Se il miglior Schüttelbrot è di Mohammed

Il commento migliore all’approvazione della legge sull’integrazione che è stata votata pochi giorni fa dal Consiglio provinciale l’aveva fornito in anticipo l’Associazione dei panificatori locali, riconoscendo per quest’anno al signor Mohammed Saleem del panificio Harrasser di Brunico/Stegona il titolo di miglior produttore di Schüttelbrot “nostrano”.

Possiamo immaginarci le obiezioni di quelli (non sono pochi, purtroppo) che si dichiarano sempre indisposti a concedere un po’ della loro fiducia sulle possibilità di un’effettiva integrazione: una rondine non fa primavera, diranno. Vero. Infatti neppure loro arrivano a negare in linea teorica che un giorno avremo un Kerschbaumer o un Tschurtschenthaler a roteare impasti per la pizza sotto il cielo di Napoli. Magari esistono già, a nostra insaputa. Ma si tratterebbe di sporadiche rondini o di eccezioni alla regola, per l’appunto. E a queste ipotetiche e tiepide primavere, concludono, si deve comunque sempre preferire il rigido inverno del pessimismo multiculturale che poi sfocia inevitabilmente in asserzioni di rozza discriminazione (“prima i nostri”).

Abbiamo più volte sottolineato come visioni contrastanti di questo tipo – da un lato l’ideale di un’integrazione che assorba senza residui i nuovi venuti all’interno del perimetro della cultura dominante (Leitkultur), dall’altro quello che si basa sulla negazione aprioristica e quindi sul rifiuto di ogni processo di contaminazione – non solo non riescano a comprendere i reali processi di scambio che contraddistinguono le relazioni umane, ma siano anche fuorvianti allorché si tratta di predisporre ragionevoli regole di convivenza tra individui di origine diversa. Ciò che accade, invece, è un faticoso e vario intarsio di atteggiamenti escludenti e includenti, una fitta trama di prove fallite e riuscite di coesistenza, che modificano in negativo o in positivo il volto della società in rapporto alla nostra capacità di valutarne caso per caso il coefficiente di perdita o di guadagno (ovviamente non solo in termini brutalmente economici).

All’interno di un siffatto e assai intricato meccanismo, è assolutamente necessario salvaguardare criteri che siano ispirati non dal principio deterministico di identità collettive predefinite o immutabili, quanto piuttosto dalle risorse dei singoli e dalla loro capacità di creare nuovi e più mobili modelli di aggregazione. Si tratterà comunque di un cammino lungo e tortuoso. Auguriamoci intanto che la nuova legge ci aiuti almeno a procedere nella direzione giusta.

Corriere dell’Alto Adige, 29 ottobre 2011

Vajassa II

Ci tenevo a dare uno spassionato consiglio ad Angela Merkel (che so assidua ed attenta lettrice del mio blog, colgo anzi l’occasione per ringraziarla). Il termine “Vajassa” – attribuitole in queste ore dalla prestigiosa parlamentare italiana che discende dall’ex dittatore Benito Mussolini – non costituisce un’offesa perseguibile per legge. Incassi dunque tranquillamente l’innocuo epiteto e non si preoccupi di scomodare eventuali avvocati, neppure quelli amici che lavorano per lei gratis, allo scopo di sporgere querela. Danke und schöne Grüße nach Berlin.

Chi di barzellette ferisce

Non ha letto male la situazione chi – al cospetto di queste risate – ha denunciato la berlusconizzazione di Sarkozy (e anche un po’ della Merkel). Del resto, è destino di ogni maestro essere superato dagli allievi. In tutti questi anni di sconfortante presenza sulla scena pubblica italiana e internazionale, il maggior merito di Berlusconi – per non dire l’unico – è stato quello di fare a pezzi il protocollo, il formalismo delle occasioni ufficiali nelle quali non si mostra mai quello che si pensa veramente, ma solo quello che sembra opportuno e all’altezza delle circostanze. Non pochi dei sostenitori del premier – non solo gli utili idioti formatisi negli anni da assidue frequentazioni dei programmi spazzatura emessi dalle sue televisioni, ma anche gli intelligentoni del FOGLIO e tutti gli altri portatori d’acqua che lo blandiscono per mestiere – ci hanno sempre ripetuto che erano proprio queste le doti che lo rendevano simpatico e irresistibile. E dunque corna, barzellette, scherzi, ammiccamenti a go-go. Peccato che alla fine il soggetto in questione sia emerso (e con quanta lentezza!) per quel che era. Un povero buffone, del quale in effetti non si riuscirebbe a ridere mai abbastanza se almeno potessimo disgiungere le risate che cadono giustamente su di lui da quelle che purtroppo cadono inevitabilmente su di noi, che non riusciamo a togliercelo di torno in nessun modo.

