Il dolore diventa visibile

Il 18 giugno si è chiusa pubblicamente una delle vicende più tragiche alle quali ha assistito la città di Bolzano, e anche fuori di lei, oltre il suo raggio, ché nel tempo della comunicazione globale ogni luogo non solo risulta vicino, bensì contiguo e addirittura interno a un altro. Una coppia, Peter Neumair e Laura Perselli, strappati alla vita da un omicidio eseguito dal loro figlio maggiore, Benno, il quale prima ha negato ciò che aveva fatto, e poi, ma solo quando gli indizi a suo carico non gli davano più scampo, e soprattutto quando sono stati ritrovati i cadaveri dei suoi genitori, ha fornito una confessione utile a confermare tutti i riscontri.

Ma un omicidio come quello commesso da Benno Neumair non può essere ridotto alla dinamica dell’esecuzione, e neppure il contorno del suo movente (sia questo occasionale o stratificato da una serie di accadimenti pregressi, che affondano nella storia di una famiglia) riesce a spiegare ciò che vorremmo venisse spiegato, magari illudendoci che la razionalità nella quale supponiamo di avere piena cittadinanza possa fornire un argine ai suoi effetti più nefasti e corrosivi. Possiamo ricostruire, documentare e sapere cosa successe, quel lontano giorno del 4 gennaio, eppure lo stupore affranto scaturito all’indomani di quella strana scomparsa, e poi la certezza che fosse accaduto qualcosa di terribile, non si dissiperà mai, riattivando il colpo di mille recriminazioni e di mille dubbi impossibili da sciogliere. Qui, chi osserva, avrà il tatto di lasciare i congiunti e gli amici più stretti al difficile lavoro del lutto. E al colpevole l’ancora più arduo compito di una rielaborazione che neppure la giustizia più giusta riuscirà a evitare che si affermi (posto che una cosa del genere si possa affermare) all’interno dell’oscuro labirinto della sua coscienza.

Dicevamo però della chiusura pubblica della vicenda, almeno in questo primo tratto. Il funerale dignitoso e commosso celebrato nel Duomo cittadino ha avuto la funzione di un suggello che non esibisce il dolore, ma lo compone su uno schermo visibile. In modo proficuo, tale visibilità è servita anche a erigere una barriera di ritegno alla curiosità morbosa che nelle settimane e nei mesi passati si è cibata di tutto. Il rito, le parole degli intervenuti, e soprattutto quelle di Madè, la figlia della coppia, hanno dimostrato che il dolore, per essere metabolizzato, può mostrarsi sul versante che alla fine tocca tutti. Ha cercato di ripercorrere il suo strazio personale, Madè, rammentando una nevicata già densa di cordoglio, nel chiarore notturno del cielo di Monaco di Baviera, e rivolgendosi ai corpi dei genitori racchiusi nelle bare stese davanti a lei, ricordando di aver chiesto e quindi chiedendo di nuovo ripetutamente “dove siete?”. E la risposta che è risuonata (“adesso siete ovunque”) ha rappresentato in modo dolce la cognizione di una separazione velata dal mistero di una morte non solo superabile dalla cecità della fede, ma dalla comprensione illuminata che siamo alla fine parte di un tutto più grande, che ci avvolge e ci consola. Nobiltà del dolore e della conoscenza, più forte di ogni miseria, persino di ogni efferatezza. Nobiltà di un’intimità che sopravvive alla lacerazione e decide di abitarla per riconsegnarci, nell’unico modo possibile, chi abbiamo perduto.

Corriere del Trentino / Corriere dell’Alto Adige, 19 giugno 2021

Il grande errore di Heidegger

“Forse solo i miei errori hanno ancora la forza d’urto in un’epoca sovraccarica di correttezze cui però la verità manca da tempo” (Quaderni neri 1931-1938 – Riflessioni V – 150)

