Una letteratura per modo di dire

Gegen die Wand, tra le altre cose, è la gestualità del suo protagonista. Birol Ünel entra in un bar. Birol Ünel beve una birra. Birol Ünel si lancia contro un muro. Birol Ünel non dice niente. Birol Ünel sniffa. Birol Ünel polverizza un bicchiere. Birol Ünel scatena una rissa. Birol Ünel si sposa. Birol Ünel sorride. Birol Ünel fa questo. Birol Ünel fa quello. Ma non importa cosa faccia: Birol può anche non far nulla. L’importante è capire che la città, qualsiasi città, usa Birol per raccontarsi. Il corpo di Birol è una penna sensibile, nervosa: la metropoli la prende in mano e disegna le proprie strade, reinventa i suoi quartieri, riassume in pochi tratti un’atmosfera inconfondibile. Io vorrei scrivere così, come Birol si muove. „Ich würde gerne schreiben wie sich ein verfickter Gläßerabräumer bewegt“. Ma avrebbe senso qui da noi una scrittura metropolitana? Sarebbe possibile una scrittura cittadina se ci manca la città? Che cosa diventerebbe Bolzano se la regalassimo ad Amburgo? Anzi, correggo la domanda: che cosa sarebbe Bolzano ad Amburgo?  Il parco dell’ospizio? La ciclabile di un asilo? L’anticamera della sartina?

Il punto è questo: per riuscire a scrivere così, per pensare come Birol si muove, dovremmo tirar su Hamburg dalle sue fondamenta  e sbatterla in Sudtirolo.  Dovremmo afferrare quella fottutissima città anseatica con una gru gigantesca, sradicarla dalla crosta terrestre con tutte le sue storie i suoi locali notturni il fiume Elba i quasi due milioni di abitanti, e alzarla verso il cielo, ma su, su, a settemila metri d’altezza sul livello del mare, senza dimenticare nulla, neanche il fazzoletto di un magnaccia un angiporto i venti dell’oceano un metro quadro d’asfalto del cazzo, e poi, una volta lì in alto, sospesa sul braccio immenso della gru, dovremmo dislocarla lentamente dai cieli tedeschi a quelli bolzanini. Non sarebbe un evento straordinario? Hamburg che vola, Hamburg vista dal basso, Hamburg tra le nubi, Hamburg che attraversa l’Europa a settemila metri d’altezza! Lasciarla cadere giù sarebbe l’operazione più difficile. Bisognerebbe prendere la mira e non sbagliare. Hamburg dovrebbe cadere esattamente tra il Brennero e Salorno, non un centimetro più a sud, altrimenti si sveglierebbero senza ragione i musei sonnolenti della grande provincia italiana. “Ecco, Amburgo è proprio sopra di noi!” griderebbe qualcuno a Merano. E già mi immagino i nostri acquerellisti con il naso all’insù, verso la parte inferiore di Hamburg, con gli occhi fissi sulle fogne sulle fondamenta sugli scantinati. I nostri pittori si farebbero un sacco di domande: questioni tecniche, problemi di composizione. “Wie fängt man es an, den Weltuntergang zu malen? Die Feuersbrünste, die entflohenen Inseln, die Blitze, die sonderbar allmählich einstürzenden Mauern, Zinnen und Türme: technische Fragen, Kompositionsprobleme“. Enzensberger, per fortuna, funziona anche in italiano: „Distruggere il Sudtirolo è una faticaccia. Particolarmente difficili da dipingere sono i rumori, il lacerarsi della cortina nel tempio, il mugghio delle bestie, il tuono. Tutto infatti deve squarciarsi, essere squarciato, esclusa la tela“. Ma si tratterebbe di riflessioni a corto di futuro. Dopo pochi minuti, a schianto avvenuto, le Dolomiti non esisterebbero più. Nemmeno Castel Firmiano e i campanili del duomo di Bressanone resterebbero in piedi. A nessuno di noi, almeno per un po’, verrebbe in mente di scrivere la parola “larice”. Hamburg ci seppellirebbe, Hamburg  sarebbe sopra di noi con le sue case. Hamburg sotterrerebbe tutto. Certo, per qualche tempo si sentirebbero i soliti lamenti bilingui di chi resta sotto. Ma sarebbero lamenti giustificati e veri, per una volta. Sarebbero i primi vagiti di una letteratura cittadina e post-etnica.

