Acqua ragia

Studio Pittore

Quando si diventa vecchi – o comunque la vecchiaia non sembra più solo una parola, una mano ipotetica che potrebbe bussare alla porta, ma è qualcuno che abbiamo già fatto entrare in casa, e ora fruga tra i nostri scaffali, in una stanza, e ci guarda – si ripensa all’infanzia come alla sorgente dei ricordi e dei rimpianti. Nell’infanzia cerchiamo il paesaggio fisico e mentale nel quale nascemmo a ciò che siamo (il momento in cui saremmo diventati ciò che siamo, nel quale ci specchiamo per riconoscerci). Talvolta, per farlo, usiamo delle fotografie, non necessariamente nostre, testimonianze del tempo. E da quei reperti ci muoviamo a ritroso, come seguendo le linee di un ritratto offuscato, che ci accingiamo a completare. La scena che mi è tornata in mente è questa. Sono con mio padre, è sabato, il giorno in cui lui non lavorava, e quindi poteva dedicarmi il suo tempo, rendendomi semplicemente parte del suo. Mio padre amava la pittura, frequentava lo studio di alcuni pittori emuli della tradizione macchiaiola toscana, e andava spesso a trovarli, portandomi con sé. Uno di loro si chiamava Giovannelli, un altro Biondi, un altro ancora Martini. Non erano pittori eccelsi, tutt’altro. Ognuno di loro era parte di un tutto indistinto, di una tradizione appunto, e su questa trama, su questo sfondo, si limitavano a distillare il loro accento personale. Traevano più forza dall’appartenenza comune che dalla propria voce inconfondibile (forse solo noi li potevamo ancora distinguere). I loro studi erano spesso solo una stanza d’appartamento, affollata di cose, di tele, di colori e di odori. Quello più pungente (a me carissimo) era l’odore dell’acqua ragia, un solvente utilizzato per pulire i pennelli. Perché quell’odore mi piaceva così tanto, qual era la sua promessa? L’interpretazione che ne posso dare oggi non riesce a risalire alla sensazione originaria, è costretta a mediarne il ricordo con tutto ciò che ho vissuto in seguito. Direi allora così: in quell’odore si annunciava la forma del futuro, la rifondazione di un mondo. Era come se, finito un dipinto, il pittore decidesse di ripartire da capo, liberandosi dal proprio passato, da ciò che era stato raffigurato, e si ponesse a dipingere l’opera che avrebbe potuto spezzare il tempo in due, in un prima e in un dopo. In realtà non accadeva mai, non accade quasi mai. Una volta puliti, i pennelli erano già mossi a rifare ciò che avevano sempre fatto, metodicamente replicando un quadro simile al precedente. L’acqua ragia non era così l’odore della rivoluzione, ma solo della sua promessa, come dicevo, che restava nell’aria – persistente – per alitare sulle cose che sono la possibilità di diventare altro da ciò che erano e sarebbero nuovamente state. Ecco dunque questo riandare all’infanzia, ai suoi odori, cosa nasconde: l’ultimo desiderio di poter avere avuto una vita diversa all’alba di quella che poi abbiamo effettivamente vissuto.

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Uscire dalla gabbia del provincialismo (Arbasino per tutti e per nessuno)

alberto arbasino

Mi sono imbarcato in un’impresa che non porterò probabilmente a termine: leggermi tutto “Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino. Sono a pagina 70, il traguardo sarebbe a pagina 1371 dell’edizione economica Adelphi (che ha un meraviglioso color salmone e in copertina una foto dello scrittore giovane, nel 1963). Perché vale comunque la pena attendere a un’impresa del genere, rischiando lo scacco, anzi avendo la sicurezza dello scacco? Innanzitutto perché Arbasino è uno di quegli autori che sta tutto dentro una frase, e in effetti non ci sarebbe bisogno di leggere un intero libro o un mastodonte del genere. Eppure, è solo cercando almeno di comprenderne tutta l’opera, magari anche solo per abbracciarla con lo sguardo, che la rilevanza di una singola frase balza agli occhi per ciò che può davvero significare. E quale sarebbe, dunque, in cosa consisterebbe questo “significare”? Dirò una cosa banale ma non per questo meno vera: Arbasino è un salvifico antidoto a uno dei mali che segnano maggiormente la letteratura e in generale la cultura italiana: il provincialismo. Sul provincialismo bisogna però intendersi, considerandolo per ciò che esattamente è, ovvero un velleitarismo da rovesciare. Velleitario sarebbe credere che per capire il mondo occorra necessariamente abbandonare il piccolo luogo nel quale siamo più o meno tutti confinati, in modo da stabilire le giuste proporzioni tra ciò che è particolare e ciò che è universale. Ma si può restare benissimo provinciali anche trasferendoci in una grande città, supponendo cioè che tanto basti per ampliare il nostro sguardo. A chi sa coltivare lo sguardo, in realtà, anche la provincia fornisce gli strumenti per attingere l’universale. Ma velleitario è allora esattamente questo: il credere che tanto basti. Provinciale è chi si accontenta, chi ritiene che il punto di partenza sia già un arrivo (o meglio ancora, chi ritiene che si possa arrivare da qualche parte). Arbasino, al contrario, non ha mai creduto che si potesse arrivare. Infatti anche con un libro come “Fratelli d’Italia” non si arriva mai, e l’autore avrebbe potuto riscriverlo all’infinito (cercando di ampliarne la mole o aggiungendo e sottraendone frammenti a mano mano che la realtà descritta mutava forma), così come a noi tocca, in effetti, leggerlo all’infinito. Bisognerebbe davvero sempre scrivere o anche vivere così: in between, cercando e rifacendo da capo, puntando a una mobilità della frase che insegue la mobilità del mondo. In questo senso la prosa di Arbasino – sostanzialmente incomprensibile e impenetrabile a chi non dispone di tutti i riferimenti che egli riesce a comprimere nella pagina – diventa anche estremamente leggera, e invita a fluttuare. Insomma, mentre il provincialismo risulta subito comprensibile ma ci tira in basso, con Arbasino non capiamo quasi nulla ma riusciamo a volare, diventiamo atmosferici. Per chiunque si senta oppresso da una visione delle cose che induce a prendere una posizione netta, a illudersi di poter decidere su questo o su quello, lui ci fa capire che sarebbe potuta andare in mille modi diversi e che potrebbe ancora andare così. La giornata è afosa, non sapete cosa fare e vi sentite inchiodati? La sua scrittura è come salire su una cabriolet velocissima che vi porterà via, il vento sulla faccia. Per Arbasino vale quanto Nietzsche – autore che assomiglia ad Arbasino solo per pochi, ancorché decisivi, tratti – diceva del suo Zarathustra: ha scritto libri per tutti e per nessuno. Sentirsi tutti e nessuno è esattamente il primo segno che stiamo forzando la gabbia del nostro provincialismo. E Dio sa quanto ne avremmo bisogno.

