La versione di Terry

Secondo me è istruttivo ascoltarsi bene i ragionamenti di questa prostituta moderna. Terry De Nicolò, una delle molte giovani donne che negli ultimi anni hanno partecipato a frotte alle cosiddette cene “eleganti” del premier (in realtà volgari riunioni organizzate da personaggi squallidi per sollazzare un povero vecchio miliardario dipendente dal sesso e dunque, come lo definì correttamente la ex moglie, malato). È interessante, dicevo, perché qui, senza tanti fronzoli e con una lucidità superiore a quella, poniamo, di un Sandro Bondi (l’imbelle addetto alla “filosofia dei valori” del Pdl), viene espressa molto bene la filosofia elementare ed esaustiva della cosiddetta “destra di governo” (vero, anche quella di molti esponenti di sinistra alla prova dei fatti non si discosterebbe troppo da questa, a parte la disponibilità di mezzi economici a sostegno, fatto citato anche in modo preciso da Terry De Nicolò). In cosa consiste dunque questo modo di pensare, questa filosofia? Prima di tutto nella divisione del mondo in due categorie: da un lato i furbi, i forti, i “leoni”, che possono, anzi devono con ogni mezzo affermarsi, anche agendo fuori dalle regole, anzi inevitabilmente agendo fuori dalle regole (altrimenti si resta “piccoli”); dall’altro i coglioni, i deboli, le “pecore”, quelli che magari a causa di troppi scrupoli morali o per manifesta inettitudine sono destinati a vivere con 2000 euro al mese e a non godere della vita. Declinata secondo la differenza di genere (che una come Terry De Nicolò riporta con orgoglio a una condizione di “natura immutabile”), colpisce poi il ruolo attribuito alle donne: chi è racchia stia a casa e non rompa i coglioni (ma già Berlusconi, quando citava Rosy Bindi, in fin dei conti ha sempre detto le stesse cose). Finito. Il messaggio è tutto qua. Occorre forse scandalizzarsi?

No. Tutt’altro. Le affermazioni di Terry De Nicolò sono in realtà delle noiose banalità. Non c’è neppure bisogno di scomodare il vecchio darwinismo sociale, ovvero il concetto di “lotta per la vita” che qui verrebbe ridotto a misura di “mignotta” e “mignottaro”. E la bellezza come arma per la supremazia bio-estetica, poi. Con l’avallo teorico del solito Sgarbi, il critico d’arte più citato dagli analfabeti di arte. Ma dove sta allora tutto l’interesse di cui parlavo? Sta esattamente qui (ascoltate bene quello che dice Sallusti, in coda al filmato): Terry De Nicolò ha enunciato con grande precisione tutto quello che c’è da sapere su questi agghiaccianti 17 anni berlusconiani che finalmente ci stiamo lasciando alle spalle. Non è vero, come dice Sallusti, che Berlusconi non è solo questo, che c’è dell’altro, che bisognerebbe fare un’inchiesta per mostrare tutto quell’altro che c’è (certo, all’orrido non c’è limite, e basta immaginarsi un programma televisivo o un articolo di giornale, anzi de IL GIORNALE, dedicati all’elenco dei destinatari della beneficienza di Berlusconi per sudare freddo ed essere aggrediti dai conati di vomito). Purtoppo per lui (ma anche per noi), il fenomeno Berlusconi, il suo stile, il suo mondo, la sua cultura politica e imprenditoriale, insomma tutto ciò che lo riguarda si risolve interamente e coincide esattamente con quanto affermato da questa poverina. Senza nessuno, ma proprio nessuno scarto. E questo è anche il motivo del suo grande successo. Solo questo. Nient’altro che questo. Uscirne fuori sarà tutt’altro che semplice.

 

I fondati timori degli immigrati

Il consigliere provinciale dei Freiheitlichen Sigmar Stocker ha fatto a mio avviso una pessima figura, ieri l’altro, inveendo contro un piccolo gruppo di concittadini “stranieri” (anzi, in prevalenza di concittadine, visto che si trattava di sette donne e un solo uomo) riunitosi a dimostrare pacificamente contro la proposta di legge sull’immigrazione attualmente in discussione a palazzo Widmann. “Siete solo capaci di lamentarvi, in giro ci sono tanti sudtirolesi che hanno problemi più gravi dei vostri, ma loro non vengono qui a manifestare perché sono persone educate”, questo il disarmante contenuto delle sue esternazioni. “Sputano nel piatto in cui mangiano”, la deleteria conclusione. Purtroppo non si tratta di parole dette senza riflettere, sulle quali si potrebbe eventualmente sorvolare. Esse corrispondono a un pensiero assai strutturato e tenace, temo addirittura molto diffuso, ed è dunque necessario spendere un paio di considerazioni al riguardo.

 Il motto che informa lo spirito della legge intitolata all’integrazione degli stranieri suona “promuovere ed esigere”. Nella sua relazione di minoranza, letta in Consiglio e poi pubblicata sul suo blog personale, Riccardo Dello Sbarba ha parlato però di “Fordern und Fördern”, pretendere e sostenere, significativamente messi in quest’ultimo ordine di precedenza. Qui si sente fortemente la mancanza di un terzo concetto. Quello di “Anerkennen”, riconoscere. Riconoscere è un verbo più sfuggente di quel che sembra a prima vista e contiene parecchie sfumature, tutte importanti per il discorso che stiamo facendo. Quelle che c’interessano di più sono rese così dal vocabolario on line della Treccani: “Conoscere una persona o cosa quale è realmente, nella sua essenza o in una sua qualità”; ma anche: “Dichiarare di conoscere, considerare valido e operante, accettare o ammettere ufficialmente o apertamente”; infine, adottando la forma riflessiva: “Sentirsi partecipe, consenziente”. Riconoscere significa insomma ammettere il contributo fondamentale di ciò che stiamo “riconoscendo”, è un gesto di apertura e di fiducia preliminare, indispensabile per collocare in un più giusto contesto qualsiasi “promozione” ed “esigenza” che potremmo adottare in seguito (e solo in seguito).

 Chi invece approva l’impostazione secondo la quale “gli stranieri sputano nel piatto in cui mangiano” non è disposto a riconoscere alcunché, ma al contrario si aspetta una forma di “riconoscenza” a fondo perduto. In questo caso però non si può dare alcuna effettiva partecipazione o un reale consenso: solo passiva accettazione dell’esistente e alle condizioni poste dall’esistente. “Senza di noi niente di noi”: lo slogan scelto da quei manifestanti ha dimostrato che i loro timori erano purtroppo più che fondati.

Corriere dell’Alto Adige, 17 settembre 2011