 

Nel frattempo, aspettando il tonfo, dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo: io scrivo per Marietto che legge il Seppl che cita Angelika che attacca Benito che prende spunto da Toni che è solidale con Simon che chiacchiera con Gabriele che parlotta con Verena che conosce a memoria quel che scrive Marietto che, leggendomi ad alta voce, chiude questo cerchio disgustoso. Scriviamo sempre in punta di penna, in punta di piedi, mai sui talloni, no, perché non è abbastanza fico. Prima di metterci al computer ci limiamo le unghie. E cominciamo a picchiettare sui tasti solo dopo che lo smalto si è asciugato. Poi stendiamo i nostri pensierini Biedermaier, ordinatamente, uno dopo l’altro, come se fossero calzini appena lavati. Tic tic tac tic tic tac tuc. La cosa incredibile è che noi non digitiamo: noi lambiamo la tastiera, la accarezziamo con il mignolo della mano destra, solo con quello, perché con l’altro mignolino siamo troppo impegnati a salutare la mamma che ci osserva dalla cucina.

Prima dell’impatto, che non si verificherà mai, dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo: di qualche  “foglietto”, vedi? di una letteratura per modo di dire. (edz)

Contra la pared

CONTRA LA PARED

Auszüge aus dem Gespräch zwischen Feridun Zaimoglu und Fatih Akin über Gegen die Wand.

Zaimoglu: Muss man einen Türkenbonus haben, um diesen Film zu verstehen?

Akin: jeder mensch guckt ‘n film anders, na? jeder mensch als individuum, weißt du? und das was die einen gut finden, finden die andern schlecht und so was. aber es gibt so irgendwie, so, ich glaub’ so, drei hauptströmungen an die ich gedacht habe, beim schreiben. ich dachte drei hauptblicke, die gibt es schon, also vor allem in meiner umgebung, na? so der eine hauptblick ist so der deutsch-deutsche blick, ich sag’ jetzt mal der blick der geldgeber oder so was, na? dann gibt es halt so den deutsch-türkischen blick, so. das ist halt so irgendwo mit meinem blick…, dann gibt es nochmal den türkisch-türkischen blick, so, der nochmal ein ganz anderer blick ist, na? so, der blick aus istanbul, weißt du? wir können hier sachen machen, die finden das drüben scheiße, die machen so sachen drüben, die wir hier nicht verstehen, mäßig und so, na? also, auf jeden fall es gibt so drei hauptrichtungen und ich hab’ versucht zu, versucht so, die größtmögliche schnittmenge zu finden.

genau so ‘n kreativen blick brauchen wir, na? ich sag’ mal bei uns in südtirol, weißt du? aber es gibt hier, so, in den augen, in den augen der leute, so, zu viele hindernisse, weißt du? einen verdammten dreck haben wir in den augen, kapierst du das? und das find’ ich schade halt. ja, das find’ ich schade, sag’ ich dir. und jetzt verpisst dich, du verfickter leser! ich hab’ keinen mist mehr zu verzapfen! 

Risposta a un paio di osservazioni

Sul blog BBD, qualcuno mi ha rivolto un’accusa:

Schön auch zu sehen wie schnell Gadilu von seinem “Holzweg” zurückgekommen ist. Ein wenig öffentliche Aufmerksamkeit und alles paletti? Wird jetzt “segnavia” relaunched? Also mindestens in den Blogroll von BBD sollte er schon wieder…

Questo mi dà l’opportunità di precisare in modo spero CHIARO la mia posizione.

Ho sempre sostenuto di appoggiare una riflessione serena e costruttiva sul tema dell’autodeterminazione. A lungo l’ho fatto all’interno della piattaforma BBD, della quale condividevo (e condivido) l’approccio fondamentale. E questo è: il tema dell’autodeterminazione è proponibile SOLTANTO muovendo da un processo di discussione e di analsi capace di strappare il soggetto alla retorica della destra tedesca e, dunque, di favorire una più stretta cooperazione tra i gruppi linguistici. Detto ciò, è bene ribadire anche i punti discordanti (e dunque i motivi della mia fuoriscita da un impegno per così dire “militante”). Ponendo l’accento sul processo, per me sfuma la questione dell’obiettivo da raggiungere. Non è insomma il FINE a giustificare i MEZZI, ma i MEZZI giustificano il FINE. E se poi, messi a punto i mezzi, il fine dovesse risultare obsoleto (o emergessero altre finalità), io non starei certo a rammaricarmene.