Ho cominciato a leggere Heidegger alla fine degli anni Ottanta. A quel tempo era un filosofo di moda, soprattutto in Italia (in Germania, per esempio, lo leggevano meno e questo fatto – ingenuamente – mi colpì molto quando io andai in Germania anche sulla scia delle mie letture heideggeriane). Ma in cosa consisteva questa moda? Uno dei massimi artefici del predominio di Heidegger negli anni Ottanta poggiava sulla particolare lettura che ne davano alcuni filosofi italiani di successo in quel tempo. Primo fra tutti Gianni Vattimo, il quale proponeva anche una sua caratteristica interpretazione “di sinistra” dell’Heidegger ermeneutico e post-nietzscheano (non esistono fatti, ma solo interpretazioni… insomma quella roba là). Un’altra componente di questa moda era data dal fatto che, allora, quasi tutta la filosofia che andava per la maggiore era comunque filosofia del linguaggio, quindi anche Heidegger (il cosiddetto “secondo Heidegger”) rientrava un po’ in questa koiné, con tutto il suo caratteristico etimologizzare e l’affidarsi ai poeti che gli servivano per costruire la sua tipica “Casa dell’Essere”. Sottrarsi a questo fascino non era semplice. Lo si poteva fare sostanzialmente in due modi: occuparsi di filosofi estranei al (o non così influenzati dal) pensiero tedesco degli ultimi 100 anni (quindi buttarsi magari sugli anglosassoni); occuparsi di filosofia antica o moderna fino al confine dell’idealismo speculativo (diventare insomma degli specialisti di epoche remote). Comunque, dopo aver letto per anni (una decina) Heidegger io me ne sono stufato. Mi ricordo che già scrivendo la tesi di laurea (che ruotava intorno alle interpretazioni heideggeriane di Hölderlin) il “gergo” del pensatore di Meßkirch mi tediava sempre di più e – tanto per dire – fu il pensiero di Hölderlin a farmi capire che l’interpretato era davvero più interessante del suo interprete (per dirlo meglio: dopo aver subito il fascino di Hölderlin alla luce dell’interpretazione heideggeriana capii che c’era tutto un mondo che quell’interpretazione, seducente fin quanto si vuole, in realtà soffocava). In quel tempo leggevo anche molto Wittgenstein e (in modo molto sbrigativo, me ne rendo conto) a un certo punto mi misi a decostruire Heidegger attraverso Wittgenstein, in questo influenzato molto dagli studi di Karl Otto Apel. Insomma, a un certo punto mi parve che Heidegger fosse un trombone insopportabile e lo abbandonai. Poi smisi anche di occuparmi di filosofia.

Questa lunga premessa potrebbe anche finire qui, però non posso farla finire qui perché volevo dire un’altra cosa e quindi la dico adesso, anche se male. Uno dei motti di Heidegger, uno dei più citati, è: Wer groß denkt muß groß irren (chi pensa in grande deve sbagliare in grande). È una frase in cui viene bene fuori il limite di Heidegger (e si potrebbe notare, di passata, che errore qui non richiama soltanto l’errare sui sentieri interrotti del pensare “a venire”, ma l’orrore del nazionalsocialismo mai ricusato). Prima di tutto non ha il buon gusto di essere formulata almeno come domanda (chi pensa in grande deve proprio sbagliare in grande, cioè accompagnare questo suo grande pensiero da grandi errori?). Oggi direi che forse sarebbe meglio pensare un po’ meno in grande e fare meno errori. Ma c’è di più. Nella frase quello che viene prima pesa di più, è come se al “grande pensiero” (e al grande pensatore) si dovesse perdonare il “grande errore”. Beh, non sono d’accordo. Ci sono errori che non solo non sono perdonabili, ma che contribuiscono a ridurre di molto la portata del grande pensiero che li ha prodotti, e quindi non possono essere visti solo come una scoria, bensì come un peso che fa affondare anche il pensiero stesso. Con l’adesione di Heidegger al nazismo (e l’abbiamo capito: adesione non episodica o strumentale ma addirittura convinta, prolungata e persino chiarificatrice di alcuni gesti fondamentali del pensiero filosofico più apparentemente “depurato” dal tempo in cui è maturato) le parole del filosofo si svuotano, anzi diventano quasi oscene, e tutta questa storia dei popoli che attraversano la storia della Metafisica (questo passaggio dall’egemonia di un popolo all’egemonia di un altro popolo che “è” la Metafisica) assomiglia a un pessimo racconto infarcito di semplificazioni insopportabili e puerili herderismi (un barlume di consapevolezza, ancora dai Quaderni Neri: “Il pensatore? Un grande bambino- che pone grandi domande”). Alla fine quello che Thomas Bernhard scriveva di Heidegger in “Antichi maestri” (“… diesen lächerlichen nationalsozialistischen Pumphosenspießer”), bisogna dirlo, è la percezione più lucida che sia mai stata data della filosofia di questo “Meister aus Deutschland”.

