Clandestini per un giorno

Cronaca di una breve incursione turistica in Bosnia-Erzegovina, tra confini diventati liquidi o ancora persistenti, accompagnati da Joseph Roth e Alexander Langer.

Anche a non saperne nulla, o a non volerne sapere nulla, il turista che oggi lascia la bellissima costa dalmata per compiere una breve deviazione verso l’interno, direzione Bosnia, si accorge di cosa significhi attraversare un limite “duro”. Mentre infatti il passaggio verso sud-est, provenendo da Trieste, è privo di intoppi e le due frontiere – quella slovena, prima, e quella croata, poi – scorrono dai finestrini delle auto senza che queste diminuiscano di troppo la loro velocità, quando ci si affaccia oltre la linea di Schengen le cose cambiano. Occorre fermarsi, tirare fuori i “papiers”, percepire di nuovo la fastidiosa inquietudine che ci prende allorché siamo sottoposti a un esame. Inquietudine dalla quale noi, abitanti di un confine ufficialmente abolito, ci siamo per fortuna emancipati senza però apprezzare come dovremmo la fortuna che abbiamo.

Proprio da turisti, lo scorso 27 luglio, avevamo lasciato il nostro luogo di vacanza sul mare, tra Split e Makarska, con l’idea di toccare le cascate di Kravica e poi la città di Mostar, il capoluogo dell’Erzegovina-Narenta. Non era un viaggio programmato. In realtà si trattava di un proposito estemporaneo, diciamo pure solo un tentativo, perché con me e la mia compagna c’era sua figlia, di 8 anni, della quale avevamo scordato la carta d’identità in Italia (in extremis ci eravamo fatti spedire la fotografia dal padre, tanto per avere qualcosa da mostrare). «Nella peggiore delle ipotesi – ci siamo detti – facciamo dietrofront e rinunciamo». Invece è accaduto qualcosa d’imprevisto. I controlli si sono rivelati tutt’altro che accurati, e nessun funzionario ha scoperto che in macchina eravamo in tre, sprovvisti di un documento. A me non è venuto spontaneo evidenziare la svista, così siamo sgusciati un po’ clandestinamente al di là della sbarra.

L’ostacolo appena superato mi ha fatto ripensare a una storia che narra Joseph Roth, nel racconto “Die Büste des Kaisers”. La riassumo brevemente. Il conte Franz Xaver Morstin, ufficiale dell’impero austro-ungarico e fedelissimo suddito di Franz Josef, è molto orgoglioso di poter vivere in un contesto geo-politico multietnico e “aperto”. Mostrin – ci dice Roth – non avrebbe compreso la questione relativa alla propria nazionalità, perché prima che quell’impero si dissolvesse, una domanda simile avrebbe avuto poco senso: «Hätte man ihn zum Beispiel gefragt aber wem wäre eine so sinnlose Frage eingefallen? –, welcher “Nation” oder welchem Volke er sich zugehörig fühle: der Graf wäre ziemlich verständlichlos, sogar verblüfft vor dem Frager geblieben und wahrscheinlich auch gelangweilt und etwas indigniert». L’incomprensione annoiata, indignata del conte assume una tonalità ben più amara dopo la fine della prima guerra mondiale, quando non solo il principio di nazionalità si è ormai imposto ovunque, dettando nuovi ordinamenti e regole di comportamento. Proprio in esso, infatti, è possibile scorgere il motivo del crollo del suo amato impero. A quel punto, volendo egli lasciare la Polonia, necessita di documenti, passaporti o visti, per spostarsi all’interno di un territorio frammentatosi ormai in piccoli pezzi. Secondo lui, scrive ancora Roth, passaporti e visti, erano formalità corrispondenti a “phantastische und kindliche Träume”, sogni fantastici e infantili ai quali però ci siamo presto tutti assuefatti, obbligandoci a tenere in tasca tessere di riconoscimento in grado di non farci fermare da guardiani un po’ più solerti di quelli che abbiamo trovato noi tra Croazia e Bosnia.

