Risveglio tra sogno e realtà

Renzo Caramaschi e Roberto Zanin, foto Ansa

Al fine di commentare l’inatteso exploit che ha visto protagonista il sindaco di Bolzano uscente Renzo Caramaschi, può essere utile partire da una osservazione resa a caldo da Angelo Gennaccaro che con la sua lista «Io sto con Bolzano» è diventato uno dei protagonisti di rilievo del paesaggio politico appena uscito dalle urne: «La città si è risvegliata non così populista come credevamo fosse diventata». In questa frase è forse contenuta la chiave di lettura che spiega sia la resistenza dimostrata dal «vecchio» borgomastro e dalla sua coalizione agli assalti dei «nuovi» pretendenti, sia quella che potrebbe schiudere alla decifrazione del campo di forze più influenti prima e dopo l’imminente ballottaggio. Dunque, quando Gennaccaro parla di «risveglio» significa evidentemente che per un certo periodo abbiamo tutti dato credito a un qual certo onirismo, e la parola «populismo» contiene la materia della quale erano impastati i sogni adesso disciolti al cospetto del voto. A questo punto, però, occorre fermarsi e definire nel modo più stringente l’accezione di «populismo», visto che si tratta di un concetto talmente ripetuto da risultare usurato, quindi anche molto sfuggente.

La definizione che propongo è questa: «Populismo» significa comporre un catalogo di azioni e interventi ritagliati sui desideri semplificati di un popolo al quale difetterebbe per principio la voglia di accettare una versione complessa della realtà. Il tema della «sicurezza», ad esempio, si presta perfettamente a illustrarne gli effetti. Qual è stata la descrizione di Bolzano che i «populisti» hanno scelto di rimarcare in campagna elettorale? Bolzano, affermavano, sarebbe un luogo in cui ormai non si può più circolare liberamente, un territorio preda di una microdelinquenza ostinata, estirpabile soltanto se il sindaco ricorresse a metodi repressivi in aggiunta a quelli già utilizzati dalle forze dell’ordine.

Rispetto a una simile narrazione, Caramaschi ha invece sempre opposto l’illustrazione di quanto egli ha fatto e poteva fare all’interno del perimetro dei poteri entro i quali era costretto a riferirsi nel rispetto della sua funzione. Da un lato il sogno, appunto, dall’altro la realtà. E alla fine non è improbabile che molti cittadini abbiano capito che si governa solo rimanendo nei confini della seconda. Sempre insistendo sul concetto di «populismo», è possibile individuare però ancora un altro termine che, in sostituzione del «sogno», si oppone a quello di «realtà». Si tratta del concetto di «virtuale».

La Bolzano immaginata da Zanin, e soprattutto dagli esponenti dei partiti che lo sostengono, ha esposto sovente il profilo contraddittorio di un’entità in grado di irridere ogni tipo di contraddizione: una città, dunque, in cui i cantieri aperti non avrebbero causato alcun problema ai residenti; in cui la viabilità sarebbe migliorata senza vietare il passaggio delle auto; in cui l’aumento auspicato di dotazione finanziaria da gestire in loco avrebbe potuto all’occorrenza essere prodotto senza l’intralcio di una assidua concertazione con la Provincia; e in cui una Svp completamente dimentica del proprio mondo di valori potrebbe persino accettare di governare assieme a qualche esponente del nazionalismo italiano. Una teoria di possibilità virtuali, appunto, che fa a pugni con la realtà. Di contro, Caramaschi ha ancora una volta esibito dei semplici dati, indicando che l’accrescimento di certe dotazioni non poteva prescindere da un minuto lavoro di riconoscimento e di paziente limatura delle contraddizioni esistenti. «Bolzano deve tornare a essere capoluogo», affermavano così i primi, ipotizzando che la formula potesse di per sé risolvere tutto; «Bolzano è già capoluogo, ma i suoi problemi non possono essere risolti senza prendere nota delle difficoltà inerenti un’amministrazione e una storia complessa», ha ribattuto il sindaco.

Compreso in questi termini, il confronto tra Caramaschi e Zanin è dunque quello tra la dimensione del sogno e della virtualità da un lato e quella del realismo dall’altro. Tra meno di due settimane vedremo se i bolzanini decideranno di tornare a riavvolgersi nelle morbide coperte di cui è fatta la prima, oppure se decideranno di proseguire la fase del più ruvido «risveglio» annunciata dal voto del 20 e 21 settembre.

