Coriandoli di memoria per Hans Heiss

Fotografia di Leo Angerer

A causa di un impegno di lavoro, ieri non ho potuto essere presente alla festa di compleanno organizzata da alcuni amici per Hans Heiss. Più di un anno fa avevo scritto per lui un testo un po’ eccentrico da inserire nella Festschrift donatagli per l’occasione. Evidentemente si trattava di un testo “troppo” eccentrico, infatti non è stato accolto nel libro. Poco male. Lo pubblico qui in una versione comprensibilmente abbreviata. E comunque, anche da parte mia, auguri caro Hans. E auguri anche a me.

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Someone must be there (F. Kafka)

Vorrei richiamare tre frammenti, tre coriandoli di memoria che mi legano profondamente ad Hans. Si tratta di frammenti per così dire minimi, non bastevoli neppure a schizzare qualcosa che sia simile a un ritratto. Eppure incidendosi con profondità nella percezione che ho di lui, anzi contribuendo a formarla, credo possano restituire, io soprattutto spero restituirgli, il senso del suo benefico effetto sull’ambiente che poi è diventato (giacché si è trattato di un progresso personale) anche il mio ambiente. Non è ovviamente un caso che in tutti e tre questi ricordi affiori l’immagine di un hotel, del “suo” hotel – in modo fuggevole nel primo e nel secondo, più esplicitamente nel terzo –, che per me rappresenta anche il luogo nel quale preferisco pensarlo e pensarmi insieme a lui.

Il primo frammento risale a dieci anni fa. Probabilmente all’inizio di marzo, e posso essere abbastanza preciso, io che non possiedo alcun calendario, perché stava per nascere mio figlio Paolo. A quel tempo lavoravo presso la scuola alberghiera Emma Hellenstainer di Bressanone. Il preside della scuola era allora Sepp Kusstatscher, che qualche anno più tardi sarebbe diventato un collega di partito di Hans. La scuola aveva organizzato un piccolo convegno sul tema della relazione tra gastronomia e territorio – suppongo ci sia stato anche un richiamo alla “tradizione”, immancabile – e ad Hans era stata affidata la relazione principale in virtù sia del suo mestiere di storico, sia della sua competenza su temi analoghi, appartenendo a una famiglia di albergatori e avendo condotto studi sul fenomeno turistico nelle valli alpine. Anche a me, insegnante d’italiano, venne affidata una relazione, e decisi di parlare dell’influenza della cucina italiana qui in provincia di Bolzano in seguito all’annessione del 1919. Quello che mi colpì fu l’estrema serietà con la quale Hans si preparò per l’evento. Avrebbe potuto scegliere un registro colloquiale e informale, estraendo dal suo repertorio di conoscenze nozioni interamente schiacciate sulle possibilità di comprensione di un giovane e inesperto auditorio. Invece la sua fu una lezione “universitaria” in piena regola, puntuale nei riferimenti e adeguata alla complessità di un’impostazione metodologica rigorosa (anche se certo adatta al contesto e per nulla “noiosa”). Dopo che anch’io ebbi letto il mio testo (l’avevo faticosamente composto in tedesco) venne da me e mi propose di elaborare una versione in italiano per una rivista di storia[1]. Ovviamente accettai con molto entusiasmo e mi misi subito all’opera. Prima della pubblicazione ci siamo incontrati all’hotel “Elefante” per rivedere quanto avevo scritto. Hans non solo aveva letto tutto con molta attenzione, ma nel consigliarmi qui e là qualche utile ritocco, espresse poi un forte dubbio su una nota, nella quale avevo effettivamente commentato con una punta eccessiva di sarcasmo e di acredine una citazione di Egon Kühebacher, linguista e germanista locale vicino alle posizioni patriottiche della destra tedesca. Ricordo benissimo le sue parole: “Non metterla quella nota, tra qualche anno potresti pentirti di averla scritta”. Era un’osservazione che contrastava con il mio sentire acerbo d’allora, ma per l’appunto la proiezione di una comprensione successiva, rivolta al futuro e dunque alla possibile maturazione del mio modo di giudicare certi fatti e posizioni sudtirolesi, m’impressionò molto, fino a convincermi. Quello non era soltanto un rilievo di stile (che comunque contava e conta sempre: ogni lavoro “scientifico” dovrebbe essere privo di acredine). Era come se lui percepisse già in me che, in seguito a un più approfondito esame della cultura locale, sarei stato destinato a smussare col tempo quegli estremismi tipici di una visione ancora parziale e in definitiva superficiale delle cose. Beh, aveva pienamente ragione.