La materia di Dante

Da giugno a novembre Bressanone ricorda il settimo centenario della morte del grande poeta fiorentino con una mostra di Markus Vallazza e una serie di incontri ispirati alla Divina Commedia.

In un breve e illuminante saggio intitolato Conversazione su Dante (di recente riedito in italiano dal Melangolo) il poeta russo Osip Mandel’štam ha scritto: «Se davvero ascoltassimo Dante, c’immergeremmo in un flusso d’energia ora denominato composizione – quando è preso nel suo insieme, ora metafora – quando lo si considera in un suo particolare, ora similitudine – quando è colto nella sua elusività: un flusso che genera definizioni al solo scopo di riassorbirle, perché lo arricchiscano di questo loro sciogliersi e, non appena conquistata la prima gioia del divenire, perdano immediatamente la loro primogenitura, associandosi alla materia che irrompe tra i significati e li trascina via». L’indicazione è preziosa. Esiste dunque una materia che avvolge e sostiene i significati isolabili (le figure) all’interno dell’opera, una materia che si manifesta come un perenne fluire, suscitando senza posa le sue provvisorie cristallizzazioni. Per comprendere e “illustrare” questa materia fluente non c’è altro metodo che lasciarsene attraversare, possibilmente con l’aiuto di linguaggi anch’essi resi fluidi nell’accostarsi alle parole del poeta. Esattamente questo è quanto riuscì all’artista sudtirolese Markus Vallazza (1936-2019) con un ciclo di meravigliose incisioni eseguite tra la fine del 1993 e l’anno 2000, adesso esposte all’Hofburg di Bressanone in una mostra – splendidamente curata dalla figlia Alma Vallazza e dalla poetessa Roberta Dapunt – visitabile fino al 7 novembre 2021 negli spazi del Museo Diocesano.

Wieland Schmied, che assieme alle curatrici citate e a Peter Schwienbacher firma uno degli interventi del catalogo dell’esposizione, ricorda l’occasione che spinse Vallazza a concepire, assai precocemente, il suo viaggio nel viaggio dantesco: «Già al primo approccio con l’Inferno di Dante negli anni Ottanta, Markus Vallazza ebbe un’esperienza simile a quella che Robert Rauschenberg ebbe un quarto di secolo prima. Quasi ogni giorno si ripresentava l’attualità delle visioni di Dante. Non riusciva a liberarsi delle immagini spontanee che dicevano: l’Inferno di Dante è qui, ora. Bastava accendere il televisore, sfogliare una rivista, aprire un giornale, a volte bastava un giro in un distretto di Berlino come Kreuzberg, Wedding o Neuköln, per essere aggredito da immagini impossibili da dimenticare». Tornano in mente le parole di Italo Calvino, apposte alla fine del suo libro Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». All’opposizione calviniana ricavata come strategia per sopravvivere all’inferno in cui abitiamo, però, Vallazza aggiunge una terza possibilità creativa, che potrebbe essere intesa anche come risposta al “salmo postconviviale” tramandatoci dallo Zarathustra di Nietzsche, altro autore da lui molto frequentato: «Die Wüste wächst: weh dem, der Wüste birgt!». Se alberghiamo in noi deserti ed inferni occorre farsene carico proponendo una cartografia che sappia esorcizzarne gli effetti, fino a intravedere il faticoso passaggio che può portarci “a riveder le stelle”.