Anche la ex-Jugoslavia, come l’impero austro-ungarico, era un cosiddetto “Vielvölkerstaat”. E proprio la Bosnia, in una campata che abbraccia quasi tutto il “secolo breve”, assume il triste ruolo di epicentro dei nazionalismi laceranti, in cui cioè l’armonizzazione di popoli diversi all’interno di una cornice più ampia si è sfaldata mediante indicibili massacri. Chi volesse ripercorrere a volo d’uccello tutta questa vicenda, che connette gli anni Novanta agli spari di Gavrilo Princip contro Franz Ferdinand e sua moglie Sofia, legga il bel libro di Eric Gobetti, “Sarajevo rewind. Cent’anni di Europa” (Miraggi edizioni, 2016). Parlando di Mostar, città che noi raggiungiamo per una breve visita, quasi un saluto, in un caldo pomeriggio di luglio del 2023, Gobetti annota: «Mostar […] finisce per essere devastata dalla guerra, spezzata in due. Da una parte i croati, che dall’alto cannoneggiano la città vecchia, dall’altra i musulmani, stretti nei vicoli attorno allo Stari Most, che viene colpito e abbattuto dall’artiglieria croata il 9 novembre 1993. Esattamente quattro anni dopo l’abbattimento ufficiale del muro di Berlino. Oggi […] Mostar resta una città divisa, se non ufficialmente, per lo meno nella mente dei suoi cittadini. Il ponte Vecchio-nuovo pare incongruo nella sua sfavillante bianchezza, in quella città sacrificata. È un modellino per turisti, non è più un simbolo identitario per la città: certamente non è più un simbolo unificante».

Agli occhi di un sudtirolese, anche se acquisito, come sono io (o per meglio dire: agli occhi di un altoatesino propenso a tradire la compattezza della sua presunta parte), il ponte di Mostar in luglio, tra noi turisti che ci accalchiamo su quel “modellino” a seguire i famosi tuffi nel fiume, e distrattamente notiamo i segni dei proiettili e delle distruzioni su molte facciate dei palazzi intorno, fa pensare inevitabilmente ad Alexander Langer, ai suoi ultimi sforzi rivolti ad accendere una fiaccola di speranza nelle tenebre. Per Langer, come scriveva nel suo accorato appello a ridare vita all’Europa davanti al baratro mortale che si era riaperto proprio a Sarajevo, si trattava – allora come sempre – di trovare una linea di demarcazione tra le politiche orientate all’esclusivismo etnico e quelle della convivenza, «senza che trovarsi in una minoranza debba essere una disgrazia cui fuggire quanto prima attraverso la costituzione di un’entità in cui si sia maggioranza» (cfr. “Quei ponti sulla Drina. Idee per un’Europa di pace”, infinito edizioni, 2020). Compito purtroppo ancora irrealizzato sulle rive della Neretva, ma che pure sarebbe inopportuno ritenere di aver svolto in modo definitivo su quelle del Talvera o dell’Adige.

Ripiegando verso la Croazia, prima di sera, ci tocca affrontare di nuovo la frontiera furbescamente oltrepassata poche ore prima. Stavolta, però, va in modo diverso. Il funzionario croato si accorge che tra il numero dei passeggeri (nel frattempo siamo diventati cinque, perché al ritorno erano saliti anche i miei figli recuperati a Kravica) e quello dei documenti c’è una discrepanza: all’appello manca una carta d’identità. Ci ordina di accostare. Trascorrono alcuni minuti, non troppi in verità, poi un altro funzionario viene verso di noi con la faccia contrariata. Non riesce a spiegarsi come sia stato possibile. Quando gli dico che siamo entrati in Bosnia senza problemi e comunque abbiamo sul cellulare la foto della carta d’identità mancante, mi rimprovera, assomigliandomi a un cliente del supermercato che prende un prodotto e non lo paga grazie alla disattenzione di una cassiera. Insomma, deve sentire il suo “boss”, avvertendomi che la bambina sprovvista di documenti potrebbe anche essere stata rapita, quindi rischiamo di essere convocati in una stazione di polizia. Forse sarà addirittura necessario contattare l’ambasciata italiana e risalire direttamente al padre. Ritorna con aria più distesa. Evidentemente l’appartenenza al “Vielvölkerstaat” liquido dei turisti distratti è troppo palese per subodorare imbrogli più gravi. Ci esorta a non riprovarci. Non fossimo stati turisti, ma migranti, o anche locali costretti a spostarsi per lavoro avanti e indietro su quel solco che, nel cuore d’Europa, ancora divide il mondo in bianco e nero, di certo non sarebbe andata così liscia.

