Il medico che chiese perdono

100 anni fa nacque a Venezia lo psichiatra Franco Basaglia. Un’occasione per riflettere sulla sua eredità, anche in Sudtirolo.

Al pari di Mauro Covacich nel libro “Storia di pazzi e normali” (Laterza 2007), possiamo partire anche noi dal “Posto delle fragole”, cioè sia dalla scena del bar-ristorante ubicato nel parco dell’ex Ospedale Psichiatrico San Giovanni, a Trieste, sia dal film che porta lo stesso nome. Riferimenti obbligati. Fu proprio infatti da quel luogo che, nel 1978, si diffuse l’annuncio della chiusura dei manicomi italiani (Trieste il primo, poi via via tutti gli altri). Come noto, la legge che permise un tale progresso porta due titoli. Quello scarno, relativo alla sua numerazione cronologica (180/78), e quello che la identifica con il nome del suo principale promotore, Franco Basaglia, lo psichiatra che riuscì “a rendere possibile l’impossibile”. E poi il film, il capolavoro di Ingmar Bergman uscito nel 1957. Proprio una sequenza di quella pellicola illumina il senso di un approccio alla salute mentale (ma anche alla salute sociale, ché con Basaglia le cose si implicano) ineludibile in tempi, come questi, di rinnovate chiusure o rigidità istituzionali.

Ecco il vecchio medico Isak Borg, dunque, che sogna di ripetere un esame universitario, una prova intesa non solo a sondare le sue conoscenze, ma anche la sua vita, al momento trattenuta in un cono di profonda oscurità esistenziale. L’esaminatore ha impresso sulla lavagna una frase misteriosa, scritta in una lingua indecifrabile come quella dei pazzi (“Inke tan magrov stak farsin los kret fajne kaserte mjotron presete”), nella quale si celerebbe la definizione del “primo dovere di un medico”. Borg non sa rispondere, è frastornato, come se tutte le sue presunte certezze si sfaldassero a contatto con una realtà diventata sfuggente e ostile. È allora l’esaminatore a rivelare il senso di quella frase, cioè quale sia il dovere essenziale di un medico: chiedere perdono! Ma chiedere perdono a chi, per cosa? E soprattutto: cosa c’entra questo sogno, questo apologo, con Basaglia, la sua riforma e la sua eredità?

In un volume dedicato al tema della “diagnosi”, anche Vittorio Lingiardi si è servito della citazione bergmaniana per parlare del rischio che fra il medico e il paziente possa emergere una relazione asimmetrica, in ultima istanza violenta: «Storie di condizionamento, manipolazione psicologica, abuso fisico e sessuale, sfruttamento economico, imperizia e negligenza sono ahimé frequenti nel mondo delle professioni di assistenza, cura, insegnamento e formazione. Più forte è la luce, più grande è l’ombra» (cfr. V. Lingiardi, “Diagnosi e destino”, Einaudi 2018). Ora, se ciò è vero in generale, ecco il punto decisivo individuato da Basaglia, nel caso della cosiddetta psichiatria asilare, dunque all’interno dei manicomi, era solo l’ombra a sussistere, perché i condizionamenti, le manipolazioni e gli abusi non si davano lì come eccezioni, bensì rappresentavano la regola. E neppure addolcire, rendere il più possibile “umana” l’istituzione preposta alla sorveglianza e al controllo di chi non veniva considerato “normale”, poteva offrire una soluzione. Ispirandosi alle acquisizioni della fenomenologia, si trattava perciò di mettere tra parentesi, azzerare le dinamiche operanti sia dentro che fuori le mura dei manicomi, che infatti possono sopravvivere al loro abbattimento e riprodursi in altri modi (per esempio lasciando sempre più campo alla contenzione farmacologica). Occorreva, insomma, deistituzionalizzare la stessa psichiatria: «Per far questo bisogna che noi stessi – gli appaltatori del potere e della violenza – prendiamo coscienza di essere a nostra volta esclusi, nel momento stesso in cui siamo oggettivati nel nostro ruolo di escludenti» (F. Basaglia, “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, Einaudi 1968).