La lingua eterna di Zanzotto

“Verrà forse un giorno in cui i vocaboli perderanno per sempre i vocaboli. Verrà un giorno in cui la poesia morirà. Sarà l’era del robot e della parola imprigionata. La sventura degli Ebrei sarà universale” (Edmond Jabès)

I poeti sono persone che svolgono un mestiere essenziale ma conquistano le prime pagine dei giornali solo quando muoiono. A questo triste destino non si è sottratto neppure l’ultimo dei grandi poeti italiani del Novecento che ci ha lasciati pochi giorni fa: Andrea Zanzotto. A parziale consolazione di una perdita che rimarrà tale, va detto comunque che in questo modo la cosiddetta schiera dei “dipartiti” acquista una voce spesso più forte e salda di quella dei “vivi”. Così è proprio la lingua dei poeti, apparentemente lieve e incapace di sovrapporsi a quella di chiunque altro, che alla fine dura di più e diventa ciò a cui vale la pena ricorrere specialmente nei “tempi di povertà”, “in dürftiger Zeit”, come ha scritto Friedrich Hölderlin nella sua elegia “Pane e Vino”.

Il valore raro di un’opera di poesia può essere compreso probabilmente solo con l’aiuto di alcune metafore. Una l’ha espressa in modo brillante Silvia Bortoli, scrittrice e traduttrice veneziana, paragonando la particolare qualità che incontriamo al cospetto di una pagina redatta da un vero poeta a una torta: “Ogni parola, frase, tournure di uno scrittore di rango si sostiene su una complessità della percezione e del pensiero, quel particolare pensiero del poeta, che ha poco a che fare magari con la logica o la razionalità, che apre a ogni frase molti non detti, molte aperture di senso, pieghe, strati, come appunto il primo strato di un millefoglie, che riceve il suo statuto proprio dal fatto che ce ne sono tanti altri”. L’immagine di una torta, cioè di qualcosa di commestibile, espone però la poesia al rischio del fraintendimento: che si tratti cioè di qualcosa di secondario e non redditizio (con la cultura, diceva qualcuno incapace di comprendere il nesso profondo tra saperi e sapori, non si mangia).

Per evitare un simile fraintendimento occorre specificare. Se di torta si tratta, dobbiamo pensare a una torta “sovversiva”, in grado di ribaltare lo stesso ordine gerarchico nel quale siamo imprigionati, e con il quale abbiamo raggelato la vita, mediante un moto di autentica indignazione nei confronti di ciò che limita le nostre relazioni fondamentali (quelle che c’intrecciano agli altri e alla natura). In questo senso la poesia contesta ogni decisione che voglia impedirci di partecipare, spezza ogni dispositivo di sicurezza che cerchi di escluderci dallo spazio nel quale possiamo essere i protagonisti delle nostre azioni. In questi tempi di crisi, nei quali niente sembra in grado di liberarci dall’incantamento del dominio economico e finanziario dell’esistente, dovremmo ricordare che “poeticamente abita l’uomo su questa terra” (ancora Hölderlin) e che una terra privata di poesia e bellezza potrà essere prodiga soltanto di frutti avvelenati. 

Corriere dell’Alto Adige, 23 ottobre 2011

Il simbolo del gregge

Oggi passavo per piazza Walther a Bolzano e ho notato le pecore blu, l’allestimento della coppia Reetz/Bonk già eseguito finora in altre città del mondo tedesco. Nel bigliettino che illustra il significato di quest’opera (evidentemente i due artisti germanici se ne fottono di Roland Barthes e di ciò che affermava a proposito dell’enigmatica polisemia dell’arte) si legge che al di là di tutte le possibili differenze etnologiche, religiose o culturali, lo straordinario “charme” di queste pecorelle dovrebbe farci pensare a ciò che ci unisce. Una banalità priva di qualsiasi riscontro (soprattutto politico e soprattutto in una città con la storia di Bolzano) che è pari forse solo alla mediocrissima resa estetica di quell’insulso gregge itinerante.

