La fine dei bar

Caffè

Una delle cose più tristi che ho visto, in questi giorni di incerto interstizio tra la cosiddetta “fase uno” (di chiusura) e “fase due” (di zoppicante riapertura) nella strategia di contenimento del Coronavirus, è un servizio giornalistico sullo stato d’animo dei baristi, che a quanto pare potranno togliere i sigilli ai loro locali solo a partire dal primo giugno. Com’era prevedibile, infatti, le cose non andranno molto lisce, non sarà insomma possibile tornare alla situazione precedente il lockdown e ci saranno limitazioni responsabili di incidere in profondità nello stesso modo di percepire lo spirito di questi posti. I bar, i caffè e tutti gli altri luoghi deputati alla ristorazione veloce che dispongono (disponevano) di uno spazio prevalentemente interno dovranno osservare protocolli igienici molto stretti, ridurre il numero e l’afflusso di clienti e ripensare alla radice il loro modo di esistere. Qualcuno, per esempio, ha già cominciato a montare dei pannelli, degli schermi, insomma delle barriere di plexiglas in modo da aumentare la sensazione di protezione e rendere più “sicuri” gli ambienti. Ma un bar, un caffè, un ristorante attrezzato in questo modo che cosa diventa, cosa sta per diventare? Quello che rendeva indispensabile (non caratteristico: indispensabile) questo tipo di esercizi era proprio il contrario di quanto sarà ottenibile procedendo alla ristrutturazione in atto. Noi andavamo al caffè non per dividerci dagli altri, ma per godere di quel contatto moderatamente promiscuo che era anche un modo di vivere la socialità in un mondo già ordinato e quindi smembrato in gran parte per compartimenti stagno, un mondo cioè fatto di separazioni visibili e invisibili che proprio la logica del caffè o del bar aveva la capacità, almeno fugace, di sospendere. Mi sono tornate in mente le parole che aprono la bellissima decima Nexus Lecture di George Steiner, “Una certa idea di Europa”: «Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo. Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il suo taccuino. È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club, una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie. Frequentarlo indica già una scelta programmatica. Una tazza di caffè, un bicchiere di vino, un tè con il rum garantiscono un ambiente in cui lavorare, sognare, giocare a scacchi o più semplicemente starsene al caldo per l’intera giornata. È il club dello spirito e il “fermo posta” per chi non ha casa […] Finché ci saranno locali come questi, l’“idea di Europa” avrà un contenuto». Quanti incontri, quanti scontri (anche) sono possibili in un bar. Che magnifico punto di osservazione sul mondo e sugli altri. Pensare che tutto ciò stia per eclissarsi dietro una superficie trasparente in grado – chissà – di proteggerci dalla diffusione del virus è tristissimo, perché quello che così perdiamo (che perderemo) configura una perdita secca anche della nostra identità e della nostra cultura. Personalmente non ho alcuna voglia di andare a prendermi un caffè stando rinchiuso in una gabbia di vetro. È vero, poi magari ci si abitua a tutto e capisco benissimo che chi vuole ripartire sta solo cercando di limitare gli inevitabili danni prodotti dalla lotta esiziale tra salute e lavoro. Io però sono triste, tristissimo e benedirò il giorno in cui anche l’ultimo pannello di plexiglas sarà finalmente rimosso e, spero, dimenticato.

#maltrattamenti

La nostra diversa normalità

Josh Kline

Qui da noi, il concetto di «normalità» non è solo complicato da quello di «eccezione» — quando se ne presenta l’occasione — ma anche da quello di «specialità». La nostra normalità è la specialità, e allorché uno stato di eccezione interviene ad alterare l’equilibrio tra i primi due stati, ecco che all’orizzonte si prefigura quasi inevitabilmente una frizione, per non dire un vero e proprio conflitto. Questo è anche uno dei motivi per i quali dobbiamo temere qualsiasi alterazione profonda dei rapporti che tengono uniti (e quindi anche dividono) le nostre entità territoriali a quella, più larga, dello Stato in cui sono inserite. Finché non accade nulla di particolare, la convivenza funziona benissimo. Ma basta anche una piccola scintilla imprevista a evocare il rischio di un incendio.

