Le librerie non vanno isolate

Spira un alito di ineluttabilità nelle parole di Stefano Stefani, titolare della cartoleria libreria Cappelli di Bolzano affacciata su Piazza della Vittoria, che di recente ha annunciato di voler cedere, o addirittura chiudere l’attività.

La libreria è — o dovremmo già cominciare a dire era? — un punto di riferimento importante, visto che la sua apertura risale addirittura al 1938, anno in cui venne inaugurata dall’editore Danilo Cappelli di Bologna, per poi affermarsi lungo quasi un secolo, e passando dalle mani di Lino Stefani, già commesso di Cappelli, a quelle del figlio, Stefano, del quale non si intravedono eredi. Ma si diceva dell’ineluttabilità. Non vorrei ricalcarne in sede di commento il tono, giacché se sono certamente vere, e dolorose, le motivazioni che stanno dietro alla sconfitta commerciale, è anche opportuno saper guardare oltre, distillare cioè al margine delle ragioni che fanno abbassare la testa (e le serrande) qualche prospettiva di sviluppo finora non percepita. Senza arrenderci, insomma, a una diagnosi che, allargandosi a un intero settore, paleserebbe il lutto angoscioso per la fine di un mondo e di un sorpassato modo di intendere la cultura.

Mentre sfogliavo (ebbene sì) testi inerenti la storia del libro e delle librerie, o consultavo in rete siti che affrontano l’argomento, mi sono così imbattuto in un luogo del tutto singolare. Un quartiere di Tokyo — si chiama Jinbocho — in cui esisterebbero quasi duecento negozi dedicati all’oggetto del quale in molti si sono affrettati a dichiarare l’obsolescenza ferale. Quasi duecento librerie, più di dieci milioni di titoli spalmati su una superficie che trasuda sapere, quindi anche vita, e che sarebbe sbagliato rubricare sotto la categoria di quelle stranezze possibili solo in contesti esotici, irrealizzabili dalle nostre parti. Certo, Bolzano non è paragonabile a Tokyo, ma capire il segreto di quel successo potrebbe almeno aiutarci, se non altro, a trarne ispirazione.

Andando al nodo cruciale, forse è possibile affermare che le librerie sono destinate a sparire se non praticano l’arte dell’adiacenza, se cioè rimangono isolate, confinate nel loro perimetro, e non si connettono a una rete di altre offerte inerenti un ambiente capace di far fluire e circolare l’interesse sia per ciò che hanno sempre dato, ma anche — e questo è l’aspetto decisivo — ricevendolo da ciò che si può trovare appena accanto, nelle immediate vicinanze, appunto, dei loro scaffali. Se l’esempio di Tokyo appare irrealistico alla luce della nostra dimensione ridotta (e certamente funziona in prevalenza come suggestione), sarebbe utile immaginarsi allora dei «distretti» — potrebbero essere delle vie, gli spazi ricavati in un complesso di edifici, una costellazione di indirizzi legati da affinità elettiva — in cui ci si reca per acquistare libri, ma non solo per quello.

L’esempio più calzante è costituito dalle cosiddette «librerie caffè», che coniugano multisensorialità e stile di vita generando occasioni d’incontro. Non è indispensabile, anche in questo caso, concepire contenitori nuovamente separati dal resto. L’importante è che persone diverse confluiscano e sfruttino un ventaglio quanto più ampio di impulsi (possono essere conferenze, presentazioni, ma anche semplici appuntamenti di lavoro o di svago). Anche se la sfida appare complessa, perché poi si tratterebbe in sostanza di passare dal libro come mero oggetto alla lettura come esperienza, prima di considerare ineluttabile l’estinguersi dell’epoca delle librerie puntiamo a una rigenerazione del loro senso, nel contesto di una rinnovata concezione urbana.

Corriere dell’Alto Adige, 17 agosto 2022

La rettitudine del traduttore

È appena uscito per Feltrinelli l’ultimo libro dello scrittore di Dresda Ingo Schulze. Un colloquio col bolzanino Stefano Zangrando, suo traduttore di fiducia.

Quando ha scoperto Ingo Schulze e come ne è diventato il principale traduttore italiano?