(P.S. Infastidito da questa visione d’irenismo ripugnante mi sono immaginato, per privatissimo risarcimento, un contro-allestimento di rane verdi di Kippenberg infilzate su decine di croci, proprio davanti al Duomo e a due passi dai palazzi della politica locale. Abbiamo bisogno di asce che rompano il mare ghiacciato dentro di noi. Altro che di pecorelle blu!).

Se

So bene che la storia non si fa con i “se”. Ma testardamente: se al posto di questa madonnina priva d’ogni valore avessero fatto a pezzi una formella di Luca della Robbia, oggi avremmo un paio di ricercati in meno e, suppongo in quota “responsabili”, un paio di sottosegretari alla cultura in più. Siamo un paese maledettamente destinato a sprecare i suoi migliori talenti.

Black-Bock

«O io lascio, cosa che può essere anche possibile e che dato che non sto bene sto pensando anche di fare, oppure facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera… Portiamo in piazza milioni di persone, facciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica: cose di questo genere, non c’è un’alternativa» [Silvio Berlusconi in una comunicazione telefonica con il suo amico latitante Valter Lavitola registrata il 20 ottobre 2009]

La “Proporz” è un rottame da buttare

di Florian Kronbichler

È vero, come si leggeva nel titolo del nostro editoriale di giovedì, che “il vero nodo da sciogliere è la proporzionale”. E ha fatto bene l’autore Gabriele Di Luca a tacciare i Verdi di “poca credibilità” per non aver chiamato per il proprio nome l’obiettivo del loro sabotaggio anti-censimento. Ai Verdi va dato atto che almeno siano tornati ad insistere su un loro ideale storico, se anche lo stanno facendo in malo modo. Esortare i cittadini a un atto di disobbedienza civile se non addirittura ad una violazione di legge, richiederebbe, come minimo, preparazione, una mobilitazione che sia tale e un minimo di preavviso. Di tutto questo neanche l’ombra. Lo stato maggiore verde l’ha buttata lì, a termine ormai scaduto, seppur non perentorio, con semplice conferenza e comunicato stampa: “annulliamo la scheda etnica!”

Una mossa inattesa, insomma, e ad essere colta di sorpresa sembra sia stata più la base del movimento verde stesso che l’avversario politico. La Volkspartei, e pure l’opinione pubblica, non si sono impressionati affatto dell’imprevisto. Ed è questa la sorpresa nella sorpresa: il censimento, anche quello etnico, ha perso ogni esplosività politica. Tolta di mezzo la pietra dello scandalo delle scadenze passate (con l’anonimizzazione della dichiarazione di appartenenza linguistica), il Sudtirolo si avvia tranquillo ad un censimento spoliticizzato e pare che nemmeno la chiamata al sabotaggio riesca a ripoliticizzarla.

La Volkspartei, si vede, si sta congedando da un’altra campagna di retroguardia. In questa sola settimana si sono potuti cogliere segnali inconfondibili che la “proporz” inizi a puzzare persino a chi fino a oggi l’ha esaltata quale pilastro irrinunciabile dell’autonomia. Il senatore Roland Riz, padre nobile dello Statuto, in un dibattito televisivo con la portavoce verde Foppa, ha difeso la sua creazione con dispettosamente poca convinzione: “a me – sbottava – non serve più”. A Marta Stocker, vicepresidente SVP e in quanto a difesa di conquiste etniche sempre in trincea, importa della proporzionale “perché difende gli italiani”. E pure di questa settimana l’inversione di rotta dell’obmann Theiner stesso:  “prima la qualità e poi la proporz”.

Sono toni nuovi. E della Giunta provinciale ormai si sa: non c’è seduta in cui essa non prenda delibere in deroga alla proporzionale. La linea di Durnwalder in proposito è la stessa come sull’uso delle lingue nelle scuole: fate quello che volete purché non ne parliate!

La proporzionale si sta rivelando un rottame dai tempi dell’autonomia adolescenziale.  A buttarla, il partito che l’ha canonizzato, non ha il coraggio. Se dovesse estinguersi, per esempio in seguito ad un censimento completamente falsificato, forse se ne rallegrerebbe, dando la colpa ai Verdi. E questi se ne potrebbero vantare.

