“La generazione”: libro della raggiunta consapevolezza

Ci sono giorni possibili, altri mondi immaginabili, finché siamo giovani

(S. Lenzi)

L’esordio letterario di Simone Lenzi – sto parlando dell’opera “La generazione” (Dalai editore, 2012) – non è in realtà un vero esordio. Non tragga dunque in inganno la forma scelta dall’autore per riversarvi la sua scrittura (si tratta di un breve romanzo): ogni pagina rivela una meditazione stilistica assai raffinata ed espone, anche a un primo sguardo, una stratificazione che non solo è possibile, ma addirittura necessario leggere alla luce della sua produzione “non letteraria” (meglio: “non apparentemente letteraria”) precedente questo libro: essenzialmente, ma non “solo”, canzoni. In termini strutturalisti (uso questa spiegazione anche con ironia, giacché sono piuttosto scettico che nel caso specifico occorra il ricorso allo strutturalismo per parlare di – e soprattutto godere – questo romanzo) si potrebbe dire che se nella produzione letteraria la forma e la sostanza dell’espressione diventano (forma del) contenuto, Simone Lenzi è talmente “letterato” da fregarsene abbastanza della rigidità di un simile formalismo. Sarà dunque l’esigenza posta dal contenuto a scegliere di volta in volta la forma più adatta allo scopo di esprimerlo. A questo punto tra canzoni e romanzo la linea di confine si assottiglia parecchio.

Di cosa parla “La generazione”? La trama può essere resa in modo stringato: c’è un protagonista che fa il portiere di notte in un albergo, ha raggiunto più o meno la metà del cammino della sua vita (oggigiorno collocabile intorno ai quarant’anni), è sposato, vuole (anzi: “vorrebbe”) avere figli, ma i figli non vengono. La coppia si sottopone quindi a un programma di fecondazione assistita e l’argomento è trattato con una sapiente miscela di descrizioni tratte dall’esperienza diretta, d’inserti ricavati dalla letteratura scientifica sull’argomento della generazione e riflessioni personali (forse perché conosco alcuni retroscena, ma a tratti il libro di Lenzi mi ha ricordato alcune pagine di “Sguardo e destino” di Aldo Giorgio Gargani). Non rivelo il finale per ovvi motivi.

Nessuna trama però può svelare qualcosa di veramente essenziale sul contenuto di un libro (sempre che si tratti di un testo autenticamente letterario, ça va sans dire). Dunque la domanda va ripetuta: di cosa parla “La generazione”? Vorrei azzardare un giudizio (anche se “il giudizio è difficile”, come recita il titolo ippocratico dell’ultimo capitolo) che sfrutti appieno l’ambiguità del titolo: “La generazione” è (anche) un libro generazionale sull’acquisizione di una consapevolezza filosofica. Muovendo insomma dai problemi più manifesti dei quali esso tratta, il testo sprigiona gran parte del suo senso a partire dalla luce diffusa di un’intera epoca, la nostra, che pur restando sullo sfondo dell’intreccio, riesce parimenti a chiarirlo. Questa medesima luce, poi, si allarga fino a toccare le cose ultime con le quali ogni uomo (e ogni donna) che nasce prima o poi è chiamato (è chiamata) a confrontarsi.

Il correlativo oggettivo di un simile Zeitgeist è costituito dalle rotatorie, nelle quali il protagonista teme di perdersi non riuscendo a scegliere il momento per centrare l’uscita giusta. Il nostro portiere di notte, assorbito nelle letture sul tema della generazione in senso procreativo, intuisce oscuramente questo nesso. E se un supplemento d’insonnia l’avesse portato ad estendere le sue ricerche appena di un palmo, avrebbe potuto per esempio scoprire che il primo comune italiano ad adottare la cosiddetta “rotonda” fu Lecco, nel 1989. È dunque proprio a quell’altezza temporale – precisamente, alle soglie degli anni novanta, com’egli pure arriva a supporre – che in Italia si colloca quella particolare frattura culturale in grado di dissolvere in pochissimo tempo il mondo così come noi l’avevamo fin lì conosciuto.

Di cosa fosse fatto quel mondo, quali particolari strutture esso rendesse cogenti, condizionando con ciò la vita degli individui che vi abitavano, è spiegato all’inizio in modo inequivocabile mediante un’altra immagine “densa”, vale a dire un libro d’istruzioni, un vero e proprio manuale per la produzione di una donna di casa perfetta, che rappresenta evidentemente la soglia antropologica, ma anche epistemica, spazzata via dalla successiva epoca delle rotatorie. Mentre infatti in un mondo informato dai principî della precettistica del “Libro d’oro della donna” è l’intersezione tra rigorosi elementi verticali e orizzontali a costituire un sicuro ordine di riferimento “cartesiano” (e sulle strade avremo il corrispondente “incrocio” a disciplinare con la sua gerarchia di precedenze il flusso del traffico), in un mondo sempre più invaso dalle rotatorie il flusso (non solo quello circolatorio) è pensato per non essere mai interrotto, ma solo rallentato. Un mondo che non obbedisce a segmentazioni gerarchiche, ma invita chiunque vi si trovi coinvolto a restare nell’incantamento del suo rondò illusoriamente democratico e giovanilistico. È insomma l’epoca delle possibilità infinite, di un’ermeneutica costantemente reversibile e modulabile senza l’assillo di conformare l’esito di una lettura immaginifica all’oggettività del testo, e di una vita mortificata spesso dalla tecnica che in modo inevitabile cerca di scorgere proprio nella tecnica l’opportunità di manipolare i limiti stessi della vita.

Sarà la realtà (è sempre “la realtà”, vale a dire ciò che non si lascia determinare a priori) a fornire risposte opposte all’esito scontato di un programma costruito in base al desiderio ingenuo dell’affrancamento da ogni imprevisto. Disciplinata in rigidi reticoli ortogonali o liberata in una circolarità senza capo né coda, la vita non cesserà di essere breve, l’arte non diventerà più succinta, l’esperienza non smetterà di tenderci i suoi tranelli, gli esperimenti continueranno a essere rischiosi e il giudizio rimarrà comunque difficile. Bisogna esserne consapevoli. “La generazione” è per questo il libro di una raggiunta consapevolezza.