In questo senso il mio impegno attuale non rinnega nulla della mia personale vicenda e non rappresenta un ritorno al passato. Quello che sto dicendo a SOSTEGNO della piattaforma BBD tende sempre a mettere in luce la necessità del processo al quale alludevo, e questo mi pare tanto più necessaro più l’interesse verso l’autodeterminazione cresce in una direzione che continua a IGNORARE o STRUMENTALIZZARE quel tipo di processo.

Due cose ancora. Lucio Giudiceandrea ha chiesto se io mi rendo conto che, al momento, un consenso “italiano” sull’ipotesi di autodeterminazione è praticamente inesistente. Me ne rendo conto benissimo. Ma i miei ragionamenti, lo affermo con modestia ma lo affermo, non cercano di modellarsi sul sentire “comune”. Li svolgo semplicemente seguendo il filo di una razionalità profondamente scettica e per certi versi già da sempre votata allo scacco (sono stato frainteso e verrò frainteso ancora innumerevoli volte). Riccardo Dello Sbarba mi ha ammonito: non farti soverchie illusioni. Non me ne faccio. So benissimo che per attivare (anche solo attivare) il processo che io auspico è necessario forzare mille automatismi e superare mille difficoltà. Non per questo posso smettere di dire quello che penso o smettere di correggere le interpretazioni del mio pensiero che mi sembrano più distanti da esso.

Infine: il buon pérvasion è libero di “caricare” sul suo blogroll chi meglio crede. Anche la Fata Turchina o la cugina di Pollicino, se lo ritiene opportuno. Il fatto che “sentierinterrotti” sia stato espunto o non sia mai comparso sul suo blogroll è una cosa che riguarda lui, non me.

Accarezziamo la tigre…

Con la prevista settimanetta di ritardo, oggi il dibattito sull’autodeterminazione è arrivato anche sull’Alto Adige. L’articolo è di Patrizia Gonzato (abbiate pazienza, cambio i nomi un po’ anch’io). Interessenterweise, la giornalista riporta un giudizio di Tommasini (vice presidente della Giunta, PD), il quale invita a “non accarezzare la tigre”. Il bersaglio dell’articolo è Riccardo Dello Sbarba, accusato di aver (lui!) fomentato il dibattito sulla Selbstbestimmung. Altrove si legge che questo dibattito sarebbe stato invece acceso da Karl Zeller. E pensare che noi siamo on line da almeno 4 anni…

Ho aspettato inutilmente

Mmm. Ho aspettato inutilmente finora per leggere in anticipo quel che Riccardo Dello Sbarba risponderà a Florian Kronbichler (quest’ultimo ha bastonato il primo sul Corriere dell’Alto Adige, domenica scorsa: leggi). Ma nulla. Mi toccherà alzarmi cinque minuti prima, domattina, e correre da Frau Hofer a comprare il giornale.

Identità

Il mio carattere nazionale, invece, è tutto bagnato. Il mio carattere sessuale scade alla fine di novembre. Il mio carattere geografico è più di là che di qua, ma sottoterra perché ogni  tanto passano i lombrichi. Il mio carattere statale spolvera bottiglie vuote in un supermercato. Il mio carattere politico si stropiccia gli occhi finché tengono le palpebre.  Il mio carattere inconscio dorme tra due guanciali di chiodi.  Il mio carattere conscio non lo sveglia mai. Il mio carattere musicale è uno sciroppo zuccheroso di aringhe affumicate. Il mio carattere privato è una montagna tibetana appoggiata su…su… Ce l’ho sulla punta della lingua ma non mi viene in mente. Il mio carattere di classe è andato a prendere le sigarette.  Il mio carattere storico tornerà verso le sei. (Non è pazzesco che questi bei caratteri non se ne escano fuori per rotolarsi in un parcheggio a pagamento?) Il mio carattere estetico non ce la fa più con tutti quei piedoni che gli camminano sul nervo ottico. Il mio carattere del cazzo, adesso che ci penso, si è proprio rotto i coglioni, porca troia. Il mio carattere linguistico non ha carattere. Il mio carattere professionale tiritera tirità. “C’hai mica tre euro da prestarmi?” si chiede il mio carattere economico. Il mio carattere religioso è nei baffi del mio gatto. Il mio carattere intellettuale, scalzo, rimprovera il mio carattere pratico perché ha le scarpe slacciate. Il mio carattere informatico. Eh? Informatico? Il mio carattere morale sta seduto in terrazza e aspetta che qualcuno gli offra il caffè.

