Dal manifesto alla vita

Volevo scrivere qualcosa – o meglio: tornare a scrivere qualcosa – sul tema dell’indipendenza sudtirolese e su alcune frasi, lette sul blog BBD, che mi hanno fatto parecchio scuotere la testa. Così, ancor prima di cominciare a scrivere, ho pensato al titolo, a questo titolo, e poi mi sono accorto che oggi, proprio oggi, gli organi d’informazione riportano la notizia del suicidio assistito di Lucio Magri, uno dei fondatori de “Il Manifesto”, tanto da volgere subito quel titolo nel suo opposto (dal Manifesto alla morte) e suscitare così un doppio senso sgradevole del quale ovviamente mi scuso.

Nel blog BBD, dicevo, ho letto una frase che mi ha fatto scuotere la testa. La riporto senza alterazioni e non ricostruendo il contesto da cui l’ho prelevata in modo da passare subito al tema che mi sono proposto di svolgere (che poi sarebbe quello del passaggio dal manifesto alla vita) sia pure in forma di fuggevole (me ne rendo conto) accenno:

… se mi potresti scrivere in un email cosa pensi come si potrá cambiare la situazione del Zusammenleben e come si potrebbe dare una nuova Heimat agli italiani qui in sudtirolo, con la quale si possano identificare veramente, costruendo und nuova identita italo-tirolese per gli italiani qui da noi, su nuove fondamenta, e buttando via la vecchia, marcia identitá illusoria che si tiene ferma sul fascismo e neofascismo, ne sarei molto contento e ti potrei mandare la mia bozza del testo.

Credo che l’autore di queste parole sia giovane (e dunque anche abbastanza inesperto). Per chi volesse conoscere il suo modo di pensare questo è l’indirizzo del suo blog personale: http://freiessuedtirol.wordpress.com/. A me preme mettere in evidenza solo l’essenziale, segnalandolo con dei brevi commenti tra parentesi quadre.

La “Zusammenleben” [tra italiani e tedeschi del Sudtirolo] deve essere cambiata. Il cambiamento dovrebbe mettere capo a un sentimento di appartenenza alla Heimat da parte degli italiani [sentimento che evidentemente oggi non c’è, o è poco sviluppato, mentre quello dei tedeschi sussiste e non ha bisogno di essere ritoccato in alcun modo]. Per mettere capo a questo nuovo sentimento d’appartenenza occorre costruire una nuova identità italo-tirolese su nuove fondamenta [forse non è un caso che il trattino di “italo-tirolese” richiami subito l’idea di un fondamento, e sia insomma un gesto interamente fondazionalista – con tutto quello che in filosofia si congiunge all’uso di questo aggettivo – a sfociare qui nella logica di un trattino capace di costruire identità inedite]. La costruzione della nuova identità, infine, dovrà essere realizzata demolendo quella vecchia (vecchia identità definita marcia, illusoria, di stampo fascista e neofascista) [l’autore non fa capire qui se quest’opera di demolizione debba essere compiuta prima d’intraprendere l’opera di costruzione della nuova identità, oppure se la demolizione si realizzerà come effetto spontaneo della nuova costruzione; inoltre neppure ci fa sapere se, assieme alla demolizione di quella vecchia identità connotata in senso totalmente negativo – marcia, illusoria, fascista e neofascista – sia in gioco anche la distruzione di un’identità positiva – rovesciando gli aggettivi di prima, direi ancora vitale, concreta, antifascista e autonomista – che pure mi sembra caratterizzi il patrimonio ideale di non pochi italiani di qui e forse persino alcuni tedeschi].

Adesso potrei diffondermi in modo molto approfondito su ciascuno dei problemi segnalati dai miei rapidi commenti. Ma la cosa, ancorché stimolante e per certi versi necessaria (alla base del frammento citato si esprime una violenza forse inconsapevole di essere tale, violenza dunque forse persino più pericolosa di quella manifesta, perché stupida e travestita da sentimenti persino nobili) allungherebbe di molto questo intervento. Mi concentrerò così soltanto sull’uso di quel trattino e sul gesto fondazionalista che ho già evidenziato. Per farlo, è sufficiente ricorrere a una citazione di Jacques Derrida, citazione contenuta nel libro Il monolinguismo dell’altro (1996)[1], suggerendone caldamente la lettura agli amici di BBD (ovviamente ai più scaltri di loro: non sono molti) e a tutti quelli che vanno da anni parlando di cose che fingono di conoscere (soprattutto per quanto riguarda le loro possibili conseguenze). Ma ecco cosa dice Derrida (e ovviamente ognuno provveda a tradurre il termine “franco-magrebino”, da lui usato nel suo contesto, nell’espressione “italo-tirolese” che serve a comprendere il nostro; e ovviamente si badi bene alle parti scritte qui evidenziate in neretto; e ovviamente si legga lentamente e si rilegga, all’occorrenza):

Secondo una legge circolare che è familiare alla filosofia, si affermerà dunque che colui che è il più, il più puramente o il più rigorosamente, il più essenzialmente franco-magrebino, costui permetterebbe di decifrare cosa è essere franco-magrebino in generale. Si decifrerà l’essenza del franco-magrebino sull’esempio paradigmatico del “più franco-magrebino”, del franco-magrebino per eccellenza. Se supponiamo ancora – il che è tutt’altro che certo – che ci sia una qualche unità storica della Francia e del Magreb, la “e” non è comunque mai data, ma solo promessa o addotta. È di questo che in fondo dovremmo parlare, è di questo che non smettiamo di parlare, anche quando lo facciamo per omissione. Il silenzio di questo trattino non pacifica o non calma niente, nessun tormento, nessuna tortura. Non farà mai tacere la loro memoria. Potrebbe addirittura aggravare il terrore, le lesioni e le ferite. Un trattino non basta mai a coprire le proteste, le grida di collera o di sofferenza, il rumore delle armi, degli aerei e delle bombe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 


[1] Ed ecco un caso davvero curioso: riprendendo in mano il libro per ricorrere alla citazione che segue, ho rinvenuto tra le sue pagine una copia del „Manifesto“ di BBD. Non ricordo in nessuno modo perché e quando l’abbia messa lì. Ma giuro che stava proprio lì.

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