Corriere dell’Alto Adige, 16 ottobre 2011

Pochi rischi

Ha scritto una volta Nicolás Gómez Dávila: “L’amore per la povertà è da cristiani, ma l’adulazione del povero è mera tecnica di reclutamento elettorale”. In Sudtirolo – come si vede dalla foto qui sopra che ritrae il Vescovo Muser fresco di nomina circondato da potenti d’ogni ordine e grado – di rischi simili se ne corrono davvero pochissimi.

La proporzionale è il vero nodo da sciogliere

In censimento al quale siamo chiamati in questi giorni a rispondere offre numerosi spunti polemici che abbiamo cercato di sviluppare in diverse occasioni. Sarebbe però un errore se la critica ricalcasse pedissequamente gli argomenti del passato. Nella costellazione attuale essi hanno così bisogno di essere rivisti in rapporto alle condizioni mutate. In questo senso, l’opposizione tentata nel 1981 da Alexander Langer contro quelle che lui definiva le “nuove opzioni” assume per noi un valore positivo proprio riconoscendo l’avvenuta correzione delle situazioni che allora davvero avevano “il solo scopo di costringere alla lealtà etnica ogni cittadino del Sudtirolo, e con ciò la funzione di discreditare, tacciandoli di ambiguità, tutti coloro che si rifiuta[va]no di schierarsi” (Sudtirolo ABC). Oggi, per fortuna, nessuno impone più un simile esercizio di “lealtà”, anche se il richiamo alla “sincerità” che l’ha sostituito non è certo qualcosa che possiamo accettare senza tacerne gli evidenti e persistenti limiti.

Ovviamente diversi da quelli di un tempo, non mancano i problemi rimasti sul tappeto. Ma quali sono essenzialmente questi problemi? E soprattutto: di chi sono? Confesso che, pur condividendone molte ragioni “ideali”, non riesco a seguire pienamente coloro i quali adesso (a tempo peraltro ampiamente scaduto) affermano la personale difficoltà d’“intrupparsi”, tornano ad accusare il “sistema” di malcelato razzismo e riscoprono l’acqua calda dell’arbitrarietà di ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo (persino quando ciò non comporterebbe un evidente “tradimento” della propria identità). Penso si tratti di una protesta di maniera e scarsamente produttiva. Non è possibile, e neppure credibile, aver accantonato per dieci anni questo tema e accorgersi improvvisamente della sua gravità solo quando ci vengono recapitati i deludenti questionari. Per non parlare del fatto che ha davvero poco senso attaccare il censimento senza ripudiare con ben maggiore determinazione il meccanismo che lo legittima, cioè la legge proporzionale. Ma proprio qui sta il punto dolente e il nodo più difficile da sciogliere. Esiste sufficiente informazione e chiarezza sull’effettiva obsolescenza della proporzionale e dunque sulla plausibilità, per non dire la necessità di una sua completa rimozione? Chi ne mette in luce gli aspetti negativi è consapevole dei rischi, magari soltanto di natura psicologica, eventualmente prodotti o riprodotti dal puntare senza ulteriori approfondimenti verso la costruzione di un modello di convivenza alternativo?

Purtroppo la sensazione è che si preferisca in modo velleitario scagliarsi contro il facile bersaglio del censimento per mascherare la propria difficoltà a incidere su alcune strutture profonde che continuano (perché in definitiva rivelatesi assai comode) a determinare l’orientamento complessivo di questa società.

Corriere dell’Alto Adige, 13 ottobre 2011

[…]

Poco distante da qui passa un torrente. Di giorno non si avverte, ma quando cala la sera il suo rumore diventa più fragoroso. Ero uscito ad ascoltarlo, qualche minuto fa. Fuori faceva freddo. Quando manca la luna gli alberi sono cancellati dal buio e la presenza dei monti è rivelata soltanto da fioche luci lontane. A un certo punto, proprio sotto al mio balcone, è passato un uomo. Pareva avesse addosso un poncho e sulla testa un cappello sudamericano come quello di Giuseppe Garibaldi che si vede in alcuni ritratti. Camminava via svelto ma con un’andatura zoppicante. Era lui, ne sono sicuro. Così sono subito rientrato per raccontarvelo.