Questa è la mia identità. Tra due minuti, quando la mia rasatura sarà perfetta, un po’ di cose saranno cambiate. (edz)

Presa dalla vita

PRESA DALLA VITA

 

Il finale di Roma città aperta è anche l’inizio di un racconto: i ragazzi che camminano a testa bassa lungo la via Nomentana hanno appena assistito alla fucilazione di Don Pietro e tornano in città. Secondo Gian Piero Brunetta, “tutte le successive strade visive del cinema italiano partono idealmente e materialmente da questo campo lungo, attraversato da un piccolo coro di figure silenziose che si avviano verso Roma in una luminosa mattina dell’estate del 1944”.

Uno di quei ragazzi invecchia precocemente e riappare sul grande schermo nel 1963. Siamo nel quinto episodio dei Mostri di Dino Risi, “Presa dalla vita”. Il ragazzo si chiama “signora Ceccarelli”, è vestito di nero ed esce dalla chiesa facendo il segno della croce.

 

 

“Guardi, adesso lei viene con noi, si fa una bella passeggiata, una bella mangiata, una bella bevuta e poi la riportiamo a casa. Va bene? D’accordo?”.  Caricata in macchina da quattro balordi, la signora Ceccarelli viene portata su un set cinematografico e spinta in piscina su una carrozzella.  “La vecchia come al solito non ha capito un cacchio,” dice il regista “comunque questa si stampa, va’. Metti  “riserva, buona la undicesima” e ora ne facciamo un’altra, così la vecchia rimbambita impara a nuotare. E che non faccia la deficiente, la buona vecchina. E che si tuffi con più slancio!”.

Questo è uno dei tanti momenti esatti in cui il neorealismo finisce nella commedia all’italiana. Non so voi, ma io in quella piscina ci sono nato. (edz)

A mente (semi)fredda

Vorrei tracciare in modo un po’ sciolto un piccolo consuntivo della discussione che si è originata questa settimana sul tema dell’autodeterminazione “di sinistra”. Stendo cioè una serie di appunti (e di spunti) che riprenderò magari con calma nei prossimi giorni.

1. Giovedì mattina, sul settimanale ff e sulla Tageszeitung due articoli hanno attirato l’attenzione. Il primo (Titelgeschichte dell’ff) era l’articolo di Norbert Dall’Ò costruito a partire dal mio contributo (non pubblicato) su BBD. Il secondo (intervista a Michi Hitthaler) presentava la richiesta disponibilità a parlare di autodeterminazione da parte degli Young Greens. Dal punto di vista mediatico l’inaspettata posizione dei “giovani verdi” ha suscitato molto clamore. E il clamore, purtroppo, tende a non rendere chiare le cose.

2. Un ruolo meritatamente centrale, in tutta questa vicenda, è stato assunto da Valentino Liberto, il quale ricopre diverse funzioni: è giovane (tanto da poter passare per uno degli young greens), è membro del Grüner Rat (quindi particolarmente vicino agli umori dei consiglieri provinciali e dei portavoce del partito), è un membro storico di BBD (e ne conosce dunque benissimo storia e risvolti, assieme a me e a Simon Constantini). Questa è – in prospettiva – una buona cosa.

3. Come detto, l’attenzione mediatica si è concentrata maggiormente sulle vicende interne dei Verdi (qualcuno ha parlato di conflitto generazionale). Ciò ha messo in ombra gli spunti più articolati che potevano essere desunti dall’analisi delle varie posizioni riportate dall’articolo di Norbert Dall’Ò. In particolare, sono alcune dichiarazioni di Francesco Palermo e di Karl Zeller a costituire il centro di un tema che dovrà essere sviluppato. E questo si riassume nella formula: l’autonomia dinamica è morta.