ff – 10 agosto 2023

Aggirare il tabù

Le prossime elezioni provinciali, che si terranno in ottobre, sono ancora abbastanza distanti. Ma non così tanto da rendere troppo avventurose alcune ipotesi sulla formazione del governo locale che ci aspetta. A tal proposito la domanda che tutti gli osservatori si stanno facendo è la seguente: la Svp – perché ancora sembra scontato che la Stella alpina costituisca l’asse portante dell’esecutivo, Thomas Widmann e le convulsioni da lui generate permettendo – si alleerà con la destra afferente alla tradizione post-fascista, vale a dire il partito di Giorgia Meloni? In altre parole, dopo aver digerito piuttosto bene l’appoggio della Lega, è plausibile che la proverbiale duttilità del partito di raccolta si appresti adesso a includere anche una formazione, come Fratelli d’Italia, sulla quale, almeno in passato, si sarebbe automaticamente mobilitata una sorta di conventio ad excludendum?

Per rispondere è utile rievocare dei precedenti, che servono almeno a sgombrare il campo da un fragile equivoco: la relazione tra determinati gruppi dirigenti sudtirolesi e il fascismo (quindi, in prospettiva e a fortiori, anche con il post-fascismo) non è ostacolata da un tabù inaggirabile. Come se, insomma, si trattasse di mescolare sostanze reciprocamente repellenti. Sul numero 28/23 del settimanale “ff”, il politologo Günther Pallaver ha indicato una serie di esempi illuminanti. Quattro giorni prima delle elezioni parlamentari del 1921 – nelle quali i Fasci italiani di combattimento si presentarono assieme ai liberali, eleggendo 35 deputati, tra i quali Benito Mussolini – il “Corriere della Sera” chiese un’opinione anche al bolzanino Friedrich von Toggenburg (in passato governatore del Tirolo-Voralberg, quindi ministro dell’interno dell’Impero austro-ungarico e infine deputato a Roma tra le file del Deutscher Verband). Bene, a distanza di sole tre settimane dall’assassinio di Franz Innerhofer, l’esponente politico sudtirolese non mostra particolare ostilità nei confronti di chi aveva causato il Blutsonntag e l’omicidio dell’insegnante di Marlengo. “Se fossi italiano – questa la dichiarazione di von Toggenburg passata alla storia –, probabilmente sarei fascista”. Un caso isolato, da ritenere ininfluente in quanto anteriore alla reale presa di potere da parte dei fascisti?

Sempre nell’articolo citato, si rievoca un accordo che le camice nere, nella figura del segretario di partito Luigi Barbesino, avrebbero voluto concludere nel 1923 con alcuni rappresentanti del Deutscher Verband (in prima fila sempre von Toggenburg) al fine di evitare qualsiasi richiesta di revisione del confine del Brennero. In cambio i sudtirolesi avrebbero ottenuto il mantenimento della scuola tedesca, il riconoscimento dell’ufficialità della loro lingua e altre garanzie di tipo economico. L’accordo non si fece – allora maturò l’opposizione di Eduard Reut-Nicolussi, una specie di antesignano di Julia Unterberger? –, eppure già l’esistenza della trattativa (peraltro piuttosto spiccia, in sede preliminare) dimostra che tra le parti non mancavano interessi, se non comuni, accomodabili.

A 100 anni esatti di distanza, adombrati da un sondaggio della “Südtiroler Wirtschaftszeitung”, quegli antichi segnali ritrovano vigore nell’orientamento dei sudtirolesi di oggi: il 62% degli intervistati (parliamo di cittadini di lingua tedesca) si dichiara abbastanza o comunque soddisfatto del lavoro del governo Meloni. E tra gli elettori della Svp la percentuale sale al 64%. Tutte persone, conclude ironicamente Pallaver, che “se fossero italiane voterebbero Fratelli d’Italia”. O perlomeno, ci permettiamo di aggiungere, potrebbero aggirare il presunto tabù e non disdegnare troppo la loro presenza all’interno di una giunta provinciale che adesso si annuncia molto più carica di incognite rispetto al passato.

Corriere dell’Alto Adige, 25 luglio 2023, Pubblicato con il titolo “Quel tabù che crea scompiglio”.