Elezioni regionali. Resuscitare il federalismo?

Francesco Palermo mi ha cortesemente inviato il suo eccellente editoriale, comparso oggi sul quotidiano Alto Adige.

Le regioni ordinarie vanno oggi al voto per eleggere presidenti e consigli. A quasi nove anni dalla riforma costituzionale che sulla carta ha posto le regioni al centro del sistema di governo, titolari di tutte le competenze non espressamente riservate allo Stato, il federalismo all’italiana è rimasto nei fatti schiacciato dall’assenza di una cultura politica regionale. La campagna elettorale che si è appena conclusa ne è l’esempio più eclatante: trasformata in un test politico nazionale, tanto che i candidati presidenti di centrodestra hanno persino dovuto “giurare” fedeltà ad un “patto per l’Italia e la libertà”, ha fatto sparire dalla scena mediatica i temi sui quali le regioni possono fare la differenza. E invece che di sanità, governance regionale, rapporti con gli enti locali, ambiente, finanza, internazionalizzazione, sviluppo, si è parlato di intercettazioni, aborto, odio e amore, nella migliore delle ipotesi di politiche sul lavoro, tutti temi sui quali le regioni poco o nulla possono incidere.

La colpa della marginalizzazione delle regioni è però in primo luogo delle regioni stesse. Tutte le regioni ordinarie (tranne il Veneto) hanno approvato nuovi statuti, ma salvo poche eccezioni (Emilia-Romagna, Toscana, in misura minore la Lombardia) questi sono l’uno la fotocopia dell’altro. La capacità politica delle regioni (tranne, guarda caso, Emilia-Romagna, Toscana e Lombardia) è quasi nulla. Nessuna innovazione istituzionale, scarsissima creatività organizzativa e normativa, estrema politicizzazione e per di più secondo schemi nazionali e non regionali. Nemmeno l’elezione diretta dei Presidenti (caso unico in Europa) è riuscita a dare alle regioni la forza politica necessaria per camminare con le proprie gambe. Chi non innova non avanza, e la gran parte delle regioni non sono altro che la riproduzione in piccolo della macchina statale, delle sue inefficienze e della sua (sub-)cultura politica.

Ci sono, fortunatamente, piccoli ma importanti segnali di speranza. L’Emilia-Romagna ha un sistema di governance all’avanguardia in Europa; la Toscana ha sviluppato processi decisionali inclusivi e interessanti strumenti di internazionalizzazione e attrazione di investimenti; la Lombardia ha impostato un sistema sanitario misto pubblico-privato che ha consentito di migliorare sia la qualità del servizio, sia i conti pubblici. Il Lazio, comunque vada, sarà guidato da una donna coraggiosa che potrebbe fare la differenza. Sono aspetti positivi, che si spera possano avere un effetto traino, anche se sono ancora troppo deboli ed isolati.

Le Regioni speciali stanno a guardare. Qui non si vota. La maggior parte di esse, tuttavia, soffre dei medesimi mali, tanto più gravi in quanto le opportunità offerte dal loro status giuridico e finanziario sono maggiori. Nessuna regione speciale ha approvato un nuovo statuto, e ciò la dice lunga sul clima di incertezza e di sospetto che circonda le autonomie speciali: nessuna vuole muoversi per timore di perdere i propri “privilegi”, ma non muovendosi questi “privilegi” si erodono per la crescente distanza tra gli statuti ormai obsoleti e il nuovo quadro normativo nazionale ed europeo. A Bolzano e a Trento certo non difetta una cultura politica regionale, nonostante alcuni segnali di arretramento, come le crescenti faide in vista dell’eredità di Dellai e l’incapacità del Pdl altoatesino di trovare autonomamente candidati sindaci (tanto che l’unico punto su cui le diverse anime sembrano concordare è che la decisione vada presa a Roma). I rischi però sono anche qui dietro l’angolo. Per colpa delle altre regioni, che, castrandosi politicamente, rendono di fatto impossibile la creazione di un fronte comune regionale che possa fungere da serio contropotere rispetto al governo centrale e da spinta all’innovazione istituzionale e, chissà, magari anche politica. Ma anche per colpa delle stesse province autonome, che hanno da sempre perseguito una strategia bilaterale nei rapporti con Roma, che ha finito per renderle più deboli che in passato, proprio a causa di questo progressivo auto-isolamento che le ha rese invise alle altre regioni.