4. Abbastanza chiaramente è emerso il profilo di un “autodeterminismo” in profondo dissidio con quello classico (dirò à la Klotz, per capirci). Il fatto che la stessa Klotz si sia dimostrata esultante per quanto stava accadendo non deve colpirci più di tanto. È caratteristico dei gruppi appartenenti alla destra tedesca anteporre il fine ai mezzi. Basta cioè che qualcuno parli di “autodeterminazione” per farli felici. Ma il senso della proposta di BBD e degli young greens (sebbene questi ultimi non abbiamo mai prodotto una riflessione convincente a sostegno delle tesi ultimamente enunciate) di distacca in modo radicale da quella di Eva Klotz & co. Se la signora trecciuta lo capisse il suo entusiasmo sarebbe certamente più contenuto.

5. Un altro tema evidenziato con grande chiarezza è il ruolo degli italiani. Soltanto coinvolgendo ATTIVAMENTE gli italiani è possibile tornare a parlare di autodeterminazione. Questo il messaggio di BBD. Dalle dichiarazioni di Zeller pare di capire che non si tratti di un’impostazione velleitaria. Ma Zeller dovrà dimostrare in futuro di non ricorrere a questi argomenti in modo del tutto strumentale. Su questo punto io rimango un po’ scettico e pessimista.

6. Dal blog di Markus Lobis riprendo un articoletto di G. Heidegger che la dice lunga su quanta strada dovrà fare il gruppo linguistico tedesco (e il suo gruppo dirigente) per accettare un discorso autodeterminista interetnico e inclusivo. [Leggi]. In altre parole: chi pensa che siano solo gli italiani ad aver bisogno di convincersi, sottovaluta molto l’arretratezza dei tedeschi. Riflettere in modo innovativo sull’autodeterminazione implica la trasformazione di mentalità molto sedimentate e calcificate. In tutti i gruppi linguistici.

7. Torno sulla relazione mezzi/fini. Chi sostiene la plausibilità del modello autodeterministico secondo i principi di BBD deve essere consapevole che in questo caso sono i mezzi a giustificare il fine (e mai viceversa). In altre parole: la priorità assoluta NON È la secessione dall’Italia, ma la creazione di un CONSENSO tra i gruppi linguistici e l’evoluzione di forme di convivenza che possano maturare (verosimilmente sul lungo periodo) una scelta istituzionale più radicale di quella che implicitamente ogni giorno facciamo testimoniando il nostro apprezzamento per l’autonomia. In questo senso anche la discussione sul “Libero Stato” è solo un punto di fuga (uno tra i tanti) che può servire a tenere aperto il dibattito. Personalmente non escludo altre soluzioni (come ad esempio la creazione di un’unità regionale allargata al territorio del Tirolo storico).

8. A parte il fondo di Visentini (molto critico) mi pare che i giornali italiani abbiano completamente ignorato quanto sta accadendo. Una spiegazione c’è. L’articolo di Dall’Ò è lungo, quindi Carlo/Karl Berger sta facendo un po’ di fatica a tradurlo. Se tiene duro tra un mesetto si scatenerà un putiferio. (No! C’è un aggiornamento su questo fronte. Dalle parti del blog nazionalbolzanino qualcuno sta lentamente cominciando a capire… “C’è chi politicamente sta già lavorando per un coinvolgimento attivo del gruppo italiano per poter parlare di autodeterminazione dell’Alto Adige. Il comportamento messo in atto ultimamente da parte di Roma nei confronti dell’Ato Adige, non fa che accentuare il malcontento generale e trasversale a tutti i gruppi etnici”).

9. Tanto per smentire quel che ho appena scritto (e cioè che qualcuno stia realmente cominciando a capire…), è indubbio che il nostro prossimo lavoro sarà quello di cercare di rimettere la discussione sull’autodeterminazione sui giusti binari (tanto per fare un esempio concreto: gli argomenti A FAVORE dell’autodeterminazione non derivano o non devono derivare da un confronto con la situazione nazionale, non devono essere scambiati come argomenti anti-berlusconiani…). Simon Constantini bringt es auf den Punkt: “Am Gefährlichsten überhaupt finde ich jedoch diese plötzliche Selbstbestimmungshysterie, die auf uns zukommt, und die fast ausschließlich mit der desaströsen Politik der römischen Regierung begründet wird. Berlusconi kann zwar ein hervorragender Katalysator für eine Debatte um die Loslösung von diesem Staat sein. Doch ich fände es bedenklich, wenn er und seine Mannschaft der einzige oder der Hauptgrund für unsere Ziele wären. Wenn unser Antrieb von außerhalb kommt, und nicht vom Wunsch ausgeht, die festgefahrene Situation in unserem Lande zu verändern, indem wir eine mehrsprachige, postethnische und selbstbestimmte Zukunft anpeilen, dann befinden wir uns nach meinem Dafürhalten auf dem Holzweg. Genauso desaströs wäre es im Übrigen — gesellschaftlich wie politisch — bei einem eventuellen Wahlsieg von Mittelinks wieder von diesen Bestrebungen abzulassen. Doch genau dahin führt uns die zur Zeit vorherrschende Haltung”.