Dopo aver chiesto perdono, dopo aver abbattuto i muri dei manicomi, e dopo aver capito che l’unica misura terapeutica efficace è in primo luogo quella di ridare dignità ai malati, restituendo loro la libertà e la soggettività, cosa resta? Sono state effettivamente realizzate misure in grado di spezzare l’asimmetria della quale parlava Lingiardi e, conseguentemente, si è corrisposto al progetto basagliano consistente nel «rifiutare l’atto terapeutico qualora tenda solo a mitigare le reazioni dell’escluso nei confronti del suo escludente»? A rispondere è Antonio Luchetti, medico e psichiatra formatosi presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e attualmente operante a Merano, al quale chiedo di parlarmi del lascito basagliano, eventualmente focalizzando anche la nostra provincia: «Non ne farei una questione locale. Se il movimento ha portato ad una deprofessionalizzazione delle pratiche “psichiatriche”, e a una sua despecializzazione, sospendendo i propri saperi per agire in modo trasformativo e politico sul reale, purtroppo poi si è assistito un po’ ovunque all’emergere di nuove forme di istituzioni diffuse, abitate da una psichiatria che si è riorganizzata, ritecnicizzata e riaffermata come branca medica biologica e neuroscientifica in grado di sostenere pratiche anche e tutt’ora, in alcuni casi e in alcune forme, violente». Un consuntivo alquanto disilluso, che non vuole nascondere i problemi attuali dietro le celebrazioni suggerite dal calendario: «Credo che il ricordare Franco Basaglia a 100 anni dalla sua nascita, e il movimento collettivo che assieme a lui si è costituito, non debba promuovere la costruzione di un monumento ideologico ma proseguire nello smontaggio della tendenza a semplificare della psichiatria, del suo confondere potere (ed educare) con sapere (e cura), portando invece alla costante definizione di pratiche, alla creazione di alleanze tra diversi attori e all’invenzione di strategie che della sofferenza dell’uomo possano farsi carico anche fuori dai luoghi in cui riteniamo siano ancora confinati quelli che stanno male».

Chi si è sempre dimostrato attento a non “monumentalizzare” Basaglia, recependone anzi lo stimolo a muoversi tra i margini, ad apprezzare le sfumature e gli scarti di ambiti che altri pretenderebbero di trattare in modo separato, è Aldo Mazza, il fondatore della scuola Alphabeta, e poi dell’omonima casa editrice meranese, che proprio all’eredità di Franco Basaglia dedicò nel 2011 la collana “180. Archivio Critico della Salute Mentale”. Oggi quel prezioso catalogo è stato acquisito dalla casa editrice Meltemi, che da poco ha ristampato la monografia sul grande veneziano scritta da Mario Colucci e Pietrangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori 2001, Edizioni alphabeta Verlag 2020, Meltemi 2024). A Mazza ho chiesto perché, nonostante il suo impegno e l’indubbio successo della collana (un film – “Il viaggio di Marco Cavallo” – sulla chiusura degli OPG, 26 titoli, 38.000 volumi venduti), in Sudtirolo il riscontro sia stato minimo: «Innanzitutto c’è da dire che l’impostazione basagliana non sia mai stata qui, in provincia di Bolzano, particolarmente apprezzata o comunque recepita. Altre le sfere d’influenza, e i pochi psichiatri che vi si riferivano non hanno potuto disporre di un ambiente propenso a cogliere appieno il messaggio della deistituzionalizzazione. Per quanto riguarda i nostri libri, poi, bisogna dire che il fatto di essere stati pubblicati in italiano non ha certo favorito la loro diffusione all’interno della Heimat. Del resto, è vero anche che la rete promozionale che abbiamo sfruttato era orientata in gran parte fuori dai nostri confini, quindi non potevamo aspettarci molto di più». Il passaggio della collana 180 a un editore a tutti gli effetti nazionale, questo l’auspicio di Mazza, potrà forse consentire alla figura di Basaglia di essere conosciuta e valorizzata come senza dubbio merita.

ff – 11 aprile 2024

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