Ho conosciuto Ingo Schulze nell’autunno del 2000 a Berlino. Ero lì per un soggiorno di studio e lavoro e avevo portato con me il suo libro più noto, Semplici storie, che era da poco uscito nella traduzione di Claudio Groff. Mi presentai a una sua lettura pubblica al British Counsil dicendogli che avrei voluto scrivere un saggio critico su quel romanzo, cosa che poi feci. Da quel primo contatto nacquero un intenso scambio epistolare e altre mie iniziative di mediazione della sua opera in Italia – che furono anche tra i miei primi cimenti traduttivi –, mentre altri due suoi libri uscirono rispettivamente nelle traduzioni di Margherita Carbonaro e Fabrizio Cambi. Quando Schulze circa sette anni dopo mi propose di diventare il suo traduttore e mi mise in contatto con Feltrinelli, il rapporto era già di profonda amicizia. Io però non lo considero solo un amico, ma anche un mentore: lui dice di dovermi molto, ma io gli devo sicuramente di più.

In cosa identificherebbe il tratto creativo peculiare di questo autore?

La mia conoscenza della letteratura tedesca contemporanea è limitata, credo però che Ingo Schulze sia tra gli scrittori più indipendenti e originali. Fedele a se stesso fino a sottrarsi ai riflettori quando richiedono compromessi che violerebbero la sua integrità, Schulze attinge alla concezione dialogica del romanzo per costruire opere in cui sono preservate l’ambiguità e l’ambivalenza dei rapporti umani. Nei suoi personaggi c’è sempre un lato in ombra che si svela a poco a poco. E questo accade sempre su uno sfondo storico significativo, che nel suo caso sono spesso i mutamenti occorsi in Germania e in Europa a cavallo del 1989, fino ai nostri giorni. Sono stati tracciati parallelismi tra la sua poetica e quella di certi autori americani, da Gaddis a Carver, ma anche la tradizione tedesca, da Hoffmann a Döblin, ha una parte notevole.

Anche nell’ultimo romanzo da lei tradotto – Die Rechtsschaffenen Mörder / La rettitudine degli assassini – la vicenda esistenziale del libraio antiquario Norbert Paulini ripercorre o riflette i cambiamenti intervenuti sulla società tedesca negli ultimi quarant’anni. Quali sono gli effetti di questa sovrapposizione?

Paulini è un “apolitico” che nel corso della storia sembra soccombere alle sirene del populismo. Ma la forza del romanzo non è soltanto nell’interrogarsi – senza dare risposte – sulla possibilità che un uomo colto, un devoto alla letteratura e al libro stampato, in determinate circostanze storiche possa trasformarsi in un sostenitore di idee sovraniste e xenofobe. In seguito questa verità narrativa viene messa in discussione dando voce al narratore che quella stessa biografia avrebbe voluto portarla a termine, salvo poi cedere alle proprie contraddizioni. Queste ultime, a loro volta, emergono in una luce ancora diversa nel racconto di una terza voce, quella della sua editor. Dov’è dunque la verità, in questo gioco di smentite e rifrazioni? Chi può vantare una reale rettitudine? Chi è l’assassino? Il lettore è confrontato con la difficoltà di assumere una posizione morale netta: l’estetica del romanzo rispecchia un’etica della complessità.

Paulini è espressione di un mondo in cui i libri, la letteratura e in generale la cultura veicolata su carta erano ancora dominanti. Un mondo definitivamente tramontato?

Paulini si consacra dapprima al salvataggio del libro cartaceo e della tradizione umanistica in un mondo in cui questa va perdendo valore. In questo senso è un modello. La sua deriva finale è quella di un’epoca in cui viene meno il valore di questa cultura, della Bildung e dei suoi risvolti esistenziali, non solo intellettuali. Dopo Paulini ci siamo noi, cui spetta, io credo, il compito di salvaguardare la cultura umanistica in un mondo che guarda per lo più altrove, anche in senso artistico. Non so dire quanto possa ancora durare il mondo di carta, l’aspetto materiale della lettura, ma credo che per sopravvivere la letteratura debba evitare da un lato di asservirsi alla propaganda, dall’altro di seguire le altre arti in modo subalterno, puntando invece a dire ciò che solo la letteratura può dire. Si tratta insomma di preservarne l’insostituibilità.

Il protagonista, si legge nelle note di presentazione del libro, diventa progressivamente un sovranista reazionario. Quanto è alto il rischio, oggi, che al sovranismo politico se ne accompagni anche uno culturale? Le opere di traduzione forniscono un antidoto?

