Democratura afascista

In margine ai trascorsi festeggiamenti del 25 aprile: perché è ancora necessario dichiararsi antifascisti?

Appena qualche giorno fa, sul numero 100 – anno XXIX – del quotidiano “Il Foglio”, Andrea Muniz ha definito il 25 aprile (data dedicata, come noto, alla celebrazione della “Liberazione”) un “laboratorio di isteria italiana”. L’obiettivo polemico, stavolta, si è concentrato in particolare sulla mancata (perché negata) partecipazione dello scrittore Antonio Scurati a un programma della televisione pubblica. Poco male, dà a intendere Muniz rischiando di annegare un po’ nel suo stesso brodo sarcastico, tanto da quel palco l’autore della tetralogia “M” non avrebbe fatto altro che esibire un “antifascismo grottesco”, quello che commuove le “anime belle”, sempre e comunque felicissime di sfogare la propria “isteria” allestendo una “bolsa commedia” nel giorno più isterico di tutti. Quello, appunto, della “Liberazione”. Insomma, Scurati si goda pure la pubblicità immeritata che il suo vittimismo (“Il grande bluff”) gli ha procurato, noi tireremo dritto.

Fermiamoci invece un attimo. Com’è possibile affermare, per giunta con tono irrisorio, che il 25 aprile rappresenterebbe un caso di “isteria”, un palcoscenico buono soltanto a soddisfare un “antifascismo grottesco”, per di più ostaggio di pochi incorreggibili, tanto che sarebbe molto meglio trascorrerlo dedicandosi a occupazioni più divertenti? La tesi dell’obsolescenza del fascismo (e dunque anche dell’antifascismo: simul stabunt, simul cadent) non è nuova. In un libro di qualche anno fa, ma ancora assai utile per ricostuirne la genesi, Filippo Focardi (“La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi”, Laterza 2005) illumina il taglio che più ci interessa, non solo, come prevedibile, riferendosi alle classiche posizioni neofasciste (quelle ci sono sempre state e ci saranno sempre), ma anche a partire dal tentativo, anticipato negli anni Ottanta dall’allora leader socialista Bettino Craxi, di relativizzare o superare la radice antifascista della democrazia italiana al fine di creare una base di consenso meno divisiva. Scrive Focardi: «Il crollo del comunismo dopo il 1989 e la crisi dei partiti della Prima Repubblica hanno […] impresso un’accelerazione alla crisi della narrazione e del paradigma antifascisti. Si è fatta pressante la richiesta di una nuova memoria pacificata corrispondente al nuovo assetto bipolare del sistema politico italiano. Una memoria che, [come sostenne l’allora presidente della Camera Pier Ferdinando Casini], dovrebbe essere costruita su basi diverse da quelle poste nel dopoguerra dalla “storiografia figlia dell’arco costituzionale”, ancorata alla “pregiudiziale antifascista”». Da qui in poi si farà sempre più largo un’argomentazione subdolamente avvolgente, nel frattempo divenuta dominante, secondo la quale la lotta di liberazione (e con essa la “guerra civile”) sarebbe stata in realtà condotta da fazioni fortemente ideologizzate ma prive dell’appoggio convinto della popolazione. Una popolazione amorfa, disorientata, dunque perlopiù coinvolta passivamente nello scontro restando impigliata in una posizione di sospensione e qualunquistica attesa. E se ciò già accadeva mentre scorreva il sangue, figuriamoci oggi, quando a scorrere sono soprattutto superficialità e ignoranza.