Il secondo frammento, il secondo ricordo, risale a qualche anno dopo. Era il 2007, cinquantenario di “Sigmundskron”, o più propriamente del discorso tenuto da Silvius Magnago davanti a circa trentamila sudtirolesi, l’atto decisivo che portò in seguito alla profonda revisione dello statuto d’autonomia (“Los von Trient”). Qui da noi ogni occasione di questo tipo è generalmente preceduta, accompagnata e seguita da uno sciame di discussioni pubbliche sul senso complessivo e sulle prospettive dell’appartenenza di questa terra allo Stato italiano. Come ha scritto una volta Alexander Langer:Probabilmente non esiste altro luogo nel quale la storia svolga un ruolo così importante come in Sudtirolo: chi è arrivato qui prima, chi e di quale ingiustizia è stato vittima, a chi bisogna dare ragione in relazione ai fatti storici che hanno contrassegnato il recente conflitto etnico e così via. Nella foga di regolare i conti, anche grazie al contributo dei mezzi d’informazione, gli uni e gli altri tentano di scagliarsi reciprocamente addosso le pietre degli avvenimenti storici. In questo modo ricordi e conoscenze vengono filtrati attraverso le lenti etniche: ogni parte conosce gli argomenti che servono a sostenere la propria posizione ed esclude volentieri ciò che non serve a questo scopo”[2]. Ci si potrebbe chiedere incidentalmente se questo ingorgo di riflessioni, per di più complicato e intensificato dalla polifonia d’accenti corrispondenti all’ingrosso ai punti di vista dei diversi gruppi linguistici, peraltro non raramente in contrasto fra loro, costituisca una risorsa o piuttosto un elemento di pesantezza, talvolta davvero difficile da sostenere. Friedrich Nietzsche, che all’utilità e al danno della storia per la vita ha dedicato un libro fondamentale, affermava che “chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai cosa sia la felicità, e ancora peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”[3]. Certo, per uno storico dimenticare tutte le cose passate risulta senz’altro più difficile e probabilmente non costituisce una praticabile ricetta della felicità. Ma forse non occorre neppure essere sempre così drastici. Ricordare qualcosa, ecco, facendo in modo che ciò che ricordiamo acquisti sempre più spazio dal lato della comprensione e ne perda invece da quello della polemica che può insorgere (e risorgere, purtroppo) se la comprensione non ha essenzialmente di mira una visione in un certo senso “pacificata” e dunque anche “obiettiva” del passato: programma modesto, si dirà, tuttavia non avaro di soddisfazioni, a saperle cogliere. In uno di quegli incontri, dicevo, Hans fu invitato dagli Schützen alla Cusanus Akademie di Bressanone, dove ovviamente si sarebbe discusso anche di Selbstbestimmung e delle sue eventuali ricadute nell’immediato futuro (permanenza in Italia? Ritorno all’Austria? Libero Stato del Sudtirolo?) La sala era stracolma, il podio ben nutrito di referenti (l’immancabile e simpatica Eva Klotz sprizzava gioia da tutti i pori e mandava scintille dagli occhi, ché qui si fa la storia o si muore). Ovviamente la cosiddetta discussione si avvitò ben presto negli stanchi circuiti di sempre: recriminazione contro lo Stato italiano fascista e colonialista e totale incapacità di accennare, anche solo schematicamente, a una visione futura in grado di non dividere ancora la popolazione locale su fronti contrapposti. Hans stava lì, con un impercettibile sorriso a fior di labbra. Ascoltava, prendeva nota e quando interveniva era come se distribuisse gocce di calmo buon senso su un tumultuoso mare di passioni identitarie. A un certo punto qualcuno, dal fondo della sala, fece però un intervento molto aggressivo ed incauto nei suoi confronti. Il succo era questo: con quale diritto egli, cioè Hans, osava mettere in discussione la volontà del popolo sudtirolese di riprendersi il pieno controllo della propria terra, con quale autorità egli poteva dissentire da un simile proposito facendo ormai parte dei Verdi (Hans era entrato in quel movimento nel 2003) che notoriamente (notoriamente per quella platea, s’intende) sono un gruppo di traditori imbastarditi dalla troppa vicinanza coi Walschen e quindi in ultima istanza i liquidatori della secolare tradizione di questa terra? La risposta di Hans fu insolitamente veemente e venne costruita proprio smontando pezzo per pezzo l’accusa di essere un liquidatore della tradizione locale. Proprio lui, figuriamoci, fiero appartenente a una famiglia che dal 1869 guidava le sorti del più antico e prestigioso albergo brissinese, non avrebbe mai potuto glissare su un’insolenza del genere. Inutile dire che il malcapitato contestatore venne ridotto a una condizione d’imbarazzato silenzio: si era scelto il peggior avversario possibile da sfidare su un terreno che pochi istanti prima credeva di possedere e dominare completamente. Così molti capirono, almeno in quell’occasione, che il senso vivente di una tradizione rischia sovente di essere disperso proprio da quanti ritengono di esserne i più intransigenti difensori.