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A Silvius

Magnago

Una delle cose più belle viste recentemente è lo sketch di Corrado Guzzanti sulle poesie di Leopardi, anzi sulla poesia “A Silvia”, che un adulto “Lorenzo” recita mescolando citazioni errate e riferimenti impropri per culminare con l’esilarante richiesta di procedere finalmente ad una raccolta di liriche del recanatese che, sempre secondo il personaggio, non sarebbe ancora disponibile sul mercato (e a nulla valgono i richiami del figlio Luco, le mani raccolte a megafono intorno alla bocca, che gli grida “a papààààà… ce sta giàààà!!!”). A parte la bravura del comico, le ragioni per ridere qui stanno nella satira rivolta non tanto al poeta – la cui gloria non risulta minimamente scalfita o messa in questione –, ma al rimbambimento generale di una cultura che, proprio cercando di riuscire celebrativa, affonda in una melassa di stereotipi triti e ritriti (“Leopardi morì di gobba”), di informazioni liofilizzate e ruminate, di ricordi ossessivi e quindi ormai del tutto imprecisi. Il rimbambimento di una cultura, ecco, sfibrata e consunta perché eccessivamente focalizzata, egemonizzata da rituali stantii (la recita fatta da bambini invecchiati di qualcosa che non si conosce più, la salmodia di un canto protratto senza più attenzione per il contesto, mandato giù a forza e risputato in poltiglia). Si ride di quello, e fa bene farlo. Anche dalle nostre parti, a ben vedere, esisterebbe un soggetto buono ad essere ironizzato in quel modo. La poesia, in questo caso, dovrebbe però intitolarsi “A Silvius”, e l’autore collettivo lo scorgiamo a partire da tutte quelle bocche che – a dieci anni di distanza dalla sua morte – stanno ancora lì a intessere le lodi per il vecchio leader della Svp, il Mosè della Nazione Sudtirolese, l’eroe insostituibile nella narrazione che lo accredita come figura di agiografico richiamo: “Silvius, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lieto e pensoso, il limitare / di autonomia salivi?”. Anche su Silvius Magnago il libro “ce sta già”, eppure i suoi scrivani lo ricompongono sempre di nuovo, avendo cura di non omettere (quasi) niente, finendo solo per imbastire una tiritera pronta all’uso e funzionante come promemoria nello sgretolamento mnemonico circostante: il ragazzo cresciuto a Merano, trasferito a Bolzano, la laurea in giurisprudenza (si laureò nel 1940, a Bologna, ma si omette che il titolo della tesi era I reati contro la razza ed il patrimonio biologico ereditario nella legislazione nazional-socialista, indicata come raro – anzi, a quel tempo “unico” – esempio di “attenzione scientifico-accademica alla normativa razziale tedesca”), l’opzione per il Reich tedesco, la perdita della gamba sul fronte russo, la conquista del potere, l’omelia del Los von Trient recitata a Castel Firmiano, il convegno del partito a Merano, quello dell’approvazione del Pacchetto nel 1969 (per i sudtirolesi evento più importante del contemporaneo allunaggio), e poi la mummificazione in vita, fino alla statua di legno nel foyer della sede di via Brennero e l’intitolazione della piazza del Potere fatta al grido di “Santo subito!”. Chi oserebbe ironizzare su Magnago? Nessuno. La genuflessione di massa non ammette eccezioni, la critica (ma anche una storiografia appena più dissacrante) non trova nessuno spazio per affermarsi. Un ipotetico Luco si sgolerebbe per nulla. “Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvius mio!”: la recita andrà avanti, senza variazioni apparenti, probabilmente per sempre.

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Questa non è una scuola

Questa non è una scuola

Ho visto il video della brava dirigente scolastica “tedesca” che descrive com’è andato il primo giorno di “scuola” dopo la “riapertura”. Uso le virgolette – attorno alle parole tedesca, scuola e riapertura – perché qui la connotazione eccede di molto la denotazione, e bisognerebbe perciò profondersi in un ampio commento. Dietro a queste parole, infatti, si nasconde un’opposizione (forse più ideologica che pragmatica) che ci porterebbe, se non la affrontassimo con la massima delicatezza, a finire dritti dritti dove non bisognerebbe finire. Ma a Bolzano sembra impossibile non finire dove non bisognerebbe finire. La strada è sempre tracciata. E, del resto, già solo l’esistenza di scuole tedesche e scuole italiane, l’esistenza stessa di tale divisione, dico, non può che indurci a replicare il senso di un contrasto che sta “nelle teste”, prima ancora che “nelle cose”. Cosa è accaduto lo sanno tutti. In estrema sintesi: siccome qui sta riaprendo più o meno tutto, la giunta provinciale ha pensato che all’appello delle varie riaperture non potevano mancare gli istituti scolastici, almeno quelli relativi all’infanzia e di livello primario. Se i genitori tornano a lavorare, infatti, chi accudirà i bambini? Aule aperte, quindi, anche se non per tutti, anzi per pochissimi, e, soprattutto: non per fare quello che di solito si fa nelle aule. Ma a questo punto, ecco la spaccatura. I “tedeschi” (torno a usare le virgolette) dicono sì, va bene, ci adattiamo, faremo quel che possiamo. Gli “italiani” (sempre virgolettati) frenano, recalcitrano, sollevano obiezioni: non esistono condizioni di sicurezza, non possiamo permetterci di aprire un servizio che non è compatibile con le nostre competenze. Chi ha ragione? Come se ne esce? Possiamo parlare veramente di “riapertura delle scuole”, in una situazione del genere? Tornando al video dal quale ho preso le mosse: quel che si vede sono esercizi di distanziamento sociale, più che una vera e propria didattica. O meglio: la didattica, ciò che viene proposto come didattica, è solo “pedagogia emergenziale”, un modo per tenere distanti i bambini, insegnando loro a rispettare delle “regole” che non li spingano a fare a scuola ciò che normalmente si farebbe a scuola. Un paradosso, accettato nel nome della solidarietà, che quindi andrebbe percepito per ciò che è, ossia alla luce dei problemi che pone, non solo in relazione ai problemi – di natura evidentemente extra-scolastici – che magari riesce anche in parte a risolvere. Mi rendo conto di muovermi su un crinale molto scivoloso, perché le persone qui hanno sempre bisogno che venga offerto loro un giudizio definitivo (le scuole andavano riaperte oppure no? Hanno fatto bene i “tedeschi” a dichiararsi – o comunque ad apparire – come disponibili a riaprire oppure i dubbi degli “italiani” sono giustificati e bisognava attendere ancora?). Io ritengo però che la discussione avrebbe dovuto essere essenzialmente un’altra: cosa significa fare scuola in circostanze che non lo permettono? È vero, per discutere ci vorrebbe tempo, e qui di tempo non ce n’è, bisognava fare qualcosa. Ma perché non si può discutere comunque, anche mentre si sta facendo qualcosa, senza usare ciò che si sta facendo (o non facendo) per immiserire e reprimere la discussione della quale, è evidente, ci sarebbe così tanto bisogno? L’ho già scritto in un editoriale e torno a ripeterlo: tra poco ci sarà l’estate e poi tornerà settembre; per quel termine riusciremo a ritrovare il bandolo della matassa, riusciremo a capire in quali condizioni e come lavorare riportando in primo piano le vere esigenze di chi a scuola ci vive (docenti e discenti), al di là del “servizio” di supplenza verso il quale ci siamo adesso dovuti muovere e anche al di là della divisione tra “tedeschi” e “italiani”, divisione che continuiamo a mettere in campo per non pensare alla nostra – evidentemente complessiva – incapacità di affrontare problemi comuni?