Torniamo a Scurati (che nel frattempo i soliti burloni avranno già ribattezzato Oscurati) e al suo monologo prima vietato, poi diffuso per altre vie in reazione a tale divieto. Il passaggio più interessante è quello finale, in cui lo scrittore si rivolge quasi direttamente alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, accusandola di non riuscire a pronunciare la parola “antifascismo” e quindi prefigurando che, senza proferire tale parola, «lo spettro del fascismo [continui] a infestare la casa della democrazia italiana». Si tratta di un timore che possiamo definire isterico? Lo sarebbe, al limite, se Scurati attribuisse al termine fascismo il significato esclusivo di “violenza politica sistematica”, vale a dire la forma manifestamente assunta nel famigerato Ventennio. Esiste però una sfumatura pure appartenente al fascismo storico che in qualche modo gli è sopravvissuta, si è ispessita, e che lo stesso Scurati – in un testo pubblicato di recente – ha definito “seduttiva”: si tratta della sua vocazione più manipolatrice che violenta, più populista che dittatoriale. E può essere caratterizzata così: «[Mussolini] capì che il fascismo non disponeva soltanto della violenza che annienta l’avversario fisicamente, ma poteva altresì avvalersi della brutalizzazione della vita politica capace di annientare il pensiero. […] Così la propaganda del populismo fascista batté insistentemente su questo tasto: la realtà non è complessa come te la presentano i vecchi liberali che predicano l’idea della rappresentanza proporzionale parlamentare; la realtà non è complicata come te la raccontano i socialisti con le loro astruse teorie, la dottrina marxista, la struttura, la sovrastruttura eccetera; la realtà è molto più semplice» (A. Scurati, “Fascismo e populismo. Mussolini oggi”, Bompiani 2023). Al bando le inutili sottigliezze, finiamola una buona volta con l’essere divisivi, si tratta solo di trovare un “NOI” sufficientemente ampio a contenerci tutti (la prima soluzione a portata di mano: siamo tutti italiani, limitiamoci a dichiararci orgogliosamente tali e scurdammoce ‘o passato), e soprattutto cerchiamo un nemico facile da emarginare, una minoranza da sbeffeggiare e alla quale togliere la voce. La truce dittatura è diventata impossibile? Niente paura, ecco qui una bella e sorridente “democratura”, per citare l’espressione con la quale Predrag Matvejevic ha descritto i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici: scrivete “Giorgia” (o Viktor, o Donald…) sulla scheda elettorale e let’s make our country great again!

Restano solo poche osservazioni da fare. Senza alcuna isteria, ma ragionevolmente scoraggianti. Se, come suggeriva Muniz nell’articolo citato all’inizio, l’antifascismo è solo un residuo ideologico di una minoranza isterica, se il fascismo non esiste più perché il fascismo al quale tutti pensano si riassume esclusivamente nella sua variante arcaica e violenta, l’unico modo di affrontare queste “bolse” ricorrenze rimaste sul calendario (chissà per quanto tempo ancora) sarà quello di imitare lo smagliante vicepresidente del Consiglio provinciale di Bolzano, Marco Galateo, il quale ha davvero preferito presenziare a una fiera sul “tempo libero” – unendosi felice alla mascotte di Alperia Sport Hero – anziché reggere il moccolo istituzionale ad Arno Kompatscher, poi singolarmente stupitosi di aver smarrito per l’occasione la sua ombra tricolore. Come affermano in modo assai pertinente Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati (“La democrazia afascista”, Feltrinelli 2024), adesso ci si può benissimo spacciare per democratici senza essere antifascisti (o dichiararsi candidamente afascisti pur restando “fascisti di risulta”). Intanto, già all’orizzonte, affiora qualcosa contro cui potremmo andare a sbattere: «Uno degli obiettivi di questa revisione ideologica generale – prevedono amaramente i due autori – sarà quello di reinterpretare e riformare la Costituzione, svilendola della sua linfa vitale, dando della democrazia un significato minimalista e avaloriale: appunto come di una regola che serve a stabilire chi comanda. Gli articoli della prima parte della Costituzione dovranno essere declassati a prefazione datata, come l’antifascismo; al massimo, potranno restare come un decalogo di buoni sentimenti. Quel che conta sarà mettere mano alla seconda parte, per redifinire la democrazia elettorale». Purtroppo non si vedono in giro molte persone consapevoli di tale rischio.

ff – 9 maggio 2024

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