Mi sposto ancora un po’ avanti nel tempo e vengo al terzo e ultimo ricordo. Una volta, mentre tornavamo in auto dall’ennesima Podiumsdiskussion – stavolta organizzata a Trento, nel 2009, cioè durante l’anno delle celebrazioni hoferiane –, Hans mi disse che il suo modo di concepire la politica assomigliava al lavoro di un concierge, il portiere di un albergo o di un palazzo signorile. Qui indubbiamente agiva ancora una volta l’ironico richiamo alla sua origine familiare, o più probabilmente l’esercizio di quella “dissimulazione onesta” codificata nel celebre trattato di Torquato Accetto che porta il medesimo titolo. Io credo però che, nel suo caso, la definizione possa persino essere presa alla lettera. “Le concierge – si legge nel sito dell’Union Nationale des Concierges d’Hôtels «Les Clefs d’Or»[4]est une personne d’éxpérience qui doit faire face chaque jour aux demandes les plus diverses. L’exigence de sa profession et ses années de pratique l’on amené à acquérir une connaissance exhaustive du contexte dans lequel il évolue, son hôtel, sa ville, puis, bien sûr, son pays en général. Il est une personne de réseaux, tissés au sein de sa cité, mais aussi avec ses confrères à travers le monde, dans ces villes qui sont aussi les destinations de leurs clients communs. Pour citer encore quelques-unes des qualités du concierge, n’oublions pas qu’il doit être avant tout discret, courtois, psychologue et vif d’esprit. Il doit deviner le client qui est en face de lui sans faute d’interprétation”. Ci sono senz’altro molti aspetti, qui, che potrebbero essere letti alla luce dell’attività di uno storico e di un politico come Hans: la conoscenza esaustiva del territorio nel quale egli opera, la capacità di pervenire in modo sicuro al significato più rilevante di eventi e situazioni difficilmente comprensibili dall’esterno, per non parlare della sua cortesia, finezza psicologica e prontezza di spirito nel quotidiano confronto con tanti esponenti della vita pubblica (e non solo) sudtirolese. Curiosamente, alcune fonti fanno risalire l’etimologia della parola concierge anche all’espressione comte des cierges (conte delle candele), vale a dire colui il quale compie ronde notturne (per esempio nelle carceri, in tedesco esiste il termine Kerkermeister). Questa etimologia è improbabile, ma l’immagine è suggestiva e carica di riferimenti illuministici. Hans ovviamente sarebbe il primo a sorriderne, sfuggendo all’allusione con una battuta delle sue. Eppure, modificandone appena il senso (ma in una direzione decisiva) esiste un’ulteriore figura letteraria che a mio avviso cifra nel migliore dei modi l’attitudine – a un tempo illuministica e scettica – grazie alla quale potremmo forse trovare il segno distintivo del carattere di Hans e della sua filosofia[5]. Non ne ho mai direttamente parlato con lui, anche se m’è spesso venuto in mente di farlo, soprattutto quando nei suoi toni affioravano sfumature di evidente pessimismo (o per meglio dire: disincanto). Si tratta quindi di un azzardo. La figura alla quale sto accennando si trova ancora in Franz Kafka, in uno dei suoi fulminanti racconti. Vale la pena citarlo interamente. “Versunken in die Nacht. So wie man manchmal den Kopf senkt, um nachzudenken, so ganz versunken sein in die Nacht. Ringsum schlafen die Menschen. Eine kleine Schauspielerei, eine unschuldige Selbsttäuschung, dass sie in Häusern schlafen, in festen Betten, unter festem Dach, ausgestreckt oder geduckt auf Matratzen, in Tüchern, unter Decken, in Wirklichkeit haben sie sich zusammengefunden wie damals einmal und wie später in wüster Gegend, ein Lager im Freien, eine unübersehbare Zahl Menschen, ein Heer, ein Volk, unter kaltem Himmel auf kalter Erde, hingeworfen wo man früher stand, die Stirn auf den Arm gedrückt, das Gesicht gegen den Boden hin, ruhig atmend. Und du wachst, bist einer der Wächter, findest den nächsten durch Schwenken des brennenden Holzes aus dem Reisighaufen neben dir. Warum wachst du? Einer muss wachen, heißt es. Einer muss da sein”[6]. Sei uno dei custodi, traduce Ervino Pocar. Quindi in definitiva anche lui un concierge, un nightporter (di tanto in tanto Hans ha il vezzo di inserire nei suoi discorsi un po’ d’inglese). Comunque qualcuno che veglia, che all’occorrenza agita torce nel buio, e soprattutto che sente la responsabilità di dover essere presente.