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Il campo delle possibilità

Silvia Romano smiles from a window in Milan

In questi giorni ho letto un libro bellissimo: “Le transizioni”, di Pajtim Statovci. Statovci è un giovane autore kosovaro, ma dall’età di due anni risiede in Finlandia. Nel suo romanzo parla di un ragazzo, di nome Bujar, che all’occorrenza “sa diventare una donna”. La notazione, riportata nella quarta di copertina, ha il potere di spiazzare (e chiaramente bisogna leggere il libro per capire esattamente in cosa consista questo “saper” diventare una donna), perché noi siamo siamo sempre inclini a concepire l’identità sessuale come qualcosa di fisso, oppure anche come qualcosa di mobile, ma che comunque, alla fine, ha di mira una nuova fissità. Un uomo può diventare una donna, una donna può diventare un uomo, ma cosa significa che un uomo, come in questo caso, “sappia” diventare una donna? Perché non lo diviene una volta per tutte? Statovci qui ci propone un altro modello. L’identità sessuale del protagonista è per così dire conservata in uno stato di permanente liquidità. Quando, da un altro uomo che sta diventando una donna, un transgender, a un certo punto gli viene rivolta la domanda “Tu sei gay?”, Bujar riflette e pensa di poter rispondere così: “Non so se sono gay o etero, mi verrebbe da dire. Vorrei dire che non mi sono mai piaciuti gli uomini a cui piacciono altri uomini, di fatto mi piacciono soltanto gli uomini attratti dalle donne, che dunque non sarebbero attratti da me, ma comunque sono stato con delle donne, e vorrei dirle che, anche senza riuscire ad eccitarmi, ho comunque fatto sesso sia con uomini che con donne quando nella mia vita ci sono stati uomini e donne che volevano questo da me”. Mantenersi in uno stato di permanente liquidità, di sospensione, avendo il talento o la ventura di precipitarsi in forme identitarie che cambiano a seconda delle circostanze non è facile, è una condizione difficile da sopportare perché la maggioranza delle persone reagisce con ostilità a questo campo di possibilità aperte, e vorrebbe costringere chi ha deciso di abitarvi a ridurre l’oscillazione in una sagoma fissa. Ciò vale per l’identità sessuale (disciplinata da stereotipi appresi fin dalla prima infanzia), ma anche per tutte le altre identità che ci contraddistinguono: quella culturale, quella linguistica, quella sociale e ovviamente quella nazionale e religiosa. Chi nasce in un determinato contesto viene così immediatamente inchiodato dalla richiesta di immobilizzare il proprio essere in una forma rigida: le sfumature sono viste come qualcosa di sbagliato, le escrescenze dalla “normalità” devono essere amputate in fretta, pena la stigmatizzazione, la qualifica infamante della “diversità” e l’emarginazione. Davanti allo spettacolo di una metamorfosi, di una “transizione”, l’atteggiamento prevalente sarà perciò l’incomprensione, il dileggio, la condanna. Siamo tutti invitati a recitare la parte che qualcun altro cerca incessantemente di cucirci addosso, scartare di lato è considerato un tradimento, un’offesa alla tribù dalla quale nessuno può permettersi di evadere. Eppure, ci racconta Statovci nel suo bellissimo libro, “nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle”, e noi troveremo sempre il modo di sfuggire alle pietre scagliate dai fanatici delle identità fisse.

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Le parole che non cambiano più nulla

Alberto-Giacometti-Place-crop

Noi non scalfiamo nulla, parliamo e non scalfiamo l’incrostazione che circonda chi ci ascolta, fatta di frasi che si oppongono alle nostre, anzi le respingono, anzi le assorbono, perché ogni nuova frase è tradotta immediatamente in un gergo dato per acquisito, nato morto, mai vissuto, mai compreso, perché comprendere è inutile, quando si crede di aver già sempre compreso. Non rinunciamo al dire, perché anche questa, in fondo, è un’abitudine incrostata. Abitudine inutile e presuntuosa (ogni presunzione è inutile). Ma sarebbe meglio il silenzio? Non credo. Sarebbe uguale. Anche il silenzio, infatti, è scavato da un comprendere muto che lo accoglie nel suo indefinito mormorio di fondo, e una parola mancata verrebbe comunque attratta da questo mormorio, verrebbe immediatamente sostituita da un’altra parola vuota, meccanica, anche si concentrasse nella sola replica sensata: “ehi, ma perché allora non parli”? Quando si sente parlare del cosiddetto ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea a me viene allora in mente una scena così. Ci sta questo intellettuale, invitato alla televisione, che parla, parla, parla, svolge le sue argomentazioni, ma nessuno lo sente, nessuno se ne cura, nessuno gli dà la considerazione che lui (o lei, ma molto raramente si tratta di una “lei”) vorrebbe ottenere. Anche se la televisione è accesa con il volume al massimo, è come se quell’intellettuale parlasse senza audio, muovendo la lingua e le labbra a vuoto, senza riuscire a farsi sentire. E infatti non riesce a farsi sentire. Chi lo ascolta non lo ascolta. Chi lo guarda non lo vede. Chi gli sta davanti nota particolari insignificanti. È possibile che qualcuno si accorga del colore della sua giacca, dell’acconciatura dei suoi capelli, delle borse sotto gli occhi. Ma nessuno, ripeto nessuno, si accorge di quello che sta dicendo, nessuno mostra il minimo interesse per ciò che sta affermando. L’indomani, certo, è possibile che la registrazione del suo intervento venga diffusa dai social, è possibile che vengano stesi commenti, che si accendano persino discussioni. Ma tutto ciò prescinde dal contenuto di quello che è stato detto. I due terzi di tali discussioni verteranno quindi sulla giacca, sull’acconciatura dei capelli, sulle borse sotto gli occhi. Di altro non si ragionerà. Se al posto dell’intellettuale ci fosse stato un manichino, una macchina parlante, sarebbe assolutamente lo stesso. La situazione, questa situazione è così radicata che si stenta a credere all’esistenza di altre epoche, ovviamente molto passate, in cui la parola dell’intellettuale riusciva davvero a scalfire qualcosa, a colpire le coscienze, come si diceva e ormai non si dice più. L’intellettuale più piccolo di tutti, vale a dire l’insegnante, conosce benissimo questa condizione. Anche lui si agita davanti a chi non lo ascolta, e se viene ascoltato è frainteso. Non esiste una possibile redenzione. Questa situazione non è passeggera, essa costituisce il perimetro entro il quale noi compiamo e compiremo ogni nostro movimento. La probabile massiccia estensione delle modalità comunicative in remoto (in pratica una completa e radicale televisionizzazione del mondo, ancora più radicale di quella che abbiamo conosciuto sinora) spazzerà definitivamente via le ultime retroguardie dell’attenzione, e quindi anche dell’attesa di una parola che ci raggiunga e cambi le cose.