Se l’autonomia dinamica è morta

 

Nel suo editoriale pubblicato oggi sul Corriere dell’Alto Adige, Toni Visentini si è espresso in modo piuttosto perentorio sull’intero dibattito a sfondo autodeterminista che da qualche tempo ha ripreso vigore da molteplici punti di vista. Rifiutando però di assecondare questo trend (e dunque rifiutando di discutere in dettaglio il contenuto delle diverse opzioni messe sul tappeto di questa “Selbstbestimmungsrenaissance”), Visentini è costretto a dare ragione a chi pensa che la nostra autonomia sia perfezionabile con interventi solo cosmetici, senza metterne in discussione l’impianto o gli assunti di fondo. Un riconoscimento di validità senz’altro realistico, rispettabilissimo, ma forse insufficiente a comprendere che le preoccupazioni sulla tenuta dell’autonomia non dipendono tanto da alcuni “avventurieri”, “idealisti”, “opportunisti” o “sognatori”, ma si alimentano anche alla luce di contraddizioni molto concrete, interne ed esterne a questo sistema.

 

Nel lungo articolo del settimanale “ff” dedicato al “Sogno di uno Stato libero” (articolo all’origine della presa di posizione di Visentini), spiccava una frase attribuita a Karl Zeller: “l’autonomia dinamica è morta”. Questa frase si potrebbe anche parafrasare così: la dinamica autonomistica si è fermata, è giunta a un punto di stasi e potrebbe persino rischiare un’involuzione. Quindi – proseguiva il ragionamento del deputato Svp – c’è bisogno di un suo rilancio su basi innovative, magari proprio coinvolgendo in una fase di profondo ripensamento istituzionale anche gli italiani, finora sempre tenuti al margine o comunque relegati ad interpretare un ruolo secondario. Come si può capire si tratta di dichiarazioni molto interessanti, perché alludere a un maggiore coinvolgimento degli italiani (italiani che nel linguaggio autonomistico, non scordiamolo, rappresentano pur sempre lo “Staatsvolk” dal quale ci si deve difendere) significa veramente aprire le porte a un radicale mutamento dello status quo. Magari proprio tornando a riflettere sul senso di un’opzione (quella autodeterministica) che finora aveva costituito lo sterile repertorio della destra tedesca più anacronistica e nostalgica.

 

Ora, pensare di apportare modifiche radicali allo status quo deve necessariamente essere opera di “avventurieri”, di “idealisti”, “opportunisti” o “sognatori”? Davvero l’autonomia (questa autonomia) rappresenta l’unica soluzione in grado di corrispondere al carattere e alle aspirazioni delle popolazioni locali e va mantenuta a ogni costo, anche se la sua dinamica sembra interrotta? Perché non provare invece a reagire in modo creativo alle istanze che all’apparenza ci sembrano estreme, discutendone e saggiandone in modo sereno e disinibito l’orizzonte di possibilità? Morta o viva che sia, se la nostra autonomia è davvero la soluzione migliore, per non dire l’unica praticabile, saprà dimostrarlo.

Michele

È strano vedersi affibbiare un nome diverso dal proprio. In Sudtirolo, storicamente, ciò accadeva durante il fascismo, allorché i vari Michael, Lorenz, Lukas e così via diventavano Michele, Lorenzo, Luca e così via (certo, poi qualcuno cambiava anche da Silvio a Silvius, ma per scelta personale). Dunque Michele. Sono stato chiamato così in un articolo apparso oggi sul settimanale “ff”. Articolo in gran parte da me ispirato e forse addirittura redatto al posto della pubblicazione di un “Gastkommentar” che mi era stato richiesto. La versione del mio testo destinata (e cestinata) dall'”ff” la potete leggere [QUI]. Di seguito, invece, la versione italiana, leggermente difforme dal testo tedesco, ma ugualmente fedele al mio pensiero.

