I fantasmi del Sudtirolo

Libro di formazione generazionale, reportage narrativo e “conte phantasmatique”: il primo romanzo di Flavio Pintarelli invita a sciogliere le catene di un passato che stenta a passare.

Nella sua cartografia letteraria di recente aggiornata, lo storico Carlo Romeo colloca il nome di Flavio Pintarelli (1983) all’interno di una tendenza databile forse già a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, e poi sempre più marcata a partire dagli anni Duemila, che viene definita “glocal”. Parliamo perciò di una scrittura volta a perfezionare un «definitivo allontanamento dalla proposizione di immagini tipiche di un certo regionalismo (i valori della tradizione, del paesaggio, della comunità), le quali anzi, quando compaiono, sono termine di opposizione e rifiuto. Al loro posto subentrano invece nuovi paesaggi umani colti attraverso il filtro soggettivo, ironico e spesso autoironico, dei giovani intellettuali narranti, che raccontano la propria continua ricerca di un ubi consistam» (C. Romeo, “Scorci di un confine. L’Alto Adige in un secolo di letteratura”, Edizioni alphabeta Verlag, 2023, pagg. 209-212).

Specificando ulteriormente, l’autore del quale ci occupiamo rappresenterebbe la focalizzazione del «rapporto ambivalente con “mamma provincia” da parte dei giovani che per un periodo più o meno lungo se ne sono allontanati», e la citazione prelevata per illustrare tale ambivalenza – da uno scritto pubblicato da Pintarelli tre anni fa (“La carne delle cose”, in “Manaròt”, Nachlass, 1, dicembre 2020) – ci porta già nelle immediate vicinanze del tema sviluppato nel primo romanzo del giovane scrittore bolzanino (“Il velo”, Edizioni alphabeta Verlag, 2023, Euro 15.00), in libreria da alcuni giorni: «Poco meno di dieci anni è durato quell’esilio volontario, che io e come me anche altri, amici o sconosciuti, avevamo promesso sarebbe stato per tutta la vita. Poi sono tornato – siamo tornati in molti a dire il vero, quasi tutti – portandomi dietro questo senso d’assenza a un luogo che in quei rari, cadenzati ritorni a casa che il calendario ci concedeva, mi sembrava sempre uguale a se stesso, immobile, immune allo scorrere del tempo».

Il protagonista della storia – 200 pagine di testo, composto con diversi registri: da quello propriamente romanzesco agli inserti di reportage narrativo, si fa per esempio cenno a diversi fatti salienti occorsi in provincia negli ultimi anni, e persino di carattere paranormale – è un copyrighter trentenne, Alex, dietro al quale traspaiono esperienze e riflessioni che sottendono chiaramente la biografia del suo creatore. Una volta rimpatriato a Bolzano, egli si mette alla ricerca di una stabilità (professionale, ma anche familiare) tesa a risolvere la contraddizione che lo lacera: non restare impigliato nella trama di istituzioni (ma anche di pose, di attitudini) avvertita come esausta e cadaverica, e dalla quale aveva in passato tentato di scampare proprio sottraendosi alla calamita dell’origine. L’occasione gli è data dalla commissione procuratagli da un “angelo salvatore”, nella figura della direttrice di una casa editrice locale (dal nome che profuma di gerani: Brennende Liebe), Arianna Lanzinger, la quale intenderebbe servirsi del talento di Alex per dare alle stampe una guida turistica che illustri l’Alto Adige facendo scorgere più di «quanto la gente sia abituata a credere». Una guida concepita insomma alla maniera di un quadro a un tempo rustico e glamour, in grado di mostrare «come questa terra sia cambiata o stia cambiando, e come abbia saputo diventare contemporanea senza perdere il suo attaccamento alle tradizioni, la sua affascinante innocenza».