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La fine dei bar

Caffè

Una delle cose più tristi che ho visto, in questi giorni di incerto interstizio tra la cosiddetta “fase uno” (di chiusura) e “fase due” (di zoppicante riapertura) nella strategia di contenimento del Coronavirus, è un servizio giornalistico sullo stato d’animo dei baristi, che a quanto pare potranno togliere i sigilli ai loro locali solo a partire dal primo giugno. Com’era prevedibile, infatti, le cose non andranno molto lisce, non sarà insomma possibile tornare alla situazione precedente il lockdown e ci saranno limitazioni responsabili di incidere in profondità nello stesso modo di percepire lo spirito di questi posti. I bar, i caffè e tutti gli altri luoghi deputati alla ristorazione veloce che dispongono (disponevano) di uno spazio prevalentemente interno dovranno osservare protocolli igienici molto stretti, ridurre il numero e l’afflusso di clienti e ripensare alla radice il loro modo di esistere. Qualcuno, per esempio, ha già cominciato a montare dei pannelli, degli schermi, insomma delle barriere di plexiglas in modo da aumentare la sensazione di protezione e rendere più “sicuri” gli ambienti. Ma un bar, un caffè, un ristorante attrezzato in questo modo che cosa diventa, cosa sta per diventare? Quello che rendeva indispensabile (non caratteristico: indispensabile) questo tipo di esercizi era proprio il contrario di quanto sarà ottenibile procedendo alla ristrutturazione in atto. Noi andavamo al caffè non per dividerci dagli altri, ma per godere di quel contatto moderatamente promiscuo che era anche un modo di vivere la socialità in un mondo già ordinato e quindi smembrato in gran parte per compartimenti stagno, un mondo cioè fatto di separazioni visibili e invisibili che proprio la logica del caffè o del bar aveva la capacità, almeno fugace, di sospendere. Mi sono tornate in mente le parole che aprono la bellissima decima Nexus Lecture di George Steiner, “Una certa idea di Europa”: «Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo. Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il suo taccuino. È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club, una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie. Frequentarlo indica già una scelta programmatica. Una tazza di caffè, un bicchiere di vino, un tè con il rum garantiscono un ambiente in cui lavorare, sognare, giocare a scacchi o più semplicemente starsene al caldo per l’intera giornata. È il club dello spirito e il “fermo posta” per chi non ha casa […] Finché ci saranno locali come questi, l’“idea di Europa” avrà un contenuto». Quanti incontri, quanti scontri (anche) sono possibili in un bar. Che magnifico punto di osservazione sul mondo e sugli altri. Pensare che tutto ciò stia per eclissarsi dietro una superficie trasparente in grado – chissà – di proteggerci dalla diffusione del virus è tristissimo, perché quello che così perdiamo (che perderemo) configura una perdita secca anche della nostra identità e della nostra cultura. Personalmente non ho alcuna voglia di andare a prendermi un caffè stando rinchiuso in una gabbia di vetro. È vero, poi magari ci si abitua a tutto e capisco benissimo che chi vuole ripartire sta solo cercando di limitare gli inevitabili danni prodotti dalla lotta esiziale tra salute e lavoro. Io però sono triste, tristissimo e benedirò il giorno in cui anche l’ultimo pannello di plexiglas sarà finalmente rimosso e, spero, dimenticato.

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Terra promessa

Paese fantasama

Be’, e allora sapete che faremo? Ce ne andremo via dalle città, troppo caotiche (quando erano caotiche), troppo affollate (quando erano affollate, ma anche troppo stressanti, ora che dovremo gestire, per chissà quanto, il distanziamento sociale preventivo). Ce ne andremo dalle città e torneremo ad abitare nelle campagne, o sui borghi appenninici, quelli disabitati, che non ci voleva più stare nessuno, ma che adesso, c’è da scommetterlo, torneranno di moda, o ancora di moda, insieme alla cucina a chilometro zero (quella è già nominalmente di moda), ai ritmi lenti, gestibili con il lavoro in remoto, o smart work, il lavoro agile, come si sente dire, e chiaramente un po’ di agri-turismo (poco agri, molto turismo) per gente privilegiata e monitorata, non sia mai che porti code malefiche del virus anche lì. È uno scenario possibile? È uno scenario desiderabile? Nella sua bella rubrica dalla panchina-divano di casa sua, Valentino Liberto ha parlato di un articolo a dire il vero assai critico con questa (ipotetica) prospettiva. L’ha scritto Anna Rizzo e la parte che ci interessa è questa: “Per chi vuole salire sul carro, in cerca di fortuna, arrendetevi. Non è un gioco di posizionamenti, e se c’è qualcosa da imparare da questa pandemia, è che non si può continuare a speculare in aree che non possono essere considerate una terra promessa. Perché non lo sono e hanno tutte le ferite di decenni di malversazioni”. “Non credo – aggiunge poi la Rizzo – che ci sarà un esodo verso i paesi, perché la necessità di una ricostruzione economica sarà urgente, e ci si muoverà verso reali possibilità lavorative. Lo stop che stiamo vivendo è troppo breve per innescare un cambiamento, dovrebbe essere più lungo, prolungato. Qualche mese è un tempo troppo piccolo, che permetterà solo di innescare nuove speculazioni e relazioni nel breve termine, in corsa per accaparrarsi l’idea buona o il prodotto buono da rivendere nel grande mercato. Darà adito a squali e volponi che usano le difficoltà di queste aree per innescare profitti da abbandonare. Come quando dieci anni fa hanno cominciato a comprare paesi e frazioni per abbandonarli subito dopo. Quando hanno scoperto che erano situati in un territorio sismico, e non ne valeva la pena. È la conferma che gli abitanti o la storia locale non vengono mai interrogati”. E conclude: “Non ci sarà nessun ritorno perché non ci sono le infrastrutture di nessun genere. Sono luoghi destinati a subire il divario con le città, adesso più di prima, in maniera netta, subiranno un maggiore isolamento”. Uno scenario sconsolato, perché tarpa le ali alla prima alternativa che, certo in modo superficiale, ci sta passando per la testa. Quindi? Ci vorrebbe un’alternativa all’alternativa, che poi non vuol dire altro che questo: non esiste una terra promessa verso la quale fuggire, non si può fuggire da nessuna parte, in realtà, perché se non riusciamo a risolvere le contraddizioni che ci stritolano già dove siamo, quelle di cui siamo vittime già tra le pareti domestiche, non faremo altro che trascinarle ovunque noi vorremmo e vorremo andare, lasciandole irrisolte e soprattutto capaci di esplodere proprio nel momento (e nel luogo) in cui pensiamo di essercene liberati una volta per tutte.