Il fatto che dopo quasi due mesi di clausura stretta il governo centrale cominci finalmente a ipotizzare un allentamento delle misure che ci hanno reclusi nelle nostre abitazioni costituisce adesso un banco di prova esemplare per misurare l’intensità dell’oscillazione alla quale stiamo pensando. Qual è, allora, il modo migliore di reagire?

Attenersi alle indicazioni che vengono dall’alto, oppure tentare già una piccola fuga in avanti, rivendicando per l’appunto una maggiore libertà di manovra giustificata dal nostro costitutivo essere «altro»? Soprattutto l’Alto Adige, che si confronta in modo più diretto con quanto avviene al di là del confine del Brennero, avverte sempre il richiamo a estendere il proprio margine di autonomia distinguendosi da ciò che accade al di sotto del proprio perimetro amministrativo, dando così luogo a polemiche che potrebbero esulare da una valutazione strettamente «tecnica» sui provvedimenti da prendere. La questione inerente alla difesa della salute, in altre parole, potrebbe trasformarsi in questione politica, composta intorno alle mai esaurite prospettive di Selbstbehauptung (autoaffermazione) e Selbstbestimmung (autodeterminazione).

Due pregiudizi ulteriori complicano il quadro appena schizzato. Da parte dello Stato risorge infatti la tendenza a considerare il territorio come un tutto indiviso e indifferenziato, soffrendo ogni tentativo di frammentazione soprattutto quando a rivendicare modalità di trattamento diverso sono le sue regioni più periferiche ed etnicamente «complicate»; parimenti, da parte delle Province autonome si ispessisce il presupposto di rappresentare qualcosa di diverso, e di migliore, proprio perché si ritiene lo Stato un attore non del tutto riconosciuto a estendere la propria completa sovranità su chi ha sempre dimostrato — o in ogni caso dimostrerebbe, se potesse — di cavarsela molto meglio facendo di testa propria.

Come visto, si tratta di due pregiudizi che per così dire giacciono già al fondo della dialettica tra «normalità» e «specialità» e rendono ogni possibile ritorno ad una dimensione «normale» molto più difficile di quanto accade nel resto del Paese. Una ricetta per ridurre una volta per tutte tale contraddizione non è mai stata trovata e probabilmente non la troveremo mai. Il nostro compito si limita perciò a segnalarne il meccanismo per riportare la discussione a quella base pragmatica che, unica, può servire a non farla degenerare in un dissidio politico.

