Vivere

Nascere

Piangere poppare bere mangiare dormire

Aver paura

Amare

Giocare camminare parlare crescere ridere

Amare

Imparare a scrivere leggere contare

Lottare mentire rubare uccidere

Amare

Pentirsi odiare scappare tornare

Ballare cantare sperare

Amare

Alzarsi coricarsi lavorare produrre

Innaffiare piantare mietere cucinare lavare

Stirare pulire partorire

Amare

Allevare educare curare punire baciare

Perdonare guarire angosciarsi attendere

Amare

Separarsi soffrire viaggiare dimenticare

Raggrinzire svuotarsi stancarsi

Morire

Quel rischio che viene dall’interno

E’ possibile prendere spunto dall’orribile eccidio di Oslo e Utoya per parlare dello stato di salute di un modello, quello del multiculturalismo, così importante per la salvaguardia di società complesse quali le nostre, ma anche espressione della loro irriducibile fragilità? Sfruttando l’esempio del Sudtirolo (territorio multiculturale a tutti gli effetti) quale contributo possiamo dare all’evoluzione di una discussione che coinvolge esperienze e problemi certamente più vasti di quelli accertabili tra il Brennero e Salorno?

Una buona indicazione in tal senso si può cogliere in un commento di Guido De Franceschi pubblicato su Il Foglio di martedì [link]. Il giornalista — interessato a svolgere riflessioni su piccole patrie, lingue minoritarie e separatismi — ha proposto di contestualizzare il terrificante gesto di Anders Behring Breivik nell’ambito di una ricerca sul pericolosissimo demone della “purezza” o della “particolarità”. Nel mirino c’è quella sorta di tarlo per cui l’essere un po’ diversi dagli altri non provoca soltanto un’orgogliosa e virtuosa coltivazione delle proprie qualità, ma un avvitamento psicologico alla ricerca di quello che ci rende unici.

E’ vero, il multiculturalismo rappresenta un antidoto al dominio di un culturalismo fondato sull’affermazione — alla fine razzistica e violenta — della purezza. Se tuttavia lo stesso multiculturalismo viene proposto alla stregua di una versione definitiva e incontestabile di una determinata società, non è purtroppo escluso che possano nascere crisi di rigetto incentrate proprio sull’accentuazione parossistica di un’idea di purezza perduta e quindi da riconquistare.

Una via d’uscita da questa micidiale contraddizione consisterebbe, secondo la condivisibile analisi conclusiva di De Franceschi, in un profondo ripensamento della fonte di rischio, ancora largamente sottovalutata, alla quale sono sottoposti tutti quei Paesi e quelle regioni (fra le quali possiamo citare anche la nostra, sempre così ossessionata dal prendersi cura della propria specificità) in un certo senso inclini a pensare se stessi secondo il criterio della purezza e della particolarità da preservare a ogni costo. Qui la sfida sembra essere insomma di difendere la propria particolarità non dall’“altro”, da chi siamo cioè abituati a ritenere il nemico “esterno”, quanto dal “sé”, cioè da chi non si perita a ricorrere sempre a strategie di compattamento identitario, finendo poi per innescare meccanismi isolazionistici e quindi potenzialmente autodistruttivi.

Corriere dell’Alto Adige, 29 luglio 2011

Amici e comete

E’ sempre bello ritrovare un vecchio amico. Un amico del quale – ach, le vicissitudini della vita! – si erano perse le tracce, ma che proprio sottotraccia era comunque riuscito a prosperare, a far carriera, come si suol dire, e infatti adesso lo vediamo rispuntare addirittura come il candidato più accreditato a diventare ministro della Repubblica (Guardasigilli, nientemeno). A noi piace ricordarlo così, quando, ormai è trascorso un lustro, venne nominato “commissario” (o qualcosa del genere) addetto a risolvere le beghe del centrodestra locale (senza ovviamente concludere alcunché).

Per i più smemorati: ecco la traccia più significativa lasciata dalla Cometa-Nitto Palma al suo passaggio in Alto Adige-Sueditirol.