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Scusate lo sfogo

Corna

Dunque ci stiamo muovendo, con molta fatica e molta confusione, tra la fase 1 e la fase 2. Cerco di caratterizzarle brevemente. La fase 1, detta del “lockdown”, era parsa necessaria per cercare di contenere l’impennata dei contagi e alleviare la pressione sugli ospedali, messi a durissima prova soprattutto nei reparti (carenti) di terapia intensiva. Siamo stati quasi tutti tappati in casa, obbedendo ad un diktat che ci pareva legittimato da un’osservazione elementare: il virus si trasmette quando le persone stanno vicine e si spostano, ergo: allontanandole e immobilizzandole il più possibile il contagio si arresta o decresce. Diciamo che tale strategia ha avuto parziale successo, soprattutto per quanto riguarda il decongestionamento dei reparti di TI. Il contagio però non si è arrestato e, soprattutto, si continua a morire (in Lombardia i dati rappresentano un caso negativo a livello mondiale, e il loro modello sanitario sta presentando un’immagine a dire poco inquietante). Pare acquisito, perciò, che non potremo contare su una sparizione a breve periodo del pericolo, e la fase 2 consiste in fin dei conti proprio in questo: la riduzione del contagio non può più essere ricercata mediante un prolungamento indefinito dell’inattività collettiva, occorre imparare a “convivere con il virus” accettando tutta una serie di limitazioni che muteranno in profondità il nostro stile di vita (e questo si sapeva). Con le buone o con le cattive (e questo si sapeva meno).

Ecco, spero tanto di sbagliarmi, saranno giorni per me forse difficili, ma io penso che le maniere “cattive” avranno la meglio sulle “buone”, e questa non dovrebbe essere una notizia rassicurante per nessuno, neppure per chi ha scoperto recentemente la propria vena da delatore/poliziotto esercitandosi su nuove categorie di criminali: per esempio quelli che si facevano una corsetta nel circondario. Vedo uno scenario di questo tipo: un reticolo di dispositivi stop and go gestiti da più soggetti (stato, regioni, province, comuni, sempre più in disaccordo tra loro), in modo spesso poco chiaro (pensate alla manfrina sui 200 metri che diventano 400, e perché non 450?, pensate alla farsa delle autocertificazioni, pacchi e pacchi e pacchi di fogli che dei poveracci devono poi verificare sudando sulle loro scrivanie di guardiani di stato) e con protocolli di controllo sempre più opprimenti, privi di giustificazioni razionali, e tutti orientati da questo principio: lo stato non capisce cosa sta succedendo, perde la bussola, e picchia sui reprobi, cercando di trovarne il più possibile (quindi facendo malamente cassa). In questo modo si appaga la sete di “giustizia” dei miseri e si possono sviare gli sguardi dal vero, atroce buco che sta davanti agli occhi di tutti: nell’affrontare l’emergenza abbiamo fallito a più livelli. E ancora brancoliamo nel buio.

Mi dispiace molto vederla in modo così cupo (scusate lo sfogo). Ma adesso la vedo proprio così. In modo cupissimo. Riconquistare la libertà, la leggerezza, al prezzo di vedere montare tutta questa marea di stupidità e cattiveria è qualcosa che fiacca il corpo e opprime lo spirito. La sensazione che si ha quando si è costretti a parlare con una mascherina sulla bocca (e sul naso) e le mani imprigionate dai guanti di lattice. E non me ne frega nulla se qualcuno ha detto che “è necessario”. Sarà. Si tratta di una “necessità” che a me toglie la voglia di vivere.

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Uh, com’è difficile restare calmi e indifferenti (mentre tutti intorno alla Murgia fanno rumore)

Murgia Battiato

Vorrei dire solo un paio di cose sulla querelle Murgia/Resto del Mondo della quale ieri hanno parlato tutti e oggi, molto probabilmente, non parlerà più nessuno. La prima cosa è che l’episodio, pur nella sua palese irrilevanza sostanziale, è riuscito perlomeno a intrattenere una parte cospicua della massa dei commentatori un po’ lontano (diciamo per due o tre ore) dall’accapigliarsi su altri temi, senz’altro più decisivi, ma che stanno appesantendo non poco la digestione di chi non fa molto movimento per smaltirne gli effetti: dimmi che mascherina porti e ti dirò chi sei. La seconda cosa riguarda il modo con il quale la querelle si è manifestata in rapporto alla sua costruzione, mutilando cioè il contesto che avrebbe dovuto essere soppesato per capire se si trattava realmente di qualcosa di “serio”, da prendere “sul serio”, oppure di una specie di gioco, o anche esplicitamente di un tranello, nel quale sono poi sono caduti tutti o quasi tutti. L’ultima cosa ha a che fare con la stessa Michela Murgia, cioè con il fatto che stia terribilmente sul cazzo a un mucchio di gente, e che quindi – indipendentemente da ciò che dica, indipendentemente dal contesto in cui lo dica –, appena questa donna apre bocca partono subito le cannonate contro di lei. Ma andiamo con ordine. Per capire quello che è successo (riassunto estremo: la Murgia – discutendo nella rubrica “Buon vicinato”, che va in onda sul suo canale YouTube con un’altra scrittrice, Chiara Valerio – ha detto che Franco Battiato è un intellettuale da quattro soldi e le sue canzonette piacciono solo a chi si beve la sua fuffa senza capirla: e allora, apriti cielo) rinvio a un nitido commento di Anna Allamo. La cito per esteso, ché non saprei dire meglio:

Ho ascoltato con attenzione la puntata dedicata a Franco Battiato, che ha suscitato una reazione che nemmeno Salvini quando ha chiesto di riaprire le chiese per Pasqua. Effettivamente, le affermazioni su Battiato erano estreme, e anche ingenerose. Ma di mestiere io ascolto linguaggi, talora li analizzo, talora li replico. (…) Quindi non ho potuto non notare una smodatezza, un tipo di eccesso che non è solo e interamente ascrivibile all’usus scribendi (…) della Murgia, che ha fatto di certo eccesso verbale uno stile e una modalità comunicativa. (…) Ora, la Murgia sta sul cazzo a molta gente, ancora prima che per i contenuti, per questa sua modalità, che certo è esorbitante e talora fastidiosa, ma ben venga, dico io. E comunque. Da filologa de noantri, mi addentro nella lista youtubbica del “Buon vicinato” (…) e mi avvedo di una pluralità di video con titoli come “Tolkien e quegli stronzi degli elfi”, “La Gioconda è una gatta morta”, “Harry Potter è fascio?”, e alcuni (non tutti, ma mi riprometto di farlo) li ho pure ascoltati, divertendomi. E comprendendo – lì più chiaramente – la cifra di grottesco e provocatorio che è la cifra di queste chiacchiere di “buon vicinato” (…) Devo dire chiaramente – prosegue la Allamo – che la “puntata” dedicata a Battiato mi è sembrata poco felice davvero. E se in un format simile fai perdere la distinzione tra una critica e la fiction di una critica sei in scacco e il problema è tuo, non di chi legge. Quindi capisco perfettamente lo sconcerto di taluni. Ma se non ci si accontenta di quello che dicono gli altri, si va alla fonte, si confrontano i testi e si fa un ragionevole identikit dello stile, delle intenzioni dell’autore (realizzate o no, questo è un altro punto), allora non si può fraintendere. Che minchia siamo a fare acuti semiologi e navigati recensori, se non capiamo la differenza tra le cose dette o scritte, anche quando la differenza è tracciata male e maldestra”.

Bene, tutto qui? Esatto: tutto qui. Resta solo da chiarire l’ultimo punto: perché la Murgia sta sul cazzo a tanta gente e qualsiasi cosa dica attira su di lei gli strali di una critica al 90% gravata da questo pregiudizio di partenza? La mia idea è che anche questo sia un format innescato dalla stessa Murgia, che usa, in un certo senso alimenta e coltiva la sua “antipatia” per far funzionare al meglio il proprio ego. Alla prossima occasione magari cercheremo di capire più esattamente perché lo fa.

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Un microscopio che vola

Drone

Per fortuna non siamo in campagna elettorale, abbattuta, anche lei, dall’emergenza virus: ubi maior minor cessat. Ma anche se non siamo in campagna elettorale, purtroppo, ci tocca assistere a qualche capitombolo di rappresentanti delle istituzioni galvanizzati dal loro ruolo di controllori, e convinti perciò di avere a che fare con una popolazione di indisciplinati “furbetti” pronti a tutto pur di assecondare l’ascesa della virulenza e la diffusione del morbo. Non fa eccezione, anzi, il sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi, il quale aveva già pronta la carta del monitoraggio di massa, affidata al volo di droni posti nelle mani, anzi negli occhi della Polizia Municipale, al fine di reprimere assembramenti e uscite troppo disinvolte dall’unico seminato concesso oggi alla cittadinanza: restare tappati in casa e muoversi solo in caso di estrema necessità. A quanto pare, e per fortuna, non se ne farà nulla o si farà il poco (non so in realtà se si tratti davvero di poco) che già si sta facendo, ma per finalità di diverso tipo. Ora, io non sono tra quelli che giudicano le misure del governo, vale a dire l’ordine di contenere gli spostamenti ecc., un inevitabile prodromo del fascismo tecnologico imminente; non sono però neppure favorevole ad una implementazione a tappeto della tecnologia basata su un assunto tanto semplice quanto pericoloso: il cittadino va colto sempre in fallo, e se non sbaglia lo facciamo sbagliare noi mettendo i suoi comportamenti al microscopio (il drone è un microscopio che vola). Il confronto con l’attuale stato di emergenza sta facendo emergere troppi istinti moralizzatori, trasforma il vicino di casa in un delatore e solletica brame repressive che vanno contenute proprio come se fossero, anche loro, un virus da combattere. Già siamo messi malissimo dal punto di vista del linguaggio (chi usa la parola “furbetto” o “furbetti”, come ha fatto il sindaco-scrittore, dovrebbe piazzare un drone sulla sua tastiera e consentirgli di intervenire lanciando un allarme di avvenuto contagio populistico), se ci mettiamo poi anche questi cazzetti volanti a ficcare il naso ovunque non ne veniamo più fuori. Quando sarà il momento (e secondo me è sempre il momento) dovremo riflettere sulle tante parti in ombra di questa voglia sfrenata di controllo, adesso “coperta” dalle note ragioni. I cittadini, noi tutti, siamo già messi a dura prova dalla reclusione forzata. L’essenziale l’hanno capito tutti, o quasi. Ritenere però che l’esistenza di qualche “sordo” autorizzi chi detiene il potere di fare applicare la legge a dotarsi di megafoni sempre più forti non rende il clima acustico generale più salubre. La strategia che ci piacerebbe vedere messa in atto è quella che punta ad una maggiore responsabilizzazione, non quella che usa “urgenza”, “paura” e “pericolo di vita” per legittimare ogni possibile riduzione delle libertà fondamentali da parte di “sceriffetti” (sono il pandant dei “furbetti”) improvvisati. Io sto a casa finché si useranno argomenti condivisibili di prudenza, non perché bloccato dal terrore che un drone mi cada sulla testa, o un altro microscopio assetato di supposte nefandezze mi entri nelle mutande per verificare se sono abbastanza pulite.