Corriere dell’Alto Adige, 25 aprile 2020

Terra promessa

Paese fantasama

Be’, e allora sapete che faremo? Ce ne andremo via dalle città, troppo caotiche (quando erano caotiche), troppo affollate (quando erano affollate, ma anche troppo stressanti, ora che dovremo gestire, per chissà quanto, il distanziamento sociale preventivo). Ce ne andremo dalle città e torneremo ad abitare nelle campagne, o sui borghi appenninici, quelli disabitati, che non ci voleva più stare nessuno, ma che adesso, c’è da scommetterlo, torneranno di moda, o ancora di moda, insieme alla cucina a chilometro zero (quella è già nominalmente di moda), ai ritmi lenti, gestibili con il lavoro in remoto, o smart work, il lavoro agile, come si sente dire, e chiaramente un po’ di agri-turismo (poco agri, molto turismo) per gente privilegiata e monitorata, non sia mai che porti code malefiche del virus anche lì. È uno scenario possibile? È uno scenario desiderabile? Nella sua bella rubrica dalla panchina-divano di casa sua, Valentino Liberto ha parlato di un articolo a dire il vero assai critico con questa (ipotetica) prospettiva. L’ha scritto Anna Rizzo e la parte che ci interessa è questa: “Per chi vuole salire sul carro, in cerca di fortuna, arrendetevi. Non è un gioco di posizionamenti, e se c’è qualcosa da imparare da questa pandemia, è che non si può continuare a speculare in aree che non possono essere considerate una terra promessa. Perché non lo sono e hanno tutte le ferite di decenni di malversazioni”. “Non credo – aggiunge poi la Rizzo – che ci sarà un esodo verso i paesi, perché la necessità di una ricostruzione economica sarà urgente, e ci si muoverà verso reali possibilità lavorative. Lo stop che stiamo vivendo è troppo breve per innescare un cambiamento, dovrebbe essere più lungo, prolungato. Qualche mese è un tempo troppo piccolo, che permetterà solo di innescare nuove speculazioni e relazioni nel breve termine, in corsa per accaparrarsi l’idea buona o il prodotto buono da rivendere nel grande mercato. Darà adito a squali e volponi che usano le difficoltà di queste aree per innescare profitti da abbandonare. Come quando dieci anni fa hanno cominciato a comprare paesi e frazioni per abbandonarli subito dopo. Quando hanno scoperto che erano situati in un territorio sismico, e non ne valeva la pena. È la conferma che gli abitanti o la storia locale non vengono mai interrogati”. E conclude: “Non ci sarà nessun ritorno perché non ci sono le infrastrutture di nessun genere. Sono luoghi destinati a subire il divario con le città, adesso più di prima, in maniera netta, subiranno un maggiore isolamento”. Uno scenario sconsolato, perché tarpa le ali alla prima alternativa che, certo in modo superficiale, ci sta passando per la testa. Quindi? Ci vorrebbe un’alternativa all’alternativa, che poi non vuol dire altro che questo: non esiste una terra promessa verso la quale fuggire, non si può fuggire da nessuna parte, in realtà, perché se non riusciamo a risolvere le contraddizioni che ci stritolano già dove siamo, quelle di cui siamo vittime già tra le pareti domestiche, non faremo altro che trascinarle ovunque noi vorremmo e vorremo andare, lasciandole irrisolte e soprattutto capaci di esplodere proprio nel momento (e nel luogo) in cui pensiamo di essercene liberati una volta per tutte.

#maltrattamenti

Scusate lo sfogo

Corna

Dunque ci stiamo muovendo, con molta fatica e molta confusione, tra la fase 1 e la fase 2. Cerco di caratterizzarle brevemente. La fase 1, detta del “lockdown”, era parsa necessaria per cercare di contenere l’impennata dei contagi e alleviare la pressione sugli ospedali, messi a durissima prova soprattutto nei reparti (carenti) di terapia intensiva. Siamo stati quasi tutti tappati in casa, obbedendo ad un diktat che ci pareva legittimato da un’osservazione elementare: il virus si trasmette quando le persone stanno vicine e si spostano, ergo: allontanandole e immobilizzandole il più possibile il contagio si arresta o decresce. Diciamo che tale strategia ha avuto parziale successo, soprattutto per quanto riguarda il decongestionamento dei reparti di TI. Il contagio però non si è arrestato e, soprattutto, si continua a morire (in Lombardia i dati rappresentano un caso negativo a livello mondiale, e il loro modello sanitario sta presentando un’immagine a dire poco inquietante). Pare acquisito, perciò, che non potremo contare su una sparizione a breve periodo del pericolo, e la fase 2 consiste in fin dei conti proprio in questo: la riduzione del contagio non può più essere ricercata mediante un prolungamento indefinito dell’inattività collettiva, occorre imparare a “convivere con il virus” accettando tutta una serie di limitazioni che muteranno in profondità il nostro stile di vita (e questo si sapeva). Con le buone o con le cattive (e questo si sapeva meno).

