Tarli

Alberto Burri, Grande Legno

Alberto Burri, Grande Legno

A tutti i sapientoni plurilaureati che non sanno distinguere una termite dal collo giallo da un capricorno delle case, a chi non ha mai sentito pronunciare la parola rosura, a chi non è in grado di scavare una galleria come si deve, possibilmente parallela alla direzione delle fibre, quello che sto per dire sembrerà incomprensibile o sconveniente, o nella migliore delle ipotesi inventato: eravamo uomini e diventammo tarli per necessità. Come spiegare a chi non ne abbia esperienza che attorno a noi c’è solo legno, legno, nient’altro che legno? Legno duro, dolce, liscio, nodoso, da ebanisteria, pregiato. Legno e ancora legno. Esiste un poeta che non voglia cantare le sue straordinarie qualità? Asse, nodo, rodere, segatura, scanalare, fenditura, galleria, lignina, addentare, cipollatura, scavare, scandola, fori di sfarfallamento. Non prendiamoci in giro, per favore: questo è il nostro mondo, il nostro vocabolario è tutto qua. L’immaginazione, se si libra, spicca un volo macchinoso da questo repertorio! Anche il vociare che ci assorda, questi suoni che tagliano l’aria in verticale e cadono spessi e fitti come una pioggia di trucioli arricciati, è solo legno. Polvere di legno, lana di legno, balsa, massello o compensato. Ma legno è anche il silenzio nel quale ci ritiriamo per pensare. Non facciamoci beffe di questa complessità!

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Quest’asse gigantesca fu eretta a nostra protezione. Per timore del nemico, ci appiattimmo su quell’asse e non riuscimmo più a staccarci. Eravamo uomini e diventammo tarli per necessità. Non senza sforzo, imparammo a digerire la lignina. Legno, legno, solo legno! Dopo un periodo di adattamento, le nostre bocche trovarono quel legno delizioso. Gli occhi dei nostri figli, non appena si aprirono alla vita, videro legno dappertutto. “Stai bene attento,” dicemmo al nuovo nato “la nostra casa è anche il nostro alimento. Noi siamo fatti così: viviamo nel legno e lo mangiamo. Il tuo compito è scavare gallerie. Le migliori sono quelle a meandro con brevi tratti rettilinei. Dietro di te, mentre procedi, si forma un vuoto circolare che si allunga. Ma tu guarda avanti, figlio mio. E scava, scava a più non posso!”. I nostri nemici, nel frattempo, incrociarono le nostre gallerie. Li incontrammo nei crocicchi. Non di rado, scavammo contro di loro e loro a nostro danno. A volte abbiamo imbrattato i loro cunicoli di escrementi o li abbiamo intasati di muffe e polvere di legno. In momenti di grande distensione ci siamo accoppiati su morbidi letti di segatura, o ci siamo sfidati con spirito sportivo, rodendo parallelamente, con le gallerie che decorrevano vicine, separate da uno strato di legno impercettibile. Che tempi, ragazzi, che tempi! Abbiamo deposto le nostre uova nelle loro gallerie e loro nelle nostre. Ora è tutto confuso. I nostri nemici scavano come noi, rodono come noi. Se li guardi in controluce, ci assomigliano, ma troppo. Capita anche che le nostre mandibole mastichino all’unisono. Siamo vicini, troppo vicini! I nostri corpi stretti si sovrappongono ai corpi dei nemici.

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 Ogni tanto, quando distese di legno si estendono a perdita d’occhio evocando in noi paesaggi favolosi di travi gigantesche e palissandro, il nostro cuore si sfa. Allora ci chiediamo: “Ha ancora senso questo tavolaccio che separa?”. Qui il legno è tutto mangiato. Non pochi tarli che vivevano di là, dall’altra parte di quest’asse sforacchiata, sono passati di qua, mentre alcuni di noi, allo stesso modo, si sono avventurati all’incontrario sbucando fuori dalla parte del nemico. Altri si muovono a loro agio nel vuoto delle gallerie, vanno avanti e indietro, e in quell’andirivieni hanno trovato un senso e un’armonia. Altri ancora, non molto numerosi ma senz’altro più visibili, non si sono mai mossi dal loro punto di partenza. Questi infelici se ne stanno di là oppure di qua, irrigiditi come legno incastonato dentro il legno, terrorizzati dal rumore inconfondibile dei tarli in movimento. Tic tac, tic tac, tic tac. Un suono secco, ripetuto, un ticchettare ritmato di lancetta: forse per questo ci chiamano orologi della morte. Tic tac, tic tac, tic tac. In realtà è un suono di festa e rimbomba nei cunicoli durante la riproduzione. “Sembra una marcia,” dicono gli infelici “si tratta senz’altro di una marcia punitiva”. Tic tac, tic tac, tic tac. “Eccoli che arrivano,” strillano ora gli infelici “stanno arrivando in numero grandissimo!”. Tic tac, tic tac, tic tac. “I nemici sono qui. Tra un po’ ci ammazzeranno!”. I nostri infelici, adesso, sono proprio infelici.

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 Talvolta succede che una grossa nuvola di segatura si diradi e nel chiarore del cunicolo mi appaia un mio parente. Proprio come me, ha il dorso chiazzato di peluzzi giallo oro che si raccolgono in ciuffetti. E io mi chiedo: sarà un nemico? Un amico? Uno che gira in lungo e in largo e non la smette di scavare? O è uno che ha paura e si è fermato? E mia madre? L’ultima volta che l’ho vista mi sembrava una di noi. Mio fratello invece no, lui è un nemico dichiarato e lo spiattela ai quattro legni. E miei amici? Sono tarli bravi o malandrini? E io? Chi sono? Un mio amico? Un nemico del cugino di mia zia? Un amico degli amici? È meglio che mi fermi qui, altrimenti i miei pensieri si contraggono e diventano legnosi.

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 Legno, legno. Questo legno che separa è un carcere degli occhi e fa correre lo sguardo per distese interminate. È incomprensibile. È chiarissimo. È magnifico e agghiacciante. Esiste un materiale uguale a questo? Una volta stabilito che il legno non ha senso, perchè dovremmo tentare di disfarcene? Un parruccone pluridecorato, uno che colleziona lauree di corteccia, dice che la separazione è l’unico spazio che ci unisce. E come dargli torto? Questo vecchio caro tavolaccio, questo legno rosicchiato e frusto é la casa comune che abitiamo e il nostro alimento. Legno, legno. Non si vede altro che legno. Tutti ne parlano e non fa più paura. Adesso, semmai, ci spaventa la perdita del legno. Cosa mangia un tarlo se gli tolgono il legno? Se un nuovo paesaggio avesse a manifestarsi, magari di metallo lavorato, siamo sicuri che le nostre bocche sarebbero in grado di nominarlo? Le nostre mandibole di masticarlo? Separarsi dalla separazione: che sciocchezza! Altre storie, altri momenti! La correzione, non di rado, è peggio dell’errore. Da qualche tempo, una domanda devastante ha preso ospizio nella nostra mente e la rode come uno stupido insettaccio rode il legno: per noi tarli, lì fuori, c’è qualcosa? Oltre il legno che abitiamo, esiste un altro spazio in cui sia possibile pensare, mangiare, raccontarsi? [edz]