Una delle cose più tristi che ho visto, in questi giorni di incerto interstizio tra la cosiddetta “fase uno” (di chiusura) e “fase due” (di zoppicante riapertura) nella strategia di contenimento del Coronavirus, è un servizio giornalistico sullo stato d’animo dei baristi, che a quanto pare potranno togliere i sigilli ai loro locali solo a partire dal primo giugno. Com’era prevedibile, infatti, le cose non andranno molto lisce, non sarà insomma possibile tornare alla situazione precedente il lockdown e ci saranno limitazioni responsabili di incidere in profondità nello stesso modo di percepire lo spirito di questi posti. I bar, i caffè e tutti gli altri luoghi deputati alla ristorazione veloce che dispongono (disponevano) di uno spazio prevalentemente interno dovranno osservare protocolli igienici molto stretti, ridurre il numero e l’afflusso di clienti e ripensare alla radice il loro modo di esistere. Qualcuno, per esempio, ha già cominciato a montare dei pannelli, degli schermi, insomma delle barriere di plexiglas in modo da aumentare la sensazione di protezione e rendere più “sicuri” gli ambienti. Ma un bar, un caffè, un ristorante attrezzato in questo modo che cosa diventa, cosa sta per diventare? Quello che rendeva indispensabile (non caratteristico: indispensabile) questo tipo di esercizi era proprio il contrario di quanto sarà ottenibile procedendo alla ristrutturazione in atto. Noi andavamo al caffè non per dividerci dagli altri, ma per godere di quel contatto moderatamente promiscuo che era anche un modo di vivere la socialità in un mondo già ordinato e quindi smembrato in gran parte per compartimenti stagno, un mondo cioè fatto di separazioni visibili e invisibili che proprio la logica del caffè o del bar aveva la capacità, almeno fugace, di sospendere. Mi sono tornate in mente le parole che aprono la bellissima decima Nexus Lecture di George Steiner, “Una certa idea di Europa”: «Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo. Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il suo taccuino. È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club, una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie. Frequentarlo indica già una scelta programmatica. Una tazza di caffè, un bicchiere di vino, un tè con il rum garantiscono un ambiente in cui lavorare, sognare, giocare a scacchi o più semplicemente starsene al caldo per l’intera giornata. È il club dello spirito e il “fermo posta” per chi non ha casa […] Finché ci saranno locali come questi, l’“idea di Europa” avrà un contenuto». Quanti incontri, quanti scontri (anche) sono possibili in un bar. Che magnifico punto di osservazione sul mondo e sugli altri. Pensare che tutto ciò stia per eclissarsi dietro una superficie trasparente in grado – chissà – di proteggerci dalla diffusione del virus è tristissimo, perché quello che così perdiamo (che perderemo) configura una perdita secca anche della nostra identità e della nostra cultura. Personalmente non ho alcuna voglia di andare a prendermi un caffè stando rinchiuso in una gabbia di vetro. È vero, poi magari ci si abitua a tutto e capisco benissimo che chi vuole ripartire sta solo cercando di limitare gli inevitabili danni prodotti dalla lotta esiziale tra salute e lavoro. Io però sono triste, tristissimo e benedirò il giorno in cui anche l’ultimo pannello di plexiglas sarà finalmente rimosso e, spero, dimenticato.
#maltrattamenti