Ancora dal testo di Mandel’štam ricaviamo due spunti “virgiliani” (derivanti quindi dalla sua funzione di “guida”) adattabili al lavoro di Vallazza. Se il pensiero di Dante, come quello di ogni grande poeta, è essenzialmente metaforico, esso si realizza seguendo il principio di una convertibilità o conversione estendibile ad libitum. Si veda ad esempio la descrizione che il poeta compie parlando di Gerione (Canto XVII dell’Inferno), il “mostro da trasporto” che ha il compito di trasferire i due viandanti nell’ottavo cerchio. «La figura della convertibilità – spiega Mandel’štam – si disegna più o meno così: ghirigori e piccoli scudi sulla variegata pelle tartara di Gerione – tappeti di seta con arabeschi, gettati sui banchi di un bazar del Mediterraneo – prospettiva marinara, mercantile, bancario-piratesca – prestito a usura e ritorno a Firenze per mezzo dei sacchetti araldici con piccole immagini dai colori freschi e inusitati – brama di volo suggerita dagli arabeschi orientali, che volgono la materia del canto verso la novella araba con la sua tecnica del tappeto volante – e, infine, secondo ritorno a Firenze grazie al falcone, insostituibile proprio in quanto non necessario». Per slittamenti successivi, scomposizioni e ricomposizioni continue, le immagini gemmano ulteriori immagini, in un crepitio musicale che diventa poi un “prodotto calligrafico, risultato inevitabile dello slancio dell’esecuzione”; convertibilità e conversione, dunque, ma anche (ed è esattamente qui, cogliendo il secondo spunto, che s’inserisce la resa figurativa così contemporanea di Vallazza) densità mineralogica di materia stratificata e cangiante: la poesia (nel senso etimologico di ποίησις) come “lampada di Aladino che penetra l’oscurità geologica dei tempi storici a venire”. Non c’è allora modo migliore di cominciare la visita della mostra accostandosi alla impressionante lastra del 1995 intitolata “Il regno di lucifero” (la troverete subito all’ingresso, prima di accedere ai piani superiori dove sono esposte le tavole dedicate alle tre Cantiche), dalla quale Vallazza ha tratto dodici incisioni mutevoli, mettendo cioè in risalto particolari sempre diversi, fino a spegnersi progressivamente in un sinistro baluginio di segni graffiati nel buio, che spingono l’evocatività al suo massimo e anticipano il messaggio più personale dell’autore: «Un viaggio per così dire all’insegna del motto “La luce scaturisce dalle tenebre”, ma anche l’odissea per conoscermi meglio».

Parallelamente – o per meglio dire intorno – alla mostra “L’opera nell’opera” di Markus Vallazza, le curatrici hanno allestito un vario programma di incontri dal titolo “Cred’io ch’ei credette ch’io credesse” (Ich glaube, er glaubte, ich würde glauben), incontri mediante i quali il settimo centenario della morte del poeta fiorentino verrà celebrato in un modo decisamente encomiabile (e per certi versi sorprendente, sia per qualità che per quantità) da parte dell’Alto Adige e della città di Bressanone. Tra gli appuntamenti principali – per il cartellone completo rimandiamo al sito dell’Hofburg o al depliant che si può ritirare visitando la mostra – citiamo qui solo la presentazione del volume di Simone Marchesi e Roberto Abbiati (A proposito di Dante, edizioni Keller), il 20 luglio, il film Idi i smotri (Komm und sieh) del regista Elem Klimov, il 23 agosto, e la conferenza di Hannes Obermair, il 7 settembre, sull’uso fatto dai nazionalismi contrapposti delle figure di Dante e Walther von der Vogelweide. «La Divina Commedia – ha scritto Roberta Dapunt nelle note di presentazione delle iniziative – ci parla oggi con voce del passato e mette in sodalizio universale noi moderni e gli antichi. E ci sorprende quanto l’aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità sia uguale, ora come prima. Eppure il disorientamento che si presenta di continuo. Dante e noi. Il Credo quotidiano di essere nel giusto, la convinzione di sapere come, di non fallire, nella consapevolezza della reale situazione in cui ci troviamo rispetto al tempo, allo spazio e ancora di più al proprio io. Ci rimane l’esperienza dell’inabilità all’uguaglianza, poiché la capacità di essere cittadini del mondo è una disciplina che non abbiamo imparato». Forse, si potrebbe appena ritoccare, è una disciplina che non abbiamo ancora imparato, ed è per questo che occorre continuare ad apprenderla, approfittando soprattutto di occasioni come queste.

ff -10 giugno 2021