le strade che conosciamo per abitudine, che non ci sorprendono più, perché servono soltanto a portarci dove siamo costretti e quindi rassegnati ad andare. Una volta create, le pieghe di questi percorsi abitudinari ci tengono prigionieri, diventano solchi, assomigliano a rughe, e quasi mai approfittiamo della possibilità di scartare di lato, magari allungando il cammino o riscoprendo il piacere di perderci, di rendere la “nostra” città, anche se non è poi la nostra, qualcosa di beneficamente “straniero”, anche se in fondo siamo noi, gli stranieri.

L’altro giorno, però, ho scoperto una strada che non avevo mai visto, della quale non sospettavo neppure l’esistenza (ma non è un merito particolare, io qui abito da poco, quindi quello che mi è capitato non deve essere sopravvalutato). Risalivo in bicicletta una via che mi piace molto – via Orazio – e a un certo punto, in corrispondenza della curva a gomito che la sospinge verso Piazza della Vittoria, ho intravisto un vicolo dall’imboccatura molto stretta: vicolo Muri o, in tedesco, Tuchbleichgasse (che mentalmente ho cercato subito maldestramente di tradurre: vicolo dei panni pallidi). Ecco una magnifica occasione per scartare di lato, mi sono detto, intuendo che comunque quel vicolo mi avrebbe portato nella stessa direzione in cui volevo andare. L’ho percorso incantato dalla sua appartata bellezza, come se mi stessi concedendo un viaggio fuori dal tempo, e mi sono ricordato di una via che a me piaceva molto prendere di notte, quando abitavo nella mia città d’origine, cioè Livorno; una via anch’essa ricavata al margine di una piega abitudinaria, posta in uno spazio periferico poi chiuso successivamente dalla crescita della città, ma sempre in grado di raccontare l’epoca in cui la città proprio lì finiva, e cominciavano le ville, i campi, un altro mondo*.

Anche in via Muri ho provato le stesse sensazioni, benché non fosse notte, ma al contrario un pomeriggio assolato di fine settembre. Alla fine del vicolo sono sbucato poi in via San Quirino, esattamente davanti all’osteria “da Picchio”. Allora mi sono girato nuovamente per guardare il vicolo controluce, e ringraziarlo.

* Si tratta di via dell’Ambrogiana