Chiarito l’intento, spunta però subito la sostanziale difficoltà di metterlo in pratica. Il correlativo oggettivo che si pone di traverso, l’ombra che cade tra l’idea e l’atto (per usare il famoso verso della poesia “The hollow men” di Eliot), assume infatti la forma simbolica della mummia del Similaun: «Fissai le orbite vuote, il cranio lucido e il ghigno che aveva stampato sulle labbra: vi scorsi una venatura di beffa. Pensai che sarei presto tornato polvere mentre lui, defunto da secoli, avrebbe continuato a esistere. Mi colse lo sgomento. Poteva davvero cambiare, una terra che si era scelta una mummia per nume tutelare?». Nella descrizione che il sito del Museo archeologico dà della mummia è già “velata” la sfumatura ideologica, quindi per nulla “innocente”, che ricopre la nuda esibizione del reperto: «Ötzi, l’uomo venuto dal ghiaccio, è una delle mummie più antiche al mondo: si stima che abbia oltre 5.000 anni. Colto all’improvviso dalla morte, il pastore è rimasto conservato nel ghiaccio con tutto il suo abbigliamento e con numerosi attrezzi finché non è stato ritrovato, nel 1991, da escursionisti nei pressi del Giogo di Tisa». Estratto dal sepolcro naturale che lo nascondeva, si palesa anche tutta la propaganda, essenzialmente commerciale, di un luogo spacciato come esempio riuscito d’incontaminata longevità delle sue strutture di fondo. Ha scritto ancora Pintarelli in un articolo che spiega la presenza dell’immagine di Julie Andrews tratta dal film “Tutti insieme appassionatamente” (The sound of music, 1965) sulla copertina del libro: «Senza narrazioni in grado di creare altre immagini […] la sola identità con cui possiamo negoziare è quella costruita ad arte per vendere la nostra terra ai turisti. Un’identità inamovibile che è non soltanto una teoria di falsi miti, ma è anche il calco di un passato che ci ostiniamo a non voler far passare». A questo punto, il presupposto della guida orientata a sintetizzare brillantemente – o piuttosto: ipocritamente – contemporaneità e tradizione (come negli auspici della committenza) si rovescia in una decostruzione delle mitologie che, alla maniera di fantasmi ostinatamente persistenti, ci obbligano sempre a torcere il collo all’indietro.

Il termine “fantasmi” sia preso alla lettera, dato che “Il velo”, e in ciò a mio avviso risiede la sua chiave di lettura più stimolante, è attraversato da una vera e propria teoria degli spettri. Pintarelli vi ricorre convocando in modo esplicito le riflessioni che pensatori come Jacques Derrida, Simon Reynolds e Mark Fisher hanno intessuto sul concetto di “Hauntology”, vale a dire la dipendenza che qualsiasi fenomeno presente trae da un insieme di condizioni che lo precedono, rendendolo “inquietante” proprio perché eternamente revenant, redivivo. I fantasmi si annunciano con un sibilo che filtra dalle tubature della vecchia casa in cui Alex e la sua compagna, Serena, abitano, tormentando il protagonista con la minaccia di un substrato che gli apparirà impregnato da antiche, perturbanti leggende (come quella delle tre “vergini” di Maranza: Aubet, Cubet, Quere). Si tratta, peraltro, di racconti che sul piano soprannaturale trovano una corrispondenza geologica molto concreta, così come il Radon – un gas formatosi nel terreno a causa del decadimento dell’uranio presente nel suolo, la cui alta presenza fu constatata nel luogo del ritrovamento di Ötzi – potrebbe essere all’origine anche degli strani decessi di chi ebbe più direttamente a che fare con la mummia: «Quel cadavere è rimasto sepolto là sotto per millenni. Non mi stupirebbe se avesse iniziato a fare quello che l’Alto Adige fa da sempre».

Ma esiste una via d’uscita da questa micidiale coazione a ripetere, è possibile cioè bonificare il Lebensraum sudtirolese dai fantasmi arcaici che lo infestano, e sollevare il velo di purezza apparente sotto al quale essi, ricoperti dalle strategie del marketing cosmetico tipico della nostra società neoliberale, amano nascondersi? La posta in gioco – suggerisce alla fine l’autore, lasciando udire un vagito di liberazione – non è di poco conto, giacché ne va della reazione alla “lenta cancellazione del futuro” (l’espressione, di “Bifo” Berardi, è posta non a caso al centro delle pagine hauntologiche di Fisher che si saldano alle sue critiche del “realismo capitalista”) della quale stiamo tutti soffrendo senza neanche quasi più accorgercene.

ff – 11 maggio 2023

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