Lunedì mattina la notizia ha gettato tutti quelli che lo conoscevano e lo apprezzavano prima nell’incredulità e poi, trovate le conferme, nello sconforto. Alessandro Leogrande, il giovane (appena quarantenne) giornalista e scrittore tarantino – autore di innumerevoli articoli, inchieste e di alcuni preziosi libri sui più urgenti temi di attualità – è stato colto da un malore e la sua vita si è spezzata. Si trovava nella sua casa di Roma, appena tornato da un evento a Campi Salentina, in provincia di Lecce. Uno dei mille eventi ai quali in questi anni aveva partecipato per parlare di libri (non solo suoi) e attraverso quei libri della realtà. Perché la cosa principale da dire è questa: Leogrande era (e resterà) uno di quei preziosi intellettuali che non intendono il proprio lavoro come un esercizio di esibizionistica intelligenza, ma si dispongono ad ascoltare le voci del mondo, in particolare le voci della sofferenza del mondo, per comprenderle e cercare il modo migliore di diffonderle.
Chi non lo conosceva potrà adesso recuperare cercando nel vastissimo lascito, nei suoi tanti lavori reperibili in rete o in libreria. Tra questi è particolarmente significativo per noi rimandare alle bellissime pagine del capitolo “Vedere, non vedere, 3” incluso nel volume “La frontiera” (Feltrinelli), che fu presentato al Centro Trevi di Bolzano il 18 giugno del 2016. Leogrande qui riesce a raccontare la nostra città grazie a un colloquio con un suo amico curdo, conosciuto anni prima a Roma. La mossa sembra casuale, o solo funzionale a svolgere il tema del libro (che tratta di migrazioni), esplica invece un metodo universale. Esistono decine di giornalisti che hanno visitato questa provincia arrivando carichi di pregiudizi, ansiosi di riprodurli intervistando solo coloro che sono in grado di confermarli. Vengono, parlano e scrivono senza capire veramente, e quando ripartono la loro traccia si perde come se fosse stata impressa sull’acqua.
Leogrande rovescia alla radice questo modo di fare, pone immediatamente fuori gioco gli automatismi interpretativi più vieti. L’amico curdo gli offre cioè quel punto di vista che gli consente di raggiungere l’essenza delle cose. Ecco la frase rivelatrice: “A volte penso che sia meglio non essere né italiano, né tedesco. Se sei un immigrato, allora forse puoi trovare uno spazio tuo”. Qui trova una eco potentissima la grande lezione di Alexander Langer (uno dei punti di riferimento di Leogrande), il quale insegnava a porsi al di sopra delle linee di frattura che lacerano o hanno lacerato un territorio, proprio per analizzare meglio e più in profondità la logica delle sue stratificate contrapposizioni. Ecco perché Bolzano, la Bolzano di oggi, emerge con maggiore chiarezza adottando la prospettiva “straniera”, come quella non integrata o non pienamente integrata di un profugo che vende kebab e pizza dietro Piazza Vittoria. Un po’ come tornare a vedere scorrere la storia, mentre i suoi vecchi protagonisti hanno tentato inutilmente di raggelarla.
Corriere dell’Alto Adige, 30 novembre 2017