Prima di concludere, anzi concludendo, avrei un quarto coriandolo di memoria da far volteggiare nell’aria. Se queste mie parole dovessero davvero servire a circoscrivere il senso del nostro rapporto, di un rapporto cioè basato più sul dare che sull’avere, quindi vicino all’esperienza del dono, manca forse un’ultima cosa, la cosiddetta ciliegina sulla torta. Anzi, manca proprio la torta. Ma io già una volta, ricordo, offersi ad Hans qualcosa del genere. Si trattava di una fetta di torta “scritta”, rimembrandone una, stavolta reale, offertami da lui qualche mese prima. Scrissi un articolo, un post, come si dice, sul mio vecchio blog (un blog ormai chiuso, si chiamava presuntuosamente SegnaVia) il 14 novembre del 2008, vale a dire il giorno del mio quarantunesimo compleanno e un giorno dopo il compleanno di Hans. Ricopio qui quel piccolo post perché fra l’altro penso sia una delle cose più riuscite che io abbia mai scritto (comunque una delle cose alle quali sono più affezionato). Il testo finiva con un augurio che ripeto adesso per la nuova occasione: “Tanti auguri caro Hans. E auguri anche a me”. Prima c’era scritto questo:

Ogni estate – ché succede sempre d’estate – io e Hans Heiss ci diamo appuntamento sul terrazzino dell’hotel “Elefante”, a Bressanone, dove lui in un certo senso fa sempre un po’ gli onori di casa. Io generalmente arrivo prima e ordino subito un bicchiere d’acqua tonica. Quindi inganno l’attesa leggendo i giornali. Poi, quando lui arriva, cominciamo a parlare e ordiniamo una fetta di torta e i caffè. All’“Elefante” si può gustare uno strudel eccezionale. Strudel di mele, strudel d’albicocche. Non solo uno strudel, ma l’archetipo di uno strudel. Uno strudel allo zenit. E la cosa è credibile in quanto a me, normalmente, non piace lo strudel. Ma lì, in quel contesto, chiacchierando con Hans, lo strudel, anche lo strudel, soprattutto quello strudel, acquista un gusto che non ammette preferenze alternative. Ecco. Poi la conversazione fluisce, lo strudel finisce, e le sensazioni si perdono, come le parole, nel rumore di fondo che fa la fontana, poco distante.  E la vita che passa.


[1] Gabriele Di Luca, L’influenza della cucina italiana in Alto Adige dopo il 1920, in Storia e Regione – Geschichte und Region, 10. Jahrgang 2001, Heft 2 – anno X 2001, n. 2, pagg. 91-106.

[2] Alexander Langer, Südtirol ABC, in: Aufsätze zu Südtirol, Merano 1996, pag. 335 (trad. mia).

[3] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. Milano 1990, pag. 8.

[4] http://www.lesclefsdor.org/ (ultima visita 21.08.2011)

[5] Se devo pensare a un filosofo che possa piacere ad Hans penso a Michel de Montaigne, il quale asseriva di fare “il bravo per debolezza”.

[6] F. Kafka, Nachts, in: Sämtliche Erzählungen, Frankfurt am Main 1990, pag. 309.

9 thoughts on “Coriandoli di memoria per Hans Heiss

  1. Caro Gabriele, almeno io ti scrivo, perchè è indubbio che
    non è puro caso che nella “Festschrift” non ci sei

  2. Waltraud, nella Festschrift non ci sono perché i contributi contenuti nella Festschrift sono tutti “saggi” su un argomento specifico (di tipo storico, sociologico, politico). La mia era invece una testimonianza un po’ sui generis, quindi difficile da collocare (almeno così mi hanno detto).

  3. vedi, Gabriele, quello che ho scritto, l’ho scritto, perchè ci ho pensato prima, ma oramai non ci penso più di tanto su quello che dico e scrivo, tanto quanto basta

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