La traduzione dalla necessità al piacere

Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei

(M. Heidegger)

 In un recente incontro organizzato a Bressanone per presentare il “Manifesto 2019”, cioè il documento di intenti elaborato da un gruppo di cittadini che desiderano “chiudere l’attuale stagione dei veleni e delle tensioni etniche” (il nostro giornale ne ha già ampiamente parlato), una persona del pubblico ha commentato: “Io vorrei che nel Sudtirolo del 2019 non ci fosse più bisogno di ricorrere alle traduzioni e agli interpreti: tutti dovrebbero essere finalmente in grado di capire quello che dicono gli altri e parimenti essere capiti senza problemi”. Una speranza di questo tipo è certamente condivisibile dal punto di vista pragmatico ed economico (pensiamo a quanti soldi si risparmierebbero). Sorge però il dubbio che insieme alle traduzioni (e ai traduttori) possa sparire qualcosa d’irrinunciabile e vorrei spiegare brevemente il perché.

E’ opinione largamente condivisa che una traduzione sia necessaria per trasformare (o forse solo per far passare) un testo scritto in una lingua in un’altra quando qualcuno (il destinatario della traduzione) non è in grado di comprendere la lingua di partenza. E una volta compiuta, una volta quindi risolto il problema della comprensione, della traduzione non abbiamo più alcun bisogno e non è comunque interessante soffermarsi ulteriormente sul suo particolare procedimento. Eppure ciò corrisponde a una visione alquanto semplice e utilitaristica del compito e perfino dell’essenza di una traduzione. Il filosofo tedesco Martin Heidegger, secondo il quale l’intera ontologia occidentale (vale a dire la configurazione entro la quale è possibile per noi articolare il rapporto con l’“essere”) addirittura si riduceva a un problema di traduzione tra le epoche del suo sviluppo storico, una volta ha per esempio detto che “il tradurre non si muove unicamente fra due lingue diverse, (ma) anche all’interno della stessa lingua c’è un tradurre” (M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister”, GA Band 53, Klostermann, Frankfurt am Main, 1984). E questo perché ogni traduzione esplicita in realtà una soggiacente attività interpretativa che sta alla base di ogni uso linguistico, misurando quella profonda stratificazione di senso che diventa compiutamente percepibile solo nel colloquio (Zwiesprache) di una parola con un’altra.

Ma lasciamo le “altezze” della filosofia e planiamo nuovamente sul nostro Sudtirolo. Auspicando senz’altro un affrancamento dal bisogno di ricorrere sempre e comunque al servizio di traduzioni rese necessarie da una insufficiente comprensione delle lingue parlate in provincia, si tratta anche di rivalutare l’attività del tradurre quando essa può contribuire al piacere della conoscenza di chi si dimostrerà, proprio per questo, sempre più esperto e capace di apprezzare il plurilinguismo e le sfumature dei significati che s’illuminano nel gioco di rimandi reciproci tra una lingua e l’altra. Un Sudtirolo popolato da un numero cospicuo di bravi e raffinati traduttori è senz’altro uno scenario più allettante e futuribile del suo contrario.

Corriere dell’Alto Adige, 22 luglio 2011

Presupposto non trattabile

Anche se forse non a tutti risulta evidente, è da tempo assodato che il delicato equilibrio sociale sul quale si regge la convivenza dei gruppi linguistici nella nostra provincia potrebbe venire sensibilmente alterato dal progressivo afflusso di stranieri determinati a trovare durature possibilità di vita sul territorio. Il motivo non è però qui deducibile in base alle considerazioni che vengono fatte valere quando pensiamo alla generica relazione tra persone in arrivo (provenienti da luoghi molto diversi, peraltro) e una non meglio precisata popolazione locale. Trovandoci già in un luogo abitato storicamente da più gruppi linguistici (ufficialmente riconosciuti soltanto tre) entrano infatti in gioco rapporti molto più complessi, reazioni soggette a una chimica del tutto particolare, e non tenerne conto sarebbe gravissimo.