Corriere dell’Alto Adige, 24 settembre 2020

Il Monumento abbandonato

Quasi tutti i monumenti sono invisibili e le rare eccezioni, nonostante la loro centralità, possono diventarlo, cadendo in preda al “degrado”. Il caso del Monumento alla Vittoria di Bolzano.

Nessuno può negare che lo scrittore austriaco Robert Musil sia stato capace di elaborare riflessioni e osservazioni di grande originalità su qualsiasi tema egli abbia affrontato. Eppure, esiste un suo piccolo scritto, intitolato “Monumenti” e contenuto nella raccolta “Pagine postume pubblicate in vita”, che potrebbe lasciare perplessi alla luce della recente levata di scudi contro certi manufatti celebrativi che affollano piazze e giardini delle nostre città. Riporto solo l’incipit del testo, visto che contiene già la tesi principale: “Fra le particolarità che possono vantare i monumenti (ad esempio in tedesco non si sa mai se al plurale si deve dire Denkmale o Denkmäler) ve ne sono ancora molte altre. La più importante è alquanto contraddittoria: la cosa più strana nei monumenti è che non si notano affatto”.

Certo, Musil qui si riferisce soprattutto a statue di dimensioni non particolarmente eclatanti, anche se include “manufatti di grandezza maggiore del naturale”. Ma l’analisi sembra estendersi fino ad assumere una valenza generale. “Tutto quello che dura – scrive – perde la forza di colpire. Tutto quello che forma le pareti della nostra vita, per così dire, le quinte della nostra consapevolezza, perde la capacità di recitare una parte in questa coscienza”. Da qui lo scatto del pensiero che scorge in qualsiasi gesto celebrativo pietrificato una perfidia, piuttosto che un omaggio, rivolta al personaggio o all’evento monumentalizzato. Visto che in vita non possiamo fare loro più del male, ecco la conclusione di Musil, noi buttiamo questi personaggi “con un bell’epitaffio al collo nel grande oceano della dimenticanza”. Nonostante Musil abbia sostanzialmente ragione, esistono tuttavia eccezioni alla regola. L’esperienza infatti ci insegna che in almeno determinate occasioni, in certe circostanze, alcune di quelle pietre inerti non se ne stanno lì mute, ignorate da tutti, consegnate al loro ruolo di invisibile relitto di una magniloquenza spenta proprio nel momento in cui è stata accesa. A Bolzano lo sappiamo bene. Al centro della città, da quasi cento anni, si erge infatti l’arco piacentiniano che rappresenta anche la traccia mnestica più visibile del grande “scandalo” (s’intenda la parola in senso etimologico: skàndalon, dal greco, significa “ostacolo”, “inciampo”) dell’annessione.

Non sarebbe azzardato affermare che basterebbe davvero solo una visita al Monumento della Vittoria – soppesandone i significati espliciti, nonché la scia d’interminabili polemiche relative alla sua sussistenza – per ricapitolare la rocambolesca avventura del Sudtirolo italianizzato, avventura (almeno a proposito del Monumento) formalmente conclusasi sei anni fa con l’inaugurazione del percorso espositivo ipogeo realizzato per impulso dell’Archivio Storico della Città di Bolzano. Tutt’altro che muto e inerte, quindi, questo documento, e ricondotto invece opportunamente al colloquio esplicativo che è il presupposto di qualsiasi reale comprensione degli accadimenti storici trascorsi e tuttora influenti. Esiste tuttavia il rischio che anche il migliore colloquio possibile, una volta impostato, si perda e smarrisca la sua funzione se chi avrebbe il compito di salvaguardarlo e sostenerlo non reagisce tempestivamente ai colpi che il semplice passare del tempo e altre manifestazioni ugualmente dannose inferiscono a qualsiasi opera umana. Si consideri infatti la situazione recente e attuale. La mattina del 4 maggio del 2019, prima che aprisse il consueto mercato tradizionale, una lastra collocata nella parte superiore dell’edificio si staccò per poi sgretolarsi al contatto con il suolo. Da allora, il Polo museale del Veneto (da cui dipende il Monumento), la Ripartizione Cultura e la Protezione Civile del Comune di Bolzano hanno deciso di non permettere più l’accesso al sito per ragioni di oggettivo pericolo. Da più di un anno, quindi, una grande impalcatura nasconde un lato del Monumento, alludendo a dei lavori di restauro che però non sono ancora né cominciati né programmati (o comunque, posto che esistano, tali programmi non sono stati annunciati). Del resto, non è andata meglio neppure al percorso espositivo ipogeo, non interessato direttamente dal crollo. Le misure attuate per contenere la pandemia che ha bloccato istituzioni analoghe ne hanno parimenti causato, da marzo, la chiusura, e finora non si conosce una data (anche ipotetica o approssimativa) per il ripristino della sua attività.