Ecco, spero tanto di sbagliarmi, saranno giorni per me forse difficili, ma io penso che le maniere “cattive” avranno la meglio sulle “buone”, e questa non dovrebbe essere una notizia rassicurante per nessuno, neppure per chi ha scoperto recentemente la propria vena da delatore/poliziotto esercitandosi su nuove categorie di criminali: per esempio quelli che si facevano una corsetta nel circondario. Vedo uno scenario di questo tipo: un reticolo di dispositivi stop and go gestiti da più soggetti (stato, regioni, province, comuni, sempre più in disaccordo tra loro), in modo spesso poco chiaro (pensate alla manfrina sui 200 metri che diventano 400, e perché non 450?, pensate alla farsa delle autocertificazioni, pacchi e pacchi e pacchi di fogli che dei poveracci devono poi verificare sudando sulle loro scrivanie di guardiani di stato) e con protocolli di controllo sempre più opprimenti, privi di giustificazioni razionali, e tutti orientati da questo principio: lo stato non capisce cosa sta succedendo, perde la bussola, e picchia sui reprobi, cercando di trovarne il più possibile (quindi facendo malamente cassa). In questo modo si appaga la sete di “giustizia” dei miseri e si possono sviare gli sguardi dal vero, atroce buco che sta davanti agli occhi di tutti: nell’affrontare l’emergenza abbiamo fallito a più livelli. E ancora brancoliamo nel buio.

Mi dispiace molto vederla in modo così cupo (scusate lo sfogo). Ma adesso la vedo proprio così. In modo cupissimo. Riconquistare la libertà, la leggerezza, al prezzo di vedere montare tutta questa marea di stupidità e cattiveria è qualcosa che fiacca il corpo e opprime lo spirito. La sensazione che si ha quando si è costretti a parlare con una mascherina sulla bocca (e sul naso) e le mani imprigionate dai guanti di lattice. E non me ne frega nulla se qualcuno ha detto che “è necessario”. Sarà. Si tratta di una “necessità” che a me toglie la voglia di vivere.

#maltrattamenti

Un cambio gestaltico

Didattica a distanza

Negli ultimi cento anni solo due volte la scuola italiana aveva cessato le sue attività oltre le pause previste dal calendario. La prima tra il 1941 e il 1942, a causa della mancanza di carbone per riscaldarle. Le vacanze natalizie si prolungarono così fino al 18 gennaio. La seconda l’anno successivo, tra il 1942 e il 1943. Anche in questo caso l’economia di guerra non lasciò risorse per garantire il riscaldamento. In più c’era il pericolo dei bombardamenti. Il periodo che stiamo vivendo non rappresenta perciò una novità assoluta, eppure non è minimamente paragonabile a quanto già accaduto. E non solo perché, di fatto, l’interruzione non si è ancora conclusa e non è possibile neppure dire per quanto tempo (o con quali modalità) si prolungherà.

Il cambiamento, nel nostro caso, potrebbe essere «gestaltico». L’aggettivo «gestaltico» va spiegato. La parola viene da «Gestalt», che in tedesco significa «forma». Parliamo di un mutamento «gestaltico», dunque, quando l’oggetto che muta viene visto in una prospettiva completamente diversa da come veniva inteso prima: cambia i suoi connotati, perché a cambiare è lo stesso modo di considerarlo. Nel caso della scuola, a determinare il (possibile) mutamento è l’introduzione di una massiccia dose di didattica a distanza — basata essenzialmente sui dispositivi tecnologici telematici — che, per adesso, funziona o dovrebbe funzionare da surrogato alle lezioni tenute in compresenza di docenti e discenti all’interno di un medesimo spazio. Questo spazio (e il tempo che vi si associava) non esiste più, e ciò che ne ha preso il posto ambisce a ristrutturarne in profondità i criteri di pensabilità.

In realtà, in pochi si sono accorti di questa ambizione. Perlopiù l’atteggiamento finora è stato questo: cerchiamo di fare più o meno le stesse cose che si facevano a scuola, usando soltanto strumenti diversi. Apparentemente solo uno spostamento sul piano dei «mezzi», senza toccare, o senza credere di variare troppo, i «contenuti»: si assegnano compiti, vengono impartite alcune lezioni in video-conferenza, si compiono delle valutazioni. Se qualcuno ritenesse che questo è il modo con il quale la tecnologia potrebbe anche essere usata in futuro ha capito pochissimo di quanto sta avvenendo, e la scuola si troverebbe a subire una trasformazione così radicale del suo impianto da uscirne in breve tempo completamente svuotata di senso (per non dire devastata). Purtroppo non è escluso che qualcuno, in effetti, speri in un tale utilizzo, e quando parliamo di un sistema «misto» come auspicabile modello di sviluppo futuro (tra presenza ed assenza, ritenendo che la tecnologia sia poco più che un’estensione degli strumenti adoperabili in classe), forse non valutiamo a sufficienza le conseguenze di ciò che si dice.