Ecco per esempio come un sito molto attento nel seguire tali sviluppi ha commentato la recente risposta negativa di Elio Vito, Ministro per i rapporti col Parlamento, riguardo una interrogazione posta dal senatore Oskar Peterlini, secondo il quale i test di lingua previsti per il rilascio del documento Ce (da quasi un anno indispensabile a ottenere un permesso di soggiorno di lungo periodo) avrebbero dovuto svolgersi in provincia di Bolzano anche in tedesco: “In questo modo un presunto “interesse nazionale” impedirà anche in seguito un’equilibrata ed effettiva integrazione dei nuovi sudtirolesi, in quanto essi dovranno sì essere in grado di padroneggiare la lingua dello Stato, ma non il tedesco e il ladino. Ciò produce una manifesta gerarchia linguistica. Questa miseria dimostra ancora una volta come la nostra autonomia non sia in grado di garantire un sufficiente spazio di manovra persino all’interno degli ambiti che sarebbero essenziali al fine di puntellare le esigenze locali (den Südtiroler Bedürfnissen) con una legislazione all’altezza della situazione. Che lo sviluppo della società sudtirolese venga diretto in modo così determinante da Roma e che a farne le spese sia il plurilinguismo non è un problema da sottovalutare. La bomba a orologeria continua a essere innescata” (http://www.brennerbasisdemokratie.eu/?p=8504).

Personalmente non condivido il linguaggio apocalittico con il quale è stata scritta questa nota (la metafora eccessiva della “bomba a orologeria” ricorda l’altrettanto eccessiva immagine della “marcia della morte” utilizzata negli anni cinquanta dal Canonico Michael Gamper). Resta vero però che il problema specifico sussiste. Il plurilinguismo – non solo la sua tutela, quanto soprattutto il suo incremento – è il presupposto non trattabile dal quale può unicamente procedere il nostro futuro “patto di stabilità”. Anche coinvolgendo in questo tipo di progetto gli immigrati. Su questo fronte non si devono perciò rischiare cedimenti.

Corriere dell’Alto Adige, 16 luglio 2011

Tra

Tra un vuoto e l’altro, provando a descrivere questo eccesso di vuoto, che ovviamente non si può  neppure descrivere, semmai solo circoscrivere. Temendo o sperando di caderci dentro.

E un giorno accadrà.

San Cristoforo come traduttore

Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare? (A. Langer)

 

Non so a chi potrebbe essere indirizzata questa mia richiesta (una richiesta che assomiglia a una preghiera) e quanto sarebbe complesso riuscire in questo tipo di canonizzazione: che San Cristoforo – ufficialmente il Santo protettore dei barcaioli, dei pellegrini, dei pendolari, dei viandanti, dei viaggiatori, dei facchini, dei ferrovieri, degli autieri: insomma di tutti quelli che hanno a che fare con una qualche forma di trasporto – possa finalmente diventare anche il Santo protettore dei traduttori.

Un Santo protettore dei traduttori in realtà esiste già: San Girolamo, che tradusse la Bibbia dall’ebraico e dal greco in latino tra il III e IV secolo d.C. Riflettendo sulle varie tipologie della sua raffigurazione iconografica è però possibile a mio avviso sovrapporre a questa figura ufficiale un tratto mancante – deducibile per l’appunto dalle raffigurazioni iconografiche del San Cristoforo – che mi permetterebbe di accreditare forse con maggiore plausibilità il mio stravagante intento.