L’arrocco: gli italiani e la Selbstbestimmung

 

I limiti del nostro modello di convivenza. Solo fino a qualche anno fa proporre un collegamento tra questi due termini – italiani e Selbstbestimmung – sarebbe stato impensabile. Gli italiani avrebbero scosso il capo, ritenendo inopportuna, fastidiosa o persino pericolosa ogni riflessione al riguardo. I tedeschi avrebbero ripetuto che mantenere in vita il ricorso all’autodeterminazione è imprescindibile proprio per difendersi dall’ingerenza degli italiani nel governo di un’autonomia vista sempre come una Zwischenlösung, una soluzione provvisoria. Un simile scetticismo indica forse nel modo più nitido la radice della persistente diffidenza tra i gruppi linguistici e la mancanza di nuove “visioni” della politica locale. Per dirlo con una formula: in Sudtirolo si è riusciti a stabilire e perfezionare un modello di convivenza basato sulla reciproca sopportazione, piuttosto che su una felice integrazione.

 

Brennerbasisdemokratie. Se volessimo cercare un luogo, all’interno del discorso pubblico sudtirolese, nel quale trovi espressione un mutamento radicale di questo paradigma, un luogo cioè nel quale italiani e tedeschi abbiano ragionato e ragionino “insieme” sul nostro modello di convivenza – facendolo in modo critico, e non temendo di discutere anche dell’autodeterminazione come prospettiva di sviluppo per questa terra – dovremmo rivolgerci a un blog, una piccola piattaforma “on line” reperibile all’indirizzo www.brennerbasisdemokratie.eu. Qui, un gruppo di persone curiose di sperimentare nuove forme di dialogo (non a caso questa piattaforma è stata definita una “Diskussionsgemeinschaft” e rappresenta uno dei rarissimi spazi nei quali i partecipanti si esprimono in diverse lingue) ha cercato di mettere fuori gioco il richiamo agli opposti nazionalismi ancora largamente dominanti all’interno dei rispettivi gruppi d’appartenenza. Si è così ipotizzata la costruzione di un’identità “condivisa” e “indivisa”, per la quale il contributo degli italiani e dei tedeschi risultasse parimenti imprescindibile. Il tema esplicito degli interventi del blog ruota attorno all’idea di un Sudtirolo indipendente e post-etnico, e questo proprio al fine di superare – con una mossa che nel linguaggio scacchistico potremmo definire arrocco – un duplice impasse: il ruolo marginale assunto dagli italiani all’interno dell’autonomia e, in modo corrispondente, l’incapacità dei tedeschi di pensare al di fuori di schemi prevalentemente legati al bisogno di proteggere la propria specificità di minoranza “imprigionata” in uno Stato “straniero”.

Contro l’autodeterminazione di “destra”. Per illustrare il punto di vista innovativo di questa piattaforma è utile osservare il modo con il quale gli autori del blog hanno cercato di distinguere la loro proposta da quella degli autodeterministi classici, secondo i quali – com’è noto – l’unica cosa che conta resta il distacco dall’Italia, non curandosi affatto della ricaduta che a livello culturale e sociale una simile rottura comporterebbe. In un post intitolato “Dreh- und Angelpunkt” si legge: “I partiti della destra tedesca, che puntano all’indipendenza del Sudtirolo, non hanno compreso che una simile richiesta non può costituire, di per sé, un tema politico, ma ha bisogno di essere sviluppata e sostenuta mediante un progetto capace d’investire la nostra società nel suo complesso. In altre parole, non solo è sconveniente che i fautori di questo progetto si rivolgano contro una parte della popolazione qui residente, ma non possono permettersi neppure di postulare in linea di principio la sua esclusione. Proprio gli italiani rappresentano invece il punto di svolta e il centro di questo processo. Il distacco dallo Stato italiano potrebbe avere un senso solo se si riuscisse ad ottenere una pacificazione interna. Per questo motivo l’impegno profuso dai partiti della destra tedesca non è soltanto privo di prospettive, ma è addirittura controproducente. Ogni tentativo che non preveda esplicitamente il coinvolgimento di tutta la società, ogni progetto che non si preoccupi in primo luogo di eliminare le divergenze esistenti (divergenze che si danno o si darebbero allorché qualcuno si sentisse escluso o persino messo in discussione dagli altri) ci allontana dal fine che potremmo proporci: vivere insieme, disponendo di una pace duratura e della libertà di decidere il nostro destino.  L’indipendenza non si raggiunge pensando di riparare un torto, ma dando vita a qualcosa di completamente nuovo…”.