Personalmente non ho l’impressione che si stia rischiando un sovranismo culturale, se non a livello locale, territoriale. Se nel grande mercato editoriale mi sembra tutt’ora persistere un’esterofilia con preferenze anglo-americane che coesiste pacificamente con i prodotti letterari nazionali, negli spazi regionali vedo farsi strada una tendenza all’autotutela identitaria e all’autonarrazione, che però rimane spesso confinata al cosiddetto sottobosco. In tal senso credo che la forma di resistenza della letteratura sia quella di sempre: fondere in sé l’uno e il molteplice, il particolare e l’universale, il locale e il sovranazionale. E alla traduzione spetta proprio il compito di trasportare questi esiti da un campo linguistico all’altro. Il peggior nemico della letteratura in questo momento a me sembra un altro, ossia l’intolleranza di chi, invece di includere, esclude e censura innalzando a propria autorità vessilli progressisti. Così però l’etica della complessità, il senso del dialogo, la libertà artistica e di pensiero vanno in malora.

Quando trova un passaggio particolarmente arduo, una parte di testo che presenta problemi di resa, come fa a superare l’eventuale blocco?

Mi viene in mente una risposta che spero non suoni immodesta: di fronte a un passaggio del tipo che descrive, di solito non provo nessun blocco, ma un’ostinazione che mi tiene incollato ai due testi fino a perdere il senso del tempo. Non è niente di particolarmente tormentoso, voglio dire che non ne soffro: è una via di mezzo tra il gioco infantile e il rompicapo, qualcosa che, nel momento in cui l’affronti, sprigiona una tale quantità di senso e di sfida che non vorresti fare altro che continuare, starci immerso fino a sciogliere la frustrazione, un nodo alla volta. Sono i casi, peraltro, in cui l’essere stato musicista e avere scritto qualche opera letteraria mi è particolarmente d’aiuto, benché sia noto il rischio di lasciare spazio all’ego. Ma la traduzione è soprattutto ascolto, quindi è un po’ come usare il proprio strumento per riprodurre un brano altrui: più hai esercizio e sensibilità, più ti avvicini all’originale. Virtuosismi compresi.

Pensa che se lei fosse rimasto a Bolzano, anziché pendolare tra Rovereto e Berlino, avrebbe trovato ugualmente la sua strada?

Se fossi rimasto a Bolzano probabilmente sarei morto di ombelicalità, eppure devo alla Provincia il mio primo soggiorno a Berlino, che mi permise di prendere il largo e affrancarmi dalle pastoie del bolzanocentrismo. Questa contraddizione è la stessa che vivo ancora oggi: l’Alto Adige stenta terribilmente a diventare un luogo di mediazione letteraria internazionale, tanto che inizio a dubitare ne sia davvero vocato, eppure ho interlocutori capaci che non vedrebbero l’ora di spiccare il volo partendo da qui. Un esempio: lo ZeLT, il centro europeo di letteratura e traduzione che con altre colleghe e colleghi della SAAV abbiamo fondato a Bressanone, sta incontrando resistenze che scorgono nella nostra visione plurilingue e interculturale una specie di difetto, o almeno una non corrispondenza con ciò che una parte della politica e della cittadinanza sembra continuare ad augurarsi per questa terra. Non siamo esattamente una regione progressista, mi pare.

C’è un autore tedesco, non ancora tradotto, al quale vorrebbe dedicarsi prossimamente? E quale autore italiano consiglierebbe a un editore tedesco che richiedesse la sua consulenza?

Il mio lavoro di insegnante non mi permette di tradurre più di un’opera all’anno, per non parlare dei classici, che richiedono ancor più dedizione, e competenze che forse non ho. Tuttavia accarezzo da tempo l’idea di tradurre un libro o l’altro di Thomas Melle, un autore tedesco della mia generazione di cui in Italia è apparso soltanto il romanzo d’esordio, il meno riuscito. Credo che Melle sia tra i migliori scrittori in circolazione e non disdegnerei neppure una sua opera teatrale, visto che è soprattutto drammaturgo. Spero però di tradurre innanzitutto un trittico di racconti lunghi di Schulze uscito l’anno scorso. A un editore tedesco consiglierei invece di tradurre qualche libro di Marino Magliani, per me uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Il suo romanzo più recente (Il cannocchiale del tenente Dumont, ndr), entrato nella dozzina dello Strega, ha le carte per diventare un classico, di quelli che si studieranno a scuola.

ff – 4 agosto 2022