Le tipologie iconografiche mediante le quali possiamo incontrare la figura di San Girolamo nella storia dell’arte sono essenzialmente tre. La prima si riferisce al suo periodo di penitenza trascorso nel deserto della Siria. Il paesaggio è dunque brullo, petroso, e il Santo è rappresentato molto anziano, emaciato, talvolta addirittura scheletrico e con le vesti ridotte a brandelli. Gli attributi (la pietra, il teschio) ci rimandano a esercizi di penitenza. La seconda invece colloca il Santo in uno studio. È solitamente in compagnia di un leone e una colomba. Qui gli attributi (la penna, gli occhiali, i libri) segnalano una vita raccolta, dedicata alla meditazione e all’erudizione. La terza, infine, lo raffigura come un anziano e venerando dottore della Chiesa, avvolto in sontuosi panni cardinalizi. È evidente che, tra le tre tipologie, è la seconda la più consona a rappresentare l’attività del tradurre, anche se una certa vocazione penitenziale di alcuni traduttori potrebbe essere illustrata altrettanto bene dalla prima.

Ma veniamo all’iconografia di San Cristoforo. Mentre scrivo queste righe, ho sotto gli occhi il dipinto di Konrad Witz che è stato utilizzato anche come copertina del volume di Alexander Langer “Il viaggiatore leggero”. Il Santo, coperto da un mantello rosso, è immerso nell’acqua fino alle ginocchia. Una mano impugna un bastone, con il quale egli si sostiene; l’altra, con il palmo rivolto verso il basso, suggerisce tutta la difficoltà della sua impresa. Anche il bambino che gli sta sulle spalle sembra partecipare di questa difficoltà e si potrebbe leggere sul suo viso una qual certa apprensione. Non sappiamo se la traversata andrà a buon fine. Sappiamo però che questa insicurezza è altrettanto condivisa dai soggetti raffigurati. Tutto ciò ha forse qualche attinenza con l’attività del tradurre, con quel tratto mancante al quale accennavo all’inizio e del quale vorrei parlarvi adesso?

In un interessante articolo sulla “traduzione saggistica”, Mario Marchetti ha parlato della traduzione come “arte dell’approdo”[1]. La metafora dell’approdo completa o, meglio, sottolinea la seconda parte di una definizione data dal teorico della creolizzazione Éduard Glissant: “La traduzione è un’arte della fuga da una lingua all’altra, senza che la prima si cancelli e senza che la seconda rinunci a presentarsi”. Sarebbe insomma l’aspetto di acquisto nella lingua d’arrivo (questo non rinunciare a presentarsi), più che quello di perdita dell’elemento originale (la lingua di partenza), a caratterizzare qui il lavoro della traduzione. Ma questo non è esattamente il punto che adesso a me maggiormente preme di mettere in evidenza. Vorrei piuttosto – giusta la metafora dell’approdo – concentrarmi sull’insieme del processo: il testo, cioè la riva dalla quale si muove, quella alla quale si giunge e il modo con il quale lo si fa. Soprattutto quest’ultimo aspetto, il modo con il quale lo si fa, ci riporta all’immagine del San Cristoforo.

San Cristoforo, l’abbiamo appena visto, è sempre raffigurato immerso nell’acqua. Quello che così non vediamo sono i suoi piedi. Quello che non percepiamo sono i suoi passi. Credo che ognuno di voi possa ricordarsi di aver camminato almeno una volta sul letto di un fiume o sulla riva scogliosa del mare. Possibilmente a piedi nudi. Si tratta sempre di scegliere con la massima cura su quale pietra appoggiarsi, perché spesso là sotto si nascondono profili aguzzi, taglienti, e una vegetazione scivolosa. Per non parlare dei ricci di mare (se ce ne sono) o degli improvvisi dislivelli di profondità resi sfumati e impercettibili dalla superficie increspata o specchiante dell’acqua. Perciò l’andatura è incerta, lenta, faticosa. Esattamente come quella di un traduttore che, dovendo volgere una frase scritta in una lingua nell’altra, ha bisogno di cercare e di scegliere con grandissima circospezione le parole e i significati giusti. Si tratta di un “lavoro minuto”[2], inappariscente (sott’acqua…), ma indispensabile per poter sperare di giungere dall’altra parte (da qualsiasi parte).