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Una luce nella nebbia

ORSI OR17

Piano piano cominciamo a vederci più chiaro. Il virus e quello che ci sta intorno (ci stiamo noi, intorno) assomiglia a una grande nebbia (e la nebbia è dentro di noi). In questa nebbia siamo andati a sbattere contro diversi ostacoli. Prima c’era la sufficienza con la quale abbiamo appreso dell’esistenza di una curiosa patologia orientale, quindi lontanissima, comunque incapace di preoccuparci sul serio. Poi, quando è sbarcata da noi (sbarcata dagli aerei, non venendo sui barconi dei migranti ai quali in molti, in troppi, attribuiscono ogni male del mondo), abbiamo continuato a non crederci, e ce la siamo presa con i primi cinesi che passavano sotto la finestra. Poi abbiamo ripreso a fare la vita di sempre, ci siamo fatti qualche selfie con altri cinesi (quelli dei ristoranti) e ci siamo detti che noi eravamo comunque fuori pericolo in virtù di una non meglio precisata grazia divina. Errore fatale. Dopo poco, e sempre continuando a muoverci a tentoni, nel gran nebbione, i numeri dei contagi hanno cominciato ad impennarsi. In alcune zone, in Veneto, soprattutto in Lombardia, si cominciava anche a morire, e a morire in modo abnorme. Allora si è propagato il panico. Supermercati svaligiati, treni assaltati da persone che volevano scappare (ma scappare dove?). Così il governo ha deciso di chiudere tutto, sempre di più. Siamo arrivati ad essere il paese in cui l’epidemia del Coronavirus, intanto lievitata a pandemia, miete più vittime, e ci tocca la solidarietà a distanza di chi sembra appena più fortunato di noi. Intanto ce ne stiamo da giorni tutti tappati in casa, ci parliamo, quando rarissimamente ci incrociamo per le strade perlopiù deserte, a tre metri di distanza, e ci chiediamo quando ne usciremo, da questa nebbia, e da tutta questa brutta storia. Però, dicevo all’inizio, intanto qualcosa di più stiamo riuscendo a scorgerla. Vediamo per esempio che il grande numero di morti lombardi non è dovuto a questioni misteriose. Una spiegazione c’è. Il professor Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare e professore di epidemiologia a Padova, in una intervista spero molto letta l’ha messa giù così. Se prendiamo il totale dei positivi in Lombardia (più di 25.000 al 21 di marzo) e lo dividiamo per il numero dei deceduti (più di 3000, praticamente la metà dei morti totali) abbiamo una percentuale incredibile, del 12%. In Veneto sta invece al 3%. Altrove è ancora più bassa. Qual è, allora, il problema della Lombardia? Da dove si origina la nebbia in Val Padana? A mancare – secondo il professore – è il numero dei casi domiciliari: “Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore ma non sono rilevati (corsivo mio). Se si tiene come punto di riferimento il 3% di mortalità si può realisticamente non solo ipotizzare, ma dire che in Lombardia ci sono circa 100.000, non circa 25000 casi, questa è la realtà”. Riassumendo: gli infettati sono molti, ma non vengono contati. Non venendo contati abbiamo a che fare solo con i casi più manifesti, anche quelli più compromessi, per così dire, e quelli appaiono tantissimi. Ovviamente in questa analisi c’è un elemento di preoccupazione (gli infettati sono molti di più di quelli che si credeva) ma anche di speranza (la percentuale dei casi gravi va vista al ribasso, e se riuscissimo, come stiamo provando, ad isolarli, e possibilmente anche a monitorarli, la morsa del virus potrebbe finalmente allentarsi). Intanto, dopo tale acquisizione, un primo concreto elemento positivo: l’assessore lombardo Gallera ha annunciato che per la prima volta dall’esplosione dell’epidemia sta calando il numero delle persone ricoverate. Forse la nebbia ha cominciato a diradarsi.

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Un virus chiamato Odradeck

Virus

Un virus, ormai lo sappiamo, è un piccolo, indicibilmente minuscolo pezzo di materiale genetico racchiuso in una specie di guscio chiamato capside. La sua riproduzione dipende dalla capacità di “infettare” una cellula, e deve quindi essere ospitato. Una delle domande che si sono posti gli scienziati che li studiano è questa: i virus sono una forma di “vita” (ma attenzione: possiamo considerarli “vivi” solo avendo chiarito la loro natura eminentemente parassitaria) più o meno antica delle cellule delle quali si servono per riprodursi? In rete ho trovato la notizia che parla di alcuni ricercatori della University of New South Wales, in Australia, i quali avrebbero scovato un indizio per rispondere: si tratta di un microrganismo rinvenuto nei laghi delle isole Rauer (vicino all’Antartide), simile a un batterio, ma molto più semplice: un plasmide (chiamato pR1SE) che, al pari di un virus, è fatto di piccoli filamenti di DNA. Copio il testo: “I geni che trasporta permettono di creare vescicole, essenzialmente “bolle” di lipidi, che lo racchiudono in uno strato protettivo. Incorporato nella sua bolla protettiva, pR1SE può lasciare la sua cellula ospite per creare nuovi ospiti. In altre parole, pR1SE sembra comportarsi come un virus”. Sembra comportarsi come un virus, tuttavia non è propriamente un virus, visto che è costituito da geni che si trovano solo sui plasmidi, mentre gli mancherebbero altri geni che lo caratterizzerebbero compiutamente come un virus. E comunque: l’ipotesi è che questo plasmide stia alla base dell’evoluzione dei virus, e quindi si tratti di un modello di organismo che, sì, precede la nascita delle cellule. Detto ciò, appare realistico pensare che saranno loro, i nostri predecessori, a protrarsi anche oltre la nostra estinzione, probabilmente parassitando fino all’estremo qualsiasi aggregato cellulare che vedrà la luce tra qualche milione di anni? Ha scritto Tom Whipple in un articolo comparso sul Times: “Un virus non è malevolo. È la forma di vita più pura che esista. Non ha cellule, né cervello né volontà. È una macchina riproduttiva, un frammento di materiale genetico all’interno di un guscio protettivo, il cui unico scopo è quello di riprodurre copie. Non vuole farti del male, vuole usarti. Se muori non va bene. I cadaveri, dopotutto, non starnutiscono. Questo è il motivo per cui quanto più un virus è peggiore per i singoli esseri umani meno è probabile che sia fonte di preoccupazione per l’umanità. Se provoca la morte istantanea, termina con la prima vittima. Se provoca un lieve raffreddore, conquista il mondo”. Questo passo è molto bello, persino tranquillizzante, perché ci propone una specie di alleanza tra noi e i virus, e ci dice che alla fine troveremo un buon equilibrio. Ma in realtà può benissimo non andare così. La chiave è proprio nella sovrana indifferenza – preistorica e per questo futuribile – dei virus rispetto alle nostre finalità (e del resto, l’idea di una finalità è qualcosa che abbiamo inventato noi). Magari noi non ci estingueremo a causa dei virus, ma i virus non aspetteranno la nostra estinzione per estinguersi a loro volta. Il virus mi ricorda un po’ Odradeck, quello stranissimo oggetto di cui parla Kafka nel racconto “Il cruccio del padre di famiglia” e viene descritto come “una specie di rocchetto da refe piatto, a forma di stella, e infatti par rivestito di filo; si tratta però soltanto di frammenti, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra loro e di qualità e colori più diversi. Non è soltanto un rocchetto, perché dal centro della stella sporge in fuori e di traverso una bacchettina, a cui se ne aggiunge poi a angolo retto un’altra. Per mezzo di quest’ultima, da una parte, e di uno dei raggi della stella dall’altra, quest’arnese riesce a stare in piedi, come su due gambe”. Ma a cosa serve, qual è il destino di una cosa così? Ecco come risponde Kafka, dandoci una lezione che vale per ogni cosa esistente, dal virus all’universo: “E mi domando invano cosa avverrà di lui. Può morire? Tutto quello che muore ha avuto una volta una specie di meta, di attività e in conseguenza di ciò si è logorato; ma non è questo il caso di Odradeck. Potrebbe dunque darsi che un giorno ruzzolasse ancora per le scale, trascinandosi dietro quei fili, fra i piedi dei miei figli e dei figli dei miei figli? Certo non nuoce a nessuno; ma l’idea ch’egli possa anche sopravvivermi quasi mi addolora”.

