Sguardi

L’articolo di Robert Maggiori, corrispondente in Italia per “Libération” (http://www.liberation.fr/monde/0101618349-l-italie-de-berlusconi-un-pays-en-voie-de-barbarisation), è duro quanto basta. Al di là della lista di fatti – noti agli italiani che si affidano un poco alla memoria – mi pare che esso ponga la questione dello smottamento dello Stivale e della sua progressiva, apparentemente inarrestabile marginalizzazione. Ma ciò che mi interessa di più è anzi tutto la questione – culturale – della percezione di noi stessi che otteniamo passando per lo sguardo di altri. Per divertirmi, mi sono esercitato a mettere a fuoco alcuni possibili contro-argomenti, puramente retorici, all’articolo. Tra questi, la cecità o la malafede degli “stranieri” è da lungo tempo il filo con cui si intessono i discorsi di una parte importante dell’opinione pubblica interna. Ma la torsione dialettica che viene generata dal meccanismo di difesa è straordinaria: di fatto, pensare che ciò che gli “stranieri” dicono non conta, o è irrilevante, o è una menzogna nata dall’invidia ecc., sarebbe la prova più elementare a conferma del nostro sguardo “provinciale”. Ma da quale punto cieco nasce tale sguardo? [rk]

Trasgressione conformista

L’immagine di un gruppo di ragazzi che, già di prima mattina, si accalcano davanti a un bar in attesa di poter cominciare ad assumere alcol è di uno squallore unico e induce tristezza. Sul perché ciò possa accadere sono state date spiegazioni di vario tipo, tutte più o meno già note, più o meno convincenti. Il vero problema è come riuscire a persuadere quei ragazzi a smettere di cercare in fondo ai bicchieri o alle bottiglie qualcosa che – solo lì – essi sono convinti di trovare. E qui purtroppo la faccenda si complica.

Da docente frequento i giovani e di tanto in tanto mi capita di raccogliere alcune dichiarazioni in proposito. Si parte generalmente da un discorso sul tempo libero, su quello che accade o può accadere fuori dalle aule. La parola “saufen” (cioè bere senza ritegno, fino a perdere il controllo) è una delle prime che mette quasi tutti d’accordo, segno di una pratica diffusa e considerata tutt’altro che eccessiva. Questo deve essere sottolineato senza infingimenti. Al contrario di altre sostanze più care o difficili da reperire, l’alcol è disponibile in grande quantità, pressoché ovunque. A cominciare da casa propria. Una soglia d’accesso così bassa e a buon mercato non può quindi che essere oltrepassata con facilità. Si tratta di un passaggio tra il mondo della prima adolescenza e quello dell’età adulta considerato canonico e probabilmente edulcorato dal racconto entusiasta degli amici, dei conoscenti più grandi, persino di qualche genitore incosciente. Bere è insomma tutt’altro che una manifestazione d’insubordinazione o di ribellione alle regole. Bere è un comportamento da conformisti spacciato per innocente trasgressione.

Torniamo all’immagine dalla quale sono partito, quei ragazzi in fila per poter cominciare a sbronzarsi. Quali provvedimenti potrebbero impedire loro di comportarsi a quel modo? Non sono un fautore della repressione, anche se la notizia di un gestore che agevoli il consumo abbassando i prezzi è francamente sconcertante e grida vendetta. Un atteggiamento così radicato e – come detto – legittimato da codici culturali ampiamente dominanti dovrebbe essere messo in questione da una capillare azione di prevenzione, in grado di agire su più fronti (famiglia, istituzioni scolastiche, luoghi di aggregazione). Probabilmente non sarebbe però abbastanza. Il salto di qualità decisivo verrà compiuto soltanto allorché le fonti del conformismo, specialmente quello fintamente “trasgressivo”, verranno intaccate da modelli di autorealizzazione alternativi e più virtuosi. Anche la politica dovrebbe promuoverne la formazione. Ma una politica che dichiari sul serio guerra al conformismo e si opponga a tendenze massificanti è molto difficile da fare.

Corriere dell’Alto Adige, 13 febbraio 2010