Com’è noto, nel testo di Alexander Langer intitolato “Caro San Cristoforo”[3], il politico sudtirolese ritorna sul tema della radicale inversione del motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloci, più alti, più forti) in quello per una nuova politica ecologica: “lentius, profondius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce)[4]. Penso che questo motto possa anche essere adottato per ogni buona opera di traduzione. E penso anche che la “Grande Causa per la quale impegnare oggi le proprie forze” (indipendentemente dal suo disegno specifico e “grandioso”) abbia bisogno di essere sostenuta innanzitutto da un maggiore rigore nel nostro impegno quotidiano, nel prenderci cura delle cose e delle persone che abbiamo intorno, allo stesso modo con il quale un traduttore si prende cura di un testo (anch’esso un “bambino apparentemente leggero”) da trasportare da una riva all’altra nell’immenso fluire dei nostri linguaggi.

Alexander Langer, come San Cristoforo, era soprattutto un traduttore. Lo dice lui stesso parlando dei suoi “mestieri”: “Ho avuto la fortuna di svolgere, nel corso del tempo, attività e mestieri abbastanza diversi, e di non identificarmi con alcuni di essi al punto da assumere il ruolo e di dover pensare di continuarlo per sempre. E sono contento di possedere una carta di riserva che già varie volte mi è tornata utile anche per campare: traduco (volentieri), il che non è altro che un aspetto di quell’attività di ponte tra mondo tedesco e italiano cui non potrò più sfuggire”[5]. Una “carta di riserva” utile per campare, dunque, un “lavoro minuto” da svolgere tra un impegno e l’altro, ma soprattutto il lavoro che alla fine esprime più di ogni altro e meglio di ogni altro quell’attività di ponte tra culture diverse che sintetizza sia l’opera che la vita di questo nostro straordinario conterraneo.

Mi resta da fare un ultimo accenno ai rischi (anch’essi inappariscenti e sottovalutati) connessi all’attività della traduzione, posto che questa attività venga concepita come habitus e come ethos, ossia in senso profondamente esistenziale e non meramente strumentale. Dell’acqua che noi vediamo raffigurata nelle immagini del San Cristoforo non misuriamo né l’impeto della corrente, né il rumore che ne accompagnano la presenza. Questi fenomeni, però, non sono semplici fattori casuali, non possono essere cioè mai eliminati completamente in una concreta situazione reale. Tradurre significa allora non solo saper scegliere la parola giusta o il significato più appropriato in un contesto privo di ulteriori insidie. L’approdo cercato è reso difficile da forze contrarie, da un vero e proprio frastuono che dobbiamo sforzarci di limitare e di attraversare quasi trattenendo il fiato. Mi viene in mente la scena finale del film “La dolce vita” di Federico Fellini. Sulla riva del mare troviamo Marcello Mastroianni che scorge una ragazza poco distante. I due sono però separati da uno spazio colmo d’acqua. Il rumore del mare in sottofondo cresce, è fortissimo, ogni comunicazione verbale risulta impossibile. La ragazza prova a farsi comprendere a gesti, con le mani e col corpo mima quasi una strana forma di danza. Ma Mastroianni non riesce a capire, non riesce a tradurre quei segni in un linguaggio per lui rilevante. Sconsolato sorride, poi desiste, perdendo forse l’annuncio di qualcosa d’importante e l’occasione di cambiare, forse addirittura di salvare la propria vita.


[1]              http://rivistatradurre.it/?p=215

[2]              Per la nozione di “lavoro minuto” si veda Václav Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991, pp. 56-60.

[3]              Alexander Langer, Caro San Cristoforo, in: Il viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 1996, pp. 328-332.

[4]              Alexander Langer, Lentius, profondius, soavius, in: Aufsätze zu Südtirol – Scritti sul Sudtirolo, Alpha-Beta, Merano 1996, pp. 268-275.

[5]              http://www.alexanderlanger.org/it/75/55

Benzina sul fuoco (o del “metodo Bertoldi”)

Tra i cosiddetti “pregi” della giovinezza (o meglio: della tarda infanzia, come in questo caso) annoveriamo il “candore”. Un “pregio” che ovviamente, a seconda di quel che “candidamente” viene affermato, può rivelarsi un grave “difetto”.