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Al tempo del virus

Roma e mascherine

Potente la suggestione del titolo di Marquez, L’amore ai tempi del colera, tutti ce l’abbiamo nell’orecchio. Che cosa poi si racconti, in quel libro, non è molto importante. Il tempo di adesso non ha neppure a che fare con la carica batterica scatenata dal vibrio cholerae, non sa di antiche miserie, non ne condivide scenari e letteratura. Intanto, parliamo di virus, non di batteri, e la differenza è stata spiegata, registrata, capita o non capita, dimenticata. Anche se gli esperti sono tornati di moda, noi non siamo e non saremo mai esperti (soprattutto: non vorremmo esserlo). Non vediamo più in là del nostro naso, che non possiamo più neanche strusciarci. Ci laviamo le mani, più volte al giorno, cerchiamo di non incontrare nessuno, o in maniera mai troppo ravvicinata. Di cosa è fatto, quindi, questo tempo che sarebbe il tempo del virus? In che modo questa entità microscopica tinge le nostre vite, ne infetta e devasta le abitudini? Possiamo già dire, mentre la stiamo attraversando, dove ci porterà l’immensa deportazione dell’immaginario alla quale siamo sottoposti? Abbiamo osservato tre ondate di emozioni. La prima, più remota, quando si è appreso dell’epidemia in Cina (ormai quasi tre mesi fa). Pochi hanno pensato che si spostasse da laggiù, o se l’hanno pensato hanno creduto che il passaggio non avrebbe causato troppi problemi quaggiù. Per uno strano effetto dettato da generalizzazioni indebite, abbiamo creduto che il confine territoriale e quello etnico erigessero una barriera all’evasione dello spettro: non si sarebbe aggirato per l’Europa. La seconda ondata è così scattata con la prima rilevazione della trasmissione avvenuta, ma era ancora affare di pochi, ancora una ferita inferta a territori che un destino non più avverso si sarebbe poi occupato di cicatrizzare in loco, e comunque abbastanza alla svelta. Il rovescio di questa ondata, paragonabile alla risacca che segue la distensione del mare su una costa, è stato quello di provare a non pensarci, in fin dei conti il tema era già stato prosciugato dalla curiosità mediatica. Ci siamo dunque dedicati ad altro, come chi, avvertendo un dolore mentre dorme, prova comunque a ritrovare il sonno, sperando che la mattina dopo sia definitivamente passato. La terza ondata, infine, è stata quella della consapevolezza legata all’azione. Bisognava chiudere tutto, raggomitolarci dentro casa, impedire al contagio di prendere sempre più campo (e proprio mentre stava prendendo sempre più campo). È calato uno strano silenzio, al quale ci siamo sottomessi, in qualche caso ritenendo che non fosse neppure abbastanza. È sopraggiunto il tempo di uno svuotamento che, in modo incerto, stiamo provando nuovamente a riempire. Abbiamo fiducia che serva, ma non sappiamo quanto dovrà passare, prima che serva davvero. Le nostre abitudini sono state messe in una posizione di attesa. Se incontriamo l’amico o l’amica per strada restiamo a un metro, ci informiamo su come sta andando. Poi ci dedichiamo ad espletare le poche cose da fare, giustificate da un certificato. Chi va in giro senza scopo apparente lo fa calpestando l’ombra di una colpa. Proprio adesso che un cielo “sì benigno” ci sorride dall’alto, e la calda stagione inviterebbe all’aperto. Ma cosa accade in profondità, nel profondo e più profondo di noi? Alcuni lavorano senza sosta, negli ospedali e al fronte delle urgenze, dove il virus non si manifesta solo come un riflesso di un’informazione stregata. Gli altri, e sono la maggioranza, restano attoniti, cercano scampoli di normalità come si cercano gli oggetti sopravvissuti a una catastrofe. Tutti abbiamo timore di pronunciare ad alta voce la parola “dopo”, la parola più desiderata e invocata di tutte.

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Togliere spazio al virus

Contagio

Siccome dobbiamo stare più a casa (non murati vivi, ma comunque più del solito), mi sono preso la briga di leggermi un “istant-book” appena pubblicato sul fenomeno di cui tutti (inevitabilmente) parliamo. Si tratta di un’intervista a Maria Capobianchi, vale a dire la direttrice del laboratorio italiano che ha isolato il Sars-Cov-2, il famigerato Coronavirus. Attenersi alle spiegazioni delle persone competenti parrebbe una pratica ovvia, ma negli ultimi anni era caduta un po’ in disuso, visto che, grazie all’estensione portentosa della superficie dei social, sempre più incompetenti si sono sentiti in diritto (e vorrei quasi dire in dovere) di diffondere le proprie opinioni a cazzo di cane su qualsiasi argomento. Uno degli effetti positivi di questa epidemia è anche l’aver riportato le cose alla loro giusta proporzione: quelli che non sanno niente possono di nuovo essere messi a tacere. Dunque, la frase che nel libro ha attirato maggiormente la mia attenzione è questa: “I virus meno virulenti, che si diffondono maggiormente, sono quelli che provocano una sintomatologia lieve che permette al malato di diffonderli”. Se ci facciamo caso, qui è contenuta la chiave interpretativa del grosso problema con il quale abbiamo a che fare. Non contano tanto gli effetti del virus sui singoli, il suo impatto di mortalità (se è più o meno elevato rispetto ad altre patologie analoghe, se interessa “solo” o in grandissima maggioranza gli anziani immunodepressi ecc.) o in che modo, nel passato, ci siamo comportati di fronte a simili evenienze. La cosa che veramente conta è che questo virus ha un altissimo potenziale di contagio e quindi, di per sé, rappresenta un cospicuo pericolo per il nostro sistema sanitario. Ora, come si è mosso il nostro governo e, in generale, come hanno reagito le istituzioni, ma anche il mondo dell’informazione alla minaccia del contagio? In estrema sintesi: hanno reagito in modo intermittente, estremizzando e banalizzando a seconda dei giorni, e poi affrontando con determinazione il problema quando, purtroppo, gli interventi da fare non hanno più potuto evitare di configurarsi in modo drastico. Solo abbastanza tardi, insomma, si è capito che l’unica cosa da fare era ridurre gli spazi di promiscuità, e – come dice ancora Maria Capobianchi – “identificare i casi, tenerli isolati ed evitare i contatti degli infetti con altre persone”. Adesso però che lo sappiamo, adesso che si è capito che solo sottraendosi al contatto con i possibili contagianti possiamo contrastarlo, dovremmo sospendere ogni tipo di titubanza, di obiezione, e lavorare – tutti! – ad un unico fine: quello di far circolare il meno possibile il virus trasmettendocelo a vicenda. Per esaudire questo compito occorre fidarsi delle istituzioni, degli esperti e di chi ne sa più di noi. Punto. “Tutte le pandemie – conclude Capobianchi – hanno un periodo in cui si espandono e si diffondono”. Noi però possiamo fermare questa espansione e diffusione sottraendoci al contagio, diradando il più possibile le occasioni in cui potrebbe saltarci addosso. Più disciplinatamente obbediremo a questa indicazione e più rapidamente il virus scomparirà dal nostro orizzonte.

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