L’uso della tecnologia, l’ipotesi di ricorrere in modo sempre più cospicuo alla didattica a distanza su base tecnologica, non si limita ad allargare il confine entro il quale la scuola ha interpretato se stessa per decenni, addirittura per secoli, ma rompe questo confine, e richiede che venga rielaborata, alla radice, la stessa nozione di trasmissibilità del sapere. Attualmente, e men che meno nel mondo della scuola, nessuno è in grado di comprendere a fondo che cosa ciò possa significare, perché spinti dalla necessità abbiamo semplicemente adottato una mera strategia di sopravvivenza. Chi caldeggia mitigate istanze di tipo gradualistico (il sistema «misto» al quale accennavo) non capisce che ogni innovazione tecnica (in senso epistemologico) è totalizzante e non si lascia più controllare da chi era a suo agio in un paradigma precedente. Certo, questo non vuol dire che tale cambiamento non porti con sé anche delle «opportunità». Peccato che siano in pochi a poter rendere conto dell’estensione di tali opportunità, e soprattutto dei rischi che inevitabilmente esse comportano. Bisognerebbe discuterne, anche molto approfonditamente. Intanto, io mi auguro che le scuole, quando riapriranno, lo facciano per tornare ad essere in primo luogo quello che erano.

Corriere dell’Alto Adige, 11 aprile 2020

Uh, com’è difficile restare calmi e indifferenti (mentre tutti intorno alla Murgia fanno rumore)

Murgia Battiato

Vorrei dire solo un paio di cose sulla querelle Murgia/Resto del Mondo della quale ieri hanno parlato tutti e oggi, molto probabilmente, non parlerà più nessuno. La prima cosa è che l’episodio, pur nella sua palese irrilevanza sostanziale, è riuscito perlomeno a intrattenere una parte cospicua della massa dei commentatori un po’ lontano (diciamo per due o tre ore) dall’accapigliarsi su altri temi, senz’altro più decisivi, ma che stanno appesantendo non poco la digestione di chi non fa molto movimento per smaltirne gli effetti: dimmi che mascherina porti e ti dirò chi sei. La seconda cosa riguarda il modo con il quale la querelle si è manifestata in rapporto alla sua costruzione, mutilando cioè il contesto che avrebbe dovuto essere soppesato per capire se si trattava realmente di qualcosa di “serio”, da prendere “sul serio”, oppure di una specie di gioco, o anche esplicitamente di un tranello, nel quale sono poi sono caduti tutti o quasi tutti. L’ultima cosa ha a che fare con la stessa Michela Murgia, cioè con il fatto che stia terribilmente sul cazzo a un mucchio di gente, e che quindi – indipendentemente da ciò che dica, indipendentemente dal contesto in cui lo dica –, appena questa donna apre bocca partono subito le cannonate contro di lei. Ma andiamo con ordine. Per capire quello che è successo (riassunto estremo: la Murgia – discutendo nella rubrica “Buon vicinato”, che va in onda sul suo canale YouTube con un’altra scrittrice, Chiara Valerio – ha detto che Franco Battiato è un intellettuale da quattro soldi e le sue canzonette piacciono solo a chi si beve la sua fuffa senza capirla: e allora, apriti cielo) rinvio a un nitido commento di Anna Allamo. La cito per esteso, ché non saprei dire meglio:

Ho ascoltato con attenzione la puntata dedicata a Franco Battiato, che ha suscitato una reazione che nemmeno Salvini quando ha chiesto di riaprire le chiese per Pasqua. Effettivamente, le affermazioni su Battiato erano estreme, e anche ingenerose. Ma di mestiere io ascolto linguaggi, talora li analizzo, talora li replico. (…) Quindi non ho potuto non notare una smodatezza, un tipo di eccesso che non è solo e interamente ascrivibile all’usus scribendi (…) della Murgia, che ha fatto di certo eccesso verbale uno stile e una modalità comunicativa. (…) Ora, la Murgia sta sul cazzo a molta gente, ancora prima che per i contenuti, per questa sua modalità, che certo è esorbitante e talora fastidiosa, ma ben venga, dico io. E comunque. Da filologa de noantri, mi addentro nella lista youtubbica del “Buon vicinato” (…) e mi avvedo di una pluralità di video con titoli come “Tolkien e quegli stronzi degli elfi”, “La Gioconda è una gatta morta”, “Harry Potter è fascio?”, e alcuni (non tutti, ma mi riprometto di farlo) li ho pure ascoltati, divertendomi. E comprendendo – lì più chiaramente – la cifra di grottesco e provocatorio che è la cifra di queste chiacchiere di “buon vicinato” (…) Devo dire chiaramente – prosegue la Allamo – che la “puntata” dedicata a Battiato mi è sembrata poco felice davvero. E se in un format simile fai perdere la distinzione tra una critica e la fiction di una critica sei in scacco e il problema è tuo, non di chi legge. Quindi capisco perfettamente lo sconcerto di taluni. Ma se non ci si accontenta di quello che dicono gli altri, si va alla fonte, si confrontano i testi e si fa un ragionevole identikit dello stile, delle intenzioni dell’autore (realizzate o no, questo è un altro punto), allora non si può fraintendere. Che minchia siamo a fare acuti semiologi e navigati recensori, se non capiamo la differenza tra le cose dette o scritte, anche quando la differenza è tracciata male e maldestra”.

Bene, tutto qui? Esatto: tutto qui. Resta solo da chiarire l’ultimo punto: perché la Murgia sta sul cazzo a tanta gente e qualsiasi cosa dica attira su di lei gli strali di una critica al 90% gravata da questo pregiudizio di partenza? La mia idea è che anche questo sia un format innescato dalla stessa Murgia, che usa, in un certo senso alimenta e coltiva la sua “antipatia” per far funzionare al meglio il proprio ego. Alla prossima occasione magari cercheremo di capire più esattamente perché lo fa.

#maltrattamenti

La guerra non cura il virus

Guerra virus

In un articolo recentemente comparso sul sito di “Internazionale”, l’esperta di comunicazione Annamaria Testa ha giustamente richiamato i pericoli riguardanti l’incorniciamento (framing) di determinati eventi mediante il ricorso a metafore fuorvianti. Nell’affrontare per esempio l’evento nel quale siamo tutti da settimane immersi – l’epidemia dovuta alla diffusione del virus Sars-Cov-2 –, i media si sono abbandonati ad un uso piuttosto disinvolto di riferimenti marziali: “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra” (Daniele Cassandro). Eppure, possiamo veramente identificare un’entità microscopica completamente priva di volontà alla stregua di un nemico? È chiaro che, facendolo, attiviamo contemporaneamente una strategia, adottiamo un certo atteggiamento mentale, e cominciamo a mobilitare risorse guidate non più dalla specificità di ciò che dovremmo contrastare, ma da astrazioni che derivano dai contesti di provenienza della metaforologia prescelta.

Chi si occupa prevalentemente di metafore, lo sappiamo, sono i poeti. Sono loro, infatti, che abitano il linguaggio con l’orecchio sempre teso a percepire echi e rimandi tra una parola e l’altra, quindi anche tra concetti afferenti a campi semantici diversi. Basterebbe osservare il modo con il quale determinati poeti hanno parlato della guerra, ricercare nella tessitura del loro linguaggio quelle epifanie di senso dischiuse da determinate immagini per verificare se potrebbero applicarsi anche alla nostra situazione. Preleverò tre esempi tratti da alcune poesie inerenti il primo conflitto bellico mondiale e raccolte nel volume “La guerra d’Europa – 1914/1918 – raccontata dai poeti” (nottetempo 2014). “Che m’importa se il Belgio / è diventato il cimitero delle nazioni? […] Oh una Lovanio tutti i giorni / per frutta delle mie colazioni!” (Corrado Govoni); “Il cielo è caduto a terra in pezzi / E non c’è fiore / che sopravvive intatto. / La terra odora del sangue, / schizzato dal cielo. / La ferita è grande / e non guarirà” (Theo van Doesburg); “Un caffè si spaccò il muso e sanguinò / imporporando un grido bestiale: / Infettiamo col sangue i giochi del Reno! / Il tuono dei cannoni sul marmo di Roma!” (Vladimir Majakovskij). Sono esempi scelti quasi a caso, ma gli elementi trovati si possono riscontrare in moltissime poesie di questa raccolta. Cosa prevale qui? Abbiamo entità contrapposte, corrispondenti a nomi di nazioni, o di città, ci sono verbi che segnalano la presenza di schianti, frastuoni, emorragie, e un senso di completa distruzione. Soprattutto: ci sono comunità lacerate da divisioni che le sollecitano sia dall’esterno che dall’interno.