Manca insomma una cultura del regionalismo che spinga a fare squadra nell’interesse comune. La spinta in questa direzione non può che provenire dalle regioni (le due province autonome in testa) che hanno una cultura politica regionale, anche se non ancora una cultura politica regionalista. Per un motivo o per un altro, tutte le strategie finora seguite nei rapporti tra regioni e governo (allineamento politico, scontro, conflitto giurisdizionale, bilateralismo) hanno sostanzialmente fallito. E’ giunto il momento di pensarne di nuove. Forse dopo queste elezioni potrebbero essere le due province autonome a farsi promotrici di un dialogo privilegiato tra le regioni dotate di capacità politica. Un’aggregazione informale che vada oltre un troppo difficile bilateralismo e non perda tempo con un pesante e poco utile multilateralismo, ma che crei una rete, politicamente trasversale, di regioni innovative. Nell’interesse delle stesse regioni interessate, e di un intero Paese che ha disperato bisogno di innovazione politica e istituzionale.

10 thoughts on “Elezioni regionali. Resuscitare il federalismo?

  1. NESSUN COMMENTO AGLI OTTIMI RISULTATI DEL PDL E DEL CENTRO-DESTRA A QUESTE ULTIME ELEZIONI REGIONALI ????

    a testiomonianza che questo è un blog fazioso!!!

    Bei risultati:
    Comunque, grazie ITALIA… 😉

  2. cosa vuoi commentare, scusa? l’unico commento possibile consiste nella mera constatazione che l’italia è un paese con una maggioranza di idioti. punto. siccome in democrazia la quantità conta più della qualità ecco che vince berlusconi. che altro c’è da commentare?!

    PS barabba era più stupido e più stronzo di gesù, no? eppure vinse grazie al suffragio popolare (in quel caso nemmeno falsificabile perché direttamente espresso).

  3. Un buon commento al risultato elettorale è una poesia di Vittorio Sereni, intitolata “Saba” (il poeta). Per capirla meglio, il “18 aprile” è quello del 48, dopo le elezioni politiche in Italia. Buona lettura anche a te, Berto.

    «Berretto pipa bastone, gli spenti
    oggetti di un ricordo.
    Ma io li vidi animati indosso a uno
    ramingo in un’Italia di macerie e di polvere.
    Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
    ho conosciuto che di sé parlando
    e ad altri vita chiedendo nel parlare
    altrettanta e tanta più ne desse
    a chi stava ad ascoltarlo.

    E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
    lo vidi errare da una piazza all’altra
    dall’uno all’altro caffè di Milano
    inseguito dalla radio.
    Porca – vociferando – porca. Lo guardava
    stupefatta la gente.
    Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna
    che ignara o no a morte ci ha ferito.»

  4. @berto
    Aber hat deine Partei nicht Stimmen verloren? Und hat nicht DIE Partei gewonnen, die als Slogan “ROMA LADRONA” und “PADANIA LIBERA” hat? Und das findest du gut für DEIN Italien? Caro Berto, nello statuto della LEGA é descritto bene, dove vogliono arrivare! Leggitelo bene quello statuto prima di gioire per dei risultati elettorali fortemente secessionistici!!

  5. Si, difatti! Come partito PdL non è stata proprio una vittoria al nord (eccetto la Lombardia dove trionfiamo sempre), ma come coalizione si… fatto che mi preoccupa, appunto l’avanzamento della LEGA NORD è PERICOLOSO!
    Mentre al SUD la situazione è migliore, si può dire di aver vinto come partito… 🙂

    ALE

  6. Ma se va avanti cosi, rimarrá solo il Sud come Italia, il resto diventerá LA PADANIA! Se non come stato, almeno come regione autonoma, che se ne frega del resto d’Italia, che non pagherá piú milliardi per un’Italia, che non c’é piú!!

  7. Pingback: La Lega al dito. « blaun.eu Abetone-Brennero.

  8. Ach Berto, wenn Südtirol mit der neuen Steuerautonomie das Geld selbst verwalten wird oder muss, wird man bald merken, dass wir kein Italien brauchen, das uns bezahlt, anzi, eher umgekehrt. Denn wir hier zahlen Steuern, was man man im meridionalerem Teil dieses Staates ja nicht unbedingt behaupten kann!

  9. Jonny in parte hai ragione, ma le cose cambierebbero comunque, niente più sperpero di denaro…solo il minimo necessario e con quelche sacrificio!

    Te lo assicuro che il Suedtirol senza l’Italia non sarebbe questo Alto Adige, ma sarebbe al livello delle peggiori valli austriache… e anche i nostri contadini lo sanno bene!

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