Stranamente (ma questa è una buona notizia), la condizione di abbandono in cui si trova il Monumento alla Vittoria non è stata posta al centro della campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative. In questo caso, tutto sommato, bisognerebbe così tornare a dare ragione a Musil. Nessuno, se non sollecitato da polemiche ad hoc, tende ad accorgersi dei monumenti, che dunque possono rimanere a lungo avvolti da impalcature anch’esse, alla fine, ignorate da tutti. Intanto escrescenze di lenta e vegetale incuria insidiano la scalinata sovrastata dalla celebre scritta che avrebbe voluto illuderci di essere nel luogo dal quale “educammo gli altri alla lingua, al diritto, alle arti”. Sorridiamone, leopardianamente. Ma dopo averlo fatto, chiediamo: Bolzano può permettersi che il tanto citato “degrado”, in questo caso non legato a fattori “importati”, troneggi indisturbato proprio al centro del suo tessuto urbano e storico?

Un rientro incerto e separato

Che anno scolastico sarà quello che sta per riaprirsi? Nonostante sul vasto mercato delle opinioni s’incontrino prevalentemente articoli improntati alla speranza, non apparirà eccessivamente prudente attenersi all’unica certezza che abbiamo, vale a dire l’assoluta mancanza di certezze. Ma non è solo l’imperscrutabile andamento della curva epidemiologica ad alimentare i dubbi maggiori. All’incidenza di tale variabile devono essere infatti aggiunti gli effetti che la reazione alla presenza del virus hanno cominciato a modellarsi seguendo una propria logica di diffusione, in parte facendo emergere elementi di novità, ma anche riproponendo cliché e linee di frattura che, a quanto pare, nessuna situazione emergenziale riesce a cancellare.

Un classico esempio di questa seconda tendenza è ben rappresentato dal modo con il quale le due sovrintendenze scolastiche locali hanno impostato il futuro prossimo degli insegnanti, degli studenti e delle famiglie. Balza infatti agli occhi una differenza di fondo che rischia di incidere nella prospettiva autunnale e invernale. Mi riferisco ai due diversi percorsi scelti.

Mentre nelle scuole tedesche si è partiti dall’assunto che l’esperienza acquisita con la didattica a distanza, ancorché in una dimensione parziale, avrebbe potuto essere mantenuta per abbassare la soglia di rischio, la scuola italiana ha ritenuto più sensato ripristinare una situazione fatta di relazioni eminentemente in presenza. A quanto pare nessuno si è ancora chiesto se, almeno in un caso come questo, l’autonomia dei diversi comparti educativi può giustificare una scelta tanto distante, come se insomma si agisse davvero in due mondi reciprocamente impermeabili. Evidentemente l’abitudine a perseguire percorsi separati è talmente radicata che persino l’ipotesi di un coordinamento complessivo appare chimerica, e se finora ci eravamo rassegnati a scontarne la mancanza in ambiti sensibili della formazione (citiamo l’apprendimento delle lingue, che solo in pochi ormai ritengono un campo in cui esercitare una qualche forma di intelligenza e di prassi collettiva), adesso dobbiamo registrare che neppure gli argomenti spendibili sul piano della salute pubblica hanno la capacità di arginare l’assodata impossibilità d’intendere la società altoatesina e sudtirolese come qualcosa di unitario. Anche solo al livello di auspicio.

In un clima dominato dall’incertezza, quindi, resiste ancora imperterrito il caposaldo che regola la vita di questa provincia fondata sul distanziamento «etnico», precedente e più ostinato di qualsiasi altro distanziamento sociale dovuto ad altri motivi. Beninteso, la ragione di questa resistenza non si basa su un disegno di pochi malintenzionati, di una supposta lobby di perfidi complottisti che vorrebbero «tenerci divisi». Tutto accade così, spontaneamente, per assuefazione, per incapacità di pensarsi come appartenenti ad una medesima comunità. Ai pochi eretici che facessero ancora notare i difetti di una simile impostazione verrebbe riservato l’annoiato sbadiglio di chi accetta la realtà in cui siamo immersi perché è l’unica che conosce e, in fondo, apprezza.

Corriere dell’Alto Adige, 6 settembre 2020