Nella giornata di ieri – come prevedibile – i media (in particolare quelli di lingua tedesca) hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni di Alessandro Bertoldi, un giovane esponente del PDL locale, il quale aveva in sostanza affermato che le violenze subite in carcere dagli attentatori sudtirolesi degli anni sessanta erano “meritate”. L’occasione che ha fornito questa insostenibile presa di posizione era stata data da una precedente precisazione del presidente del Consiglio provinciale, Mauro Minniti, il quale invece aveva coraggiosamente puntualizzato che quelle violenze (al di qua di ogni loro possibile interpretazione) ci furono e quindi dovevano essere condannate. In un editoriale apparso ieri sul Corriere dell’Alto Adige mi ero preoccupato di dare risalto alla posizione di Minniti, anche perché ritengo che dare spazio a certi messaggi sia più produttivo rispetto alla tecnica contraria (fin troppo abusata), cioè quella che privilegia sempre informazioni foriere di scontro. È evidente che il giovane Bertoldi sia d’avviso contrario (ma non solo lui, purtroppo). Infatti è riuscito a rubare la scena a Minniti e a conquistarsi una piccola porzione di celebrità (ancorché non esattamente “buona” celebrità).

Comunque. Sulla Tageszeitung di oggi, Arthur Oberhofer intervista Bertoldi. Si tratta di un’intervista illuminante (più illuminante degli scritti dello stesso Bertoldi, che infatti risultano sempre un po’ confusi, contraddittori e approssimativi). L’intervista, ne consiglio la lettura, si apre con questa affermazione: “Ich habe die Diskussionen rund um die Vorfälle in den Sechzigerjahren verfolgt und bin draufgekommen, dass nicht seriös und nicht historisch fundiert duskutiert wurde. Es wurde von allen Seiten Benzin ins Feuer gegossen, daher habe ich gesagt: Ich kann auch Benzin ins Feuer gießen”.

Un commento di questo passo può aiutarci, a mio avviso, a capire bene non solo il metodo Bertoldi, ma quali sono le tipiche storture del discorso pubblico sudtirolese (e non solo quello).

1. Bertoldi afferma di aver seguito le “discussioni” sulla “notte dei fuochi”. Non cita quali, ma dice che si è trattato di discussioni poco serie e prive di fondamento storico. In verità sono state prodotte parecchie buone discussioni sul tema, ma ignorare ciò che di buono viene fatto e detto (come dicevo nella premessa) e concentrarsi solo su ciò che risulta insoddisfacente corrisponde a una precisa strategia comunicativa e, ahimé, politica.

2. Da ogni parte veniva gettata benzina sul fuoco, prosegue poi Bertoldi. Anche questo non è vero. Accanto ai pochi che quasi di professione gettano benzina sul fuoco (possiamo citare i famosi manifesti della Süd-Tiroler Freiheit), non sono state poche le voci di chi ha cercato di togliere per quanto possibile combustibile dalla scena (ricordo un editoriale di Toni Ebner, sul Dolomiten, che ribadiva la ferma condanna di qualsiasi uso strumentale e celebrativo dell’epoca delle bombe).

3. Ma visto che “tutti” – conclude Bertoldi – gettavano benzina sul fuoco, allora ho pensato di gettarla anch’io. La conclusione, deprimente quanto si vuole, completa lo stolto disegno e introduce l’arida morale. Per farsi notare, per conquistare le pagine dei giornali, bisogna attivare gli istinti più bassi, bisogna speculare sulle emozioni, bisogna alzare i toni. Lo fanno “tutti” (gli esempi di Bertoldi sono noti). Perché non può farlo un ragazzetto ambizioso e ignorante (dove l’ignoranza spesso è direttamente proporzionale all’ambizione)?

Resta una domanda da fare: è possibile fare qualcosa per contrastare l’efficacia e la pervasività di questo metodo?