Confini interni e confini esterni. Ovviamente riproporre il tema dell’autodeterminazione (seppur seguendo un’impostazione innovativa e spiazzante come questa) implica anche una riflessione approfondita sulla questione dei confini, un passaggio davanti al quale proprio gli italiani hanno sempre avanzato le maggiori riserve. Eppure, la proposta della Brennerbasisdemokratie ci invita a pensare con nuove categorie anche questo ambito. Finora, infatti, il mantenimento dei confini “esterni” (nazionali) ha portato (nella nostra provincia) a un innalzamento dei confini “interni”, tra i gruppi linguistici. Volendo però rimuovere questi, non rimane che cercare di rendere più porosi o di ridefinire gli altri. In un altro contributo del blog si afferma: “Un Sudtirolo indipendente dagli stati nazionali (…) con un confine amministrativo nuovo e non ispirato alle logiche etniche o nazionali, ci permetterebbe di trovare le soluzioni ai problemi che abbiamo qui, in una terra plurilingue, così difficilmente governabile da Roma o da Vienna. Un confine debole, permeabile alle idee ed alle persone. Un confine dell’Unione, poi, che dia sicurezza a chi cerca rifugio, e che accolga chi si trova in difficoltà. E, soprattutto, una sovrapposizione di confini diversi, che non combacino mai, tra quelli statali, linguistici, culturali o di collaborazioni transfrontaliere sempre nuove. Un concetto elastico di confine, un suo sfocamento. Per raggiungere questo traguardo, non serve riposarsi sugli allori dell’autonomia, e nemmeno sperare nella scomparsa dei confini in generale, che sicuramente non potrà avvenire nei prossimi secoli. Sembra invece molto più utile partecipare attivamente alla loro ridefinizione, un ruolo al quale il Sudtirolo può ambire. E l’emancipazione dagli stati nazionali non può che essere il primo passo”.

Parole coraggiose. Proporre il tema dell’autodeterminazione agli italiani, come ho detto all’inizio, è sembrato finora un tentativo votato allo scacco. Ma è un fatto che nessuno aveva mai cercato di coinvolgerli sul serio e in modo costruttivo. Quando ciò accade, ci si può sorprendere di vedere avanzare riflessioni più ardite. Recentemente, è stato l’ex presidente del Consiglio Provinciale Riccardo Dello Sbarba (di solito sempre molto prudente e realista) a indicare, in una serie d’interventi pubblicati sul suo blog (http://riccardodellosbarba.wordpress.com), quali sarebbero i punti discriminanti per rendere plausibile un riesame della questione autodeterministica:

“1. L’idea di una regione europea aperta e plurilingue di diverse culture, esperienze, storie tutte dotate di uguale dignità e diritti; 2. La promessa dell’abolizione di ogni logica e misura di separazione etnica: un unico sistema scolastico plurilingue, la fine dei partiti etnici, il principio della cittadinanza universale e uguale; 3. Il riconoscimento di un Heimatrecht uguale per tutte le persone che vivono sul territorio di questo “Stato libero”. Ciò vuol dire che la terra non appartiene a nessuno, ma a tutti (a Dio, dicevano i medioevali), che non ci sono primi arrivati e ultimi arrivati, che non ci sono proprietari e ospiti. Ciò vuol dire che ogni decisione politica su questa strada la prendono tutti e tutte, senza sbarramenti dovuti alla anzianità di residenza; 4. Rinuncia alla violenza e alla glorificazione della violenza; 5. Immediata cessazione di ogni provocazione. La strada per l’autodeterminazione, se questa vuol convincere gli italiani, non può passare per le marce e la richiesta di abbattere i monumenti, ma per il rispetto della storia e dell’esperienza di ciascuno, che va contestualizzata, resa testimonianza di una educazione alla democrazia, ma non rasa al suolo”.

 Come si vede, si tratta di parole coraggiose, che meriterebbero almeno una discussione più ampia. E soprattutto sono parole di un “italiano”, in grado di rendere l’autodeterminazione un modo per coinvolgere tutti i gruppi linguistici in un progetto che necessariamente è (o può essere) solo comune.