Se ci volgiamo adesso alla scena che si apre ai nostri occhi osservando la “battaglia” (scrivo la parola tra virgolette, per porla in questione) che stiamo intraprendendo contro la diffusione del virus non vediamo nulla di quanto elencato in precedenza. Le città sono silenziose, l’animazione è contenuta al minimo, le lacerazioni avvengono interiormente. Come ha scritto Paolo Giordano (“Nel Contagio”, Einaudi), “l’epidemia ci incoraggia a pensarci come appartenenti a una collettività. Ci obbliga a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricabilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individuali. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità”. Ora, com’è possibile istituire il framing per l’istituzione di tale comunità solidale se ci affidiamo ad un vocabolario di per sé divisivo come quello orientato da metafore bellicistiche e da una retorica guerresca?

La difficile sfida sollecitata dall’emergenza sanitaria non può essere affrontata ricorrendo a logiche nazionalistiche e conflittuali, soggiacenti ad un contesto in cui eserciti pesantemente armati si scagliano gli uni contro gli altri. Abbiamo bisogno, al contrario, di allestire parole e concetti informati a logiche universalistiche adeguate a prevenire rischi globali. Per questo non dovremmo indugiare in termini dicotomici, muscolari e basati sulla contrapposizione – suggerisce ancora Annamaria Testa nell’articolo citato all’inizio –, ma richiedere maggiore inclusione, condivisione e cura. L’opposizione al virus non è una guerra “perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare”. Non facendolo, corriamo il rischio di inclinare la nostra società verso il dominio di un governo autoritario come unica possibilità d’intervento, e di lasciare sul campo non solo le vittime della malattia, ma anche molti di quei diritti ai quali credevamo di non dover mai più rinunciare.

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Virus

di Roberta Dapunt

Eppure, in questo silenzio che si è fatto uno

tra le lingue e le appartenenze. In questo silenzio

che nessuno, nessuno ha mai sentito prima,

si sentono dire parole sconosciute da noi liberi europei.

Sapere, questo verbo dice: sentire sapore e odore, conoscere,

perché arrivi alla mente per esprimere bene ciò che si sa.

 

Ecco, noi non sappiamo la parola guerra

e i medici non stanno al fronte, non esiste l’untore.

Qui non si spara, perché il nemico, questo, non ha volto.

Se lo avesse sarebbe il sorriso delle mie figlie, quello di mia madre.

 

Dire lotta, è dire bene. E i medici stanno dentro

a una moltitudine di corsie di emergenza,

curano respiri drammatici, l’intensità emotiva nelle loro mani

mentre l’antagonista potrebbe abitare il loro stesso corpo,

così il mio mentre scrivo.

 

Non guerra. Per converso, invece,

inquesto attimo dell’evoluzione in pianto,

ci stiamo restituendo un ordine di quiete

che richiama i pesci e gli uccelli,pulisce le correnti

e ci commuove per smarrimento e sconcerto.

Eccolo il buio, qui presente nel nostro isolamento collettivo

che ci rende partecipi di ogni singola vita.

 

Sull’orologio geologico siamo pochi minuti,

nella conta dei nostri secoli si racconterà questo istante del tempo.

Sarà un racconto in assenza di pluralità,

perché avremo fatto di noi il più alto valore sociale

che potevamo fare accadere.

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