Il veleno del nazionalismo

Ettore Tolomei (1865-1952)

Ettore Tolomei è l’“uomo nero” dell’Alto Adige, colui che in modo ossessivo cercò di imporre il sigillo dell’italianità su un territorio geo-politicamente instabile. Il giornalista e storico Maurizio Ferrandi ripubblica, aggiornandola, una sua esaustiva biografia già apparsa nel 1986.

Il suo libro appena pubblicato da Edizioni alphabeta Verlag era già uscito molti anni fa. Quali sono state le riflessioni che hanno portato a questa ristampa?

Nel 1979, giovane cronista, mi interrogai davanti ai resti mortali di Tolomei, scagliati lontano dalla tomba dall’ultimo attentato, sulla straordinaria persistenza di un odio che superava le barriere del tempo. Fu una curiosità che mi spinse a seguire per qualche anno la vicenda umana di un personaggio nato in pieno Risorgimento e morto ai tempi della prima autonomia altoatesina. Un viaggio culminato, nel 1986, con la pubblicazione della prima biografia per i tipi della trentina Publilux. Un anno fa l’editore Aldo Mazza mi ha proposto di riprendere il tema in un libro della collana Territorio & Gesellschaft, che già ospita i due volumi del mio lavoro sulla questione altoatesina dal 1918 al 1992. Ho lavorato sui testi di allora, approfondendo soprattutto i caratteri dell’ossessivo nazionalismo che contraddistingue l’esistenza di Tolomei. Da qui anche il cambio di titolo, che cerca di focalizzare i tratti peculiari di un carattere politico e umano al tempo stesso.

Nonostante le peculiarità ascrivibili al suo carattere individuale, Tolomei può essere, appunto, anche considerato un figlio del suo tempo. Che genesi culturale hanno le sue idee?

Tolomei nasce, come detto, in epoca risorgimentale. La sua famiglia, a Rovereto, è tra quelle che coltivano con maggior passione i miti e le glorie del processo che ha portato all’unificazione italiana. Sono i cosiddetti “italianissimi” che non condividono il tentativo di un’altra parte considerevole del mondo trentino di trovare, attraverso un’autonomia più o meno ampia, una collocazione nel mosaico dei popoli che formano l’impero austro-ungarico. Tolomei cresce in questo ambiente travagliato da contrastanti tensioni identitarie, nel suo soggiorno italiano approda sulle sponde dell’irredentismo più marcato e scivola infine, come molti altri compagni di strada, nel fiume del nazionalismo che predica un futuro di gloria e di dominio per un’Italia memore dei fasti della romanità.

All’inizio della sua attività pubblicistica Tolomei non riscuote molto successo. Poi le cose cambiano e il suo lavoro, condensato soprattutto negli scritti della rivista “Archivio per l’Alto Adige”, diventa decisamente influente. Può ricordarci questi passaggi salienti?

Nel momento in cui Tolomei, e siamo agli inizi del Novecento, si pone come obiettivo unico della propria azione politica la rivendicazione dell’italianità della parte tedescofona del Tirolo cisalpino, cui assegna il nome di Alto Adige, recuperato dagli archivi di una brevissima esperienza amministrativa durante il periodo napoleonico, questa terra è del tutto estranea alla coscienza politica italiana. Sono Trento e Trieste le mete ambite dagli irredentisti, frustrati dall’adesione dell’Italia alla Triplice con Austria e Germania. Il lavoro di Tolomei resta marginale e ignorato quasi del tutto sino allo scoppio della guerra. Poi il confine del Brennero, incluso nel Patto di Londra, si afferma come un’esigenza strategica irrinunciabile. Allora il lavoro di Tolomei si rivela utile per rivestire con qualche considerazione storico-geografica la pretesa.

La vulgata che stigmatizza l’opera di Tolomei, soprattutto quella relativa alla toponomastica, ne sottolinea i tratti arbitrari e distorcenti. Ma è possibile riscontrare (ed eventualmente parzialmente difendere) una base “scientifica” del suo lavoro?

Quando si affronta l’argomento bisogna ricordare che Tolomei stesso non diede mai al suo lavoro uno scopo di mero approfondimento scientifico. Dal primo numero dell’Archivio in poi fu sempre chiarissimo nell’affermare che l’obiettivo era quello di dare a ciascun luogo dell’Alto Adige un nome italiano per riaffermarne l’italianità: “sino all’ultimo casolare”, come scriveva. Che poi da parte sua e dei suoi collaboratori si sia cercato, laddove possibile, di recuperare toponimi antichi, non difficilissimi da trovare in una terra di confine, è altra cosa. Ma dove questa opportunità non si presentava, Tolomei stesso imponeva i criteri della traduzione, dell’adattamento e anche della pura e semplice invenzione.

Come ricordava all’inizio, Tolomei ha raccolto molto odio. Lui stesso ha voluto che all’interno della sua tomba fosse presente una scritta che recita “mi odino pure, basta che mi temano”. Ma possiamo davvero dire che lui sia, ancora oggi, così temuto?

Tolomei è ancora “l’uomo nero” citato nei calendari popolari tirolesi. Nella sua figura confluiscono tutti gli aspetti che i sudtirolesi detestano di più quando evocano l’Italia e gli italiani. Grazie a un’autobiografia scritta in tarda età – e nella quale rivendica anche la responsabilità di passaggi storici aberranti, come le opzioni del 1939, in cui per la verità non ebbe politicamente alcun ruolo –, Tolomei è diventato il vero e proprio genio del male la cui memoria viene maledetta in eterno, così come essa viene annualmente onorata dai politici italiani della destra estrema che salgono, il 4 novembre di ogni anno, a deporre una corona sulla sua tomba.

Giungeremo mai ad una completa storicizzazione di questa figura (e della sua opera), depotenziando così i temi che contribuiscono a spargere il veleno del nazionalismo sulla nostra terra?

Per i nazionalisti i nomi e i monumenti sono elementi fondamentali da utilizzare per rivendicare e dimostrare al mondo il possesso di una terra. Tolomei, nazionalista perfetto, volle imporre i nomi italiani e cancellare quelli tedeschi per questa ragione. Oggi il dibattito sulla cancellazione di una parte più o meno consistente dei nomi italiani sottende, anche se non si vuole o non si può dirlo, l’accettazione o il rifiuto del fatto che la storia, con passaggi sicuramente traumatici, abbia costruito in questa terra una realtà in cui diversi gruppi cercano una difficile convivenza. Ritengo insomma sia molto difficile che, proprio per queste tensioni sotterranee, si possa arrivare in breve tempo ad una soluzione concordata e accettata da tutti.

Dobbiamo allora smettere di ambire a costruire una società che si evolva secondo dinamiche culturali e politiche post-nazionali?

Appare francamente improbabile pensare ad un Alto Adige-Südtirol, ma anche ad un’Europa o a un mondo definitivamente liberi dalle tensioni dei nazionalismi. Basterebbe l’esempio dell’ex Jugoslavia a ricordarci come non siano bastati decenni di politica degli equilibri etnici per cancellare antiche e feroci rivalità. Volendo comunque mitigare un po’ il pessimismo: l’ultimo mezzo secolo, per esempio qui da noi, ha dimostrato anche come una politica di ricerca faticosa, talvolta criticabile, ma paziente e duratura del compromesso, favorita dall’evoluzione della società in ambito europeo, abbia consentito di lasciarci alle spalle la snazionalizzazione fascista e la folle corsa verso la guerra civile degli anni Sessanta. È la strada da percorrere, tuttavia senza mai illudersi che le pulsioni nazionalistiche vengano sconfitte una volta per tutte